Cinque indimenticabili finali di Coppa delle Coppe

Crampi Sportivi
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11 min readSep 6, 2016

La formula recitava “martedì Coppa Uefa, mercoledì Champions e giovedì… Coppa delle Coppe”. La santa trinità del calcio europeo si è protratta per quasi 40 anni, prima che l’Uefa capisse che l’allargamento della Champions League e la sua crescente popolarità avrebbero comunque ammazzato le altre due coppe. Ma se la vecchia Coppa Uefa ha mantenuto il suo trofeo e cambiato nome per creare un brand, la Coppa delle Coppe ha ringraziato e salutato tutti.

Dopo la finale del ’99 il nuovo millennio non vedrà più la competizione per vincitori delle coppe nazionali, per cui non si vedranno più storie come quelle del Mechelen, del Real Saragozza o del Parma dei primi anni ’90, narrazioni calcistiche che rappresentano comunque un unicum, e che quindi vale la pena ricordare.

Uno dei pochi lasciti positivi della presidenza Uefa Platini è forse il tipo di distribuzione delle squadre in Champions, che garantisce rappresentatività e meritocrazia. La meritocrazia è data dal ranking Uefa, che non ha certo premiato la scarsa considerazione dell’Europa League da parte dei nostri club (quattro semifinali negli ultimi dieci anni è il massimo che abbiamo raggiunto) e la nostra incapacità di reinventarci a livello europeo.

La rappresentatività è garantita dalla possibilità per diversi paesi di esser comunque presenti alla fase finale della competizione tramite la divisione tra il percorso per i campioni nazionali e quello riservato ai piazzati. In questo scenario, purtroppo, siamo il movimento che più volte si è incagliato contro lo scoglio dei preliminari: sei volte su otto non ce l’abbiamo fatta. E in due di queste, probabilmente, si può anche dire fossimo nettamente favoriti. L’ultima dèbacle romanista rientra in questa casistica.

Il piano riguardo la nuova Champions, invece, dovrebbe prevedere quattro club direttamente ai gironi per i primi quattro paesi del ranking. Questo non cambia molto per quella che è la situazione calcistica di Spagna, Inghilterra e Germania al momento, paesi che si confermano saldamente ai primi tre posti per presenze. Cambia invece per noi, che passiamo dal 2 + 1 alle 4 squadre senza troppi meriti sportivi. In barba a qualunque meritocrazia e a discapito di qualche altra piccola federazione che si è sudata determinati risultati negli ultimi anni (notare il miglioramento del Kazakistan o dell’Azerbaigian a livello di club).

Un esempio, il Qarabag FK.

Un lato positivo c’è in parte, perché conterà anche il passato del club, ma meno di quanto la stessa ECA avesse sperato. I club di maggior prestigio sognavano delle wild card per meriti storici, con Milan o Inter a prendere un biglietto gratis per la Champions perché il passato di queste ultime due peserebbe di più in termini di ranking.

In questo scenario, al di là della facile nostalgia, è importante ricordare come sia stato possibile, in passato, produrre momenti di grande calcio in contesti diversamente organizzati. È il caso della Coppa delle Coppe, il cui grande potenziale narrativo, oltre che calcistico, abbiamo voluto omaggiare ricordando cinque finali che ne hanno definito la storia.

1973 — La maledetta Salonicco

Se siete degli appassionati totali di calcio, nella vostra filmografia non manca sicuramente “Il maledetto united”, la pellicola che racconta i 44 giorni di Brian Clough alla guida del Leeds United. Clough ha sostituito l’amato Don Revie (13 anni alla guida del club), diretto verso la guida della nazionale inglese. Nonostante quel film racconti di un fallimento, le carriere dei due hanno avuto direzioni ben diverse.

Clough è diventato uno degli allenatori più iconici della storia del calcio britannico, creando il miracolo Nottingham Forest. Revie, invece, ha fallito nel portare l’Inghilterra all’Europeo del ’76 e al Mondiale del ’78, finendo ad allenare negli Emirati e non ripetendo mai più i fasti del Leeds United tra anni ’60 e ’70. Fasti che hanno portato due titoli nazionali.

Nel film questa sequenza è una replica di quanto avvenuto in un dibattito tra i due in un programma nello Yorkshire.

Quel Leeds — anche dopo Revie — ha raggiunto la finale di Coppa dei Campioni, ma non è stata la prima finale europea. La Coppe delle Coppe ha iniziato il suo percorso da un decennio, ma il Leeds arriva all’ultimo atto del Kaftanzoglio Stadium nel 1973. Di fronte il Milan guidato non più solamente da Nereo Rocco (diventato direttore tecnico), ma da Cesare Maldini, ritiratosi e alla prima esperienza in panchina.

È l’anno della Fatal Verona, di un campionato perso al foto-finish. Tuttavia il Milan ha vinto la Coppa Italia ed è arrivato in fondo in Europa. E i rossoneri vanno subito in vantaggio al 5’ grazie a una punizione di Chiarugi, ma saranno i restanti 85 minuti a restare nella storia.

Il direttore di gara — Christos Michas, il primo il greco ad arbitrare una finale europea — è passato agli annali come l’uomo che ha tolto la consacrazione europea al Leeds. Diverse controverse decisioni verranno prese da Michas, tra cui due rigori non concessi agli inglesi. L’1–0 finale regala la coppa al Milan, ma il pubblico greco si fa sentire, lanciando persino razzi durante il giro d’onore.

Ancora nel 2009, un membro britannico del parlamento europeo ha raccolto 15mila firme, lanciando una petizione per la consegna del trofeo al Leeds United.

Pochi mesi più tardi, Michas verrà poi indagato dalla sua stessa federazione con l’accusa di aver “sistemato” alcune partite del campionato locale, venendo così sospeso dall’UEFA. Ma quella sera di Salonicco non tornerà mai più.

1981 — Hipsterismo cavalcante

Negli anni ’80, il muro di Berlino è ancora ben eretto a dividere la città in più parti. Ed è strano come la Coppa delle Coppe giochi la sua finale al Rheinstadion di Düsseldorf, nella parte ovest della Germania. In un impianto che oggi non esiste più (è stato demolito nel 2002), si gioca una delle più bizzarre finali mai disputate. Da una parte i georgiani, dall’altra tedeschi dell’est. Un derby in salsa sovietica, diciamo.

Nonostante il Rheinstadion contenesse all’epoca ben 76mila spettatori, a quella finale presenzieranno solo 4750 persone. Una miseria.

Il Carl Zeiss Jena — club degli operai della Carl Zeiss, ditta che ha sede proprio nella Germania dell’Est dal 1846 — in quegli anni milita spesso in Europa, ma oggi non ha più avuto quella possibilità. Anzi, la massima categoria disputata dal FCZJ è la 2. Bundesliga. Eppure quella squadra fa fuori la Roma e il Benfica prima di arrivare in finale.

Non diverso è il destino della Dinamo Tblisi, che ha recentemente festeggiato il titolo nazionale, ma non è più tornato a quei fasti. Quasi tutti i grandi giocatori georgiani sono passati in biancoblu — Ketsbaia, Arveladze, Kinkladze, Kaladze — ma nessuno ha riportato Tblisi in alto nella scala del calcio europeo. Ma a cavallo tra anni ’70 e ’80 la squadra guidata da Nodar Akhalkatsi ha tra i suoi ranghi tre giocatori sovietici dell’anno — Kipiani, Shengelia (due volte) e Chivadze — quanto basta per provare il grande colpo.

La finale sembra incamminata verso i supplementari dopo 86 minuti, ma l’1–1 viene spezzato da uno spunto pazzesco del protagonista che non t’aspetti: Vitaly Daraselia salta due difensori e insacca. I sovietici alzano un trofeo ed è il momento più alto del calcio georgiano.

La storia di Daraselia, in realtà, ha più di una venatura amara. Appena un anno più tardi, dopo aver giocato il suo primo Mondiale nell’82, Vitaly muore in un incidente stradale vicino Zestaponi: il suo corpo verrà ritrovato solo 13 giorni più tardi, poiché un fiume nelle vicinanze ha trascinato il cadavere lontano. Nel 2009 il suo museo è stato raso al suolo da un incendio. E così della sua carriera calcistica ci rimane soprattutto una folle corsa verso un trofeo indimenticabile.

1983 — Un certo Alex

Due anni più tardi, tutti si aspettano che la cavalcata del Real Madrid verso la vittoria della Coppa delle Coppe prosegua senza intoppi. All’Ullevi di Göteborg, tutti attendono il ritorno dei Blancos sulla scena europea: sono passati 18 anni dall’ultimo trofeo continentale, la Coppa dei Campioni vinta nel 1966 contro il Partizan. Da allora, la siccità europea è proseguita ininterrottamente.

In fondo dall’altra parte c’è l’Aberdeen, squadra scozzese alla prima vetrina continentale. A guidarla c’è un 42enne che ha allenato in precedenza il St. Mirren. Che accusa i suoi giocatori di esser troppo vittime dei due club di Glasgow (per motivarli), ma che ha riportato il titolo scozzese ad Aberdeen dopo 25 anni. Che viene soprannominato Furious Fergie per la stretta disciplina con la quale controlla i suoi giocatori, tanto da multarli anche solo per aver preso a calci dei tè nell’intervallo.

Sappiamo vita, morte e miracoli di Alex Ferguson al Manchester United, ma se il manager ha una statua a omaggiarlo di fronte a Old Trafford, lo deve soprattutto per quanto fatto in Scozia tra anni ’70 e ’80.

L’Aberdeen ha persino eliminato il Bayern Monaco, strappando lo 0–0 in Baviera e vincendo in rimonta 3–2 in casa. Ma il Real è il Real: allenato da Alfredo Di Stéfano, ha in squadra Camacho, Stielike, Juanito, Santillana. Come possono perdere al momento decisivo?

Eppure l’Aberdeen — interamente scozzese e in tenuta rossa — passa in vantaggio con Eric Black, il numero 10. L’esperienza però pesa in questi contesti e un retropassaggio azzardato di McLeish viene intercettato da Santillana, che salta in corsa il portiere Leighton. L’estremo difensore scozzese lo DEVE buttar giù: rigore trasformato da Juanito e pareggio.

A quel punto, Ferguson si gioca l’unico cambio della gara: fuori Black, dentro John Hewitt, uno dei suoi fedelissimi. Ha già risolto la gara con il Bayern, ma si ripete anche nell’atto finale: il suo colpo di testa al 112’ consente all’Aberdeen di essere il terzo club scozzese a vincere una competizione continentale.

A fine gara, Di Stéfano commenta da gran signore: «Ci sono cose che i soldi non possono comprare: l’Aberdeen ha un’anima, uno spirito di squadra».

1991 — Il ritorno

La tragedia dell’Heysel nella finale di Coppa dei Campioni del 1986 tra Juventus e Liverpool porta all’esclusione dei club della First Division dalle competizioni europee. Ci vuole un lustro prima che si possa rivedere qualche squadra a livello internazionale.

Il 1990–91 è l’anno buono. A far strada è il Manchester United, che giunge fino alla finale di Coppa delle Coppe. Lo fa con un nuovo allenatore, che è arrivato a Manchester nel 1986: è lo stesso Alex Ferguson che ha già vinto questa competizione. Di fronte c’è il Barcellona di Johan Cruyff, anche lui già trionfatore in Coppa delle Coppe due anni prima.

Da una parte Ferguson sta costruendo la spina dorsale dello United del futuro: ci sono Irwin, Pallister, Ince, Sharpe. Ma ci sono anche i grandi vecchi, come Steve Bruce, Bryan Robson e Mark Hughes. Dall’altra Cruyff sta ritoccando gli ultimi preparativi prima di alzare la Coppa dei Campioni: non ci sono Romario e Guardiola, ma la squadra è ugualmente competitiva.

Al De Kuip di Rotterdam, il fattore decisivo è gallese: dopo esser stato proprio al Barcellona, Mark Hughes è tornato a Manchester. Per lui lo United è tutto: ci è cresciuto, vi ha debuttato come professionista. L’unico modo per sdebitarsi è vincere. Una sua doppietta — favorita da due uscite folli di Busquets — chiudono la contesa: non basta una rete di Koeman per riaprirla.

L’attaccante gallese rivincerà questo trofeo con il Chelsea sette anni più tardi, mentre per lo United di Ferguson è l’inizio di tutto.

1999 — Titoli di coda italiani

Negli anni ’90, l’Italia ha dominato in Europa. Molte squadre nostrano hanno vinto un alloro continentale o hanno fatto comunque bene anche quando non hanno alzato un trofeo (vedi Torino in Coppa UEFA o Vicenza in Coppa delle Coppe).

Tra di esse, c’è una squadra talmente forte che forse ha vinto meno di quanto potesse per i giocatori che vi hanno militato a cavallo tra anni ’90 e 2000. Mi limito a leggere la formazione della finale di Birmingham: Marchegiani, Pancaro, Nesta, Mihajlovic, Favalli, Stankovic, Almeyda, Nedved, Mancini, Salas, Vieri.

È la Lazio guidata da Sven-Göran Eriksson, dalla maglia giallonera alquanto particolare.

Il percorso della Lazio non è stato netto, ma neanche quello dei loro avversari. Molti si aspettavano di nuovo il Chelsea in finale, campione uscente in carica. Invece sulla strada dei biancocelesti ci sono dei ragazzi che vengono dalle Baleari e che si stanno facendo conoscere anche in Liga. Sono guidati da un argentino con grande temperamento.

All’epoca Héctor Cúper non porta con sé i segni del 5 maggio 2002 o delle due finali di Champions perse con il Valencia: è un allenatore in ascesa e il suo Maiorca ha fatto fuori il Chelsea in una semifinale infuocata. In squadra ci sono Roa, Lauren, Ibagaza, Dani. Nessun fuoriclasse, ma un gruppo molto unito.

La Lazio va in vantaggio con Vieri, ma dura poco: quattro minuti e Dani pareggia immediatamente. La gara si prolunga con ritmi stagnanti e ci vuole un episodio per risolverla: l’onere/onore tocca a Pavel Nedved, che segna l’ultimo gol nella storia della Coppa delle Coppe (durata 39 anni) e regala alla Lazio un trofeo europeo.

Come sarebbe l’edizione 2016–17

Dopo la finale di Birmingham, la Coppa delle Coppe ha cessato di esistere. L’ultimo colpo di coda è arrivato nell’agosto del ’99, quando la Lazio ha vinto la Supercoppa Europea. Non una novità, visto che la vincitrice della Coppa delle Coppe ha trionfato su quella della Champions per ben 12 volte su 25 nell’antipasto della stagione continentale.

Ma se oggi l’UEFA decidesse per un ritorno romantico — magari riducendo le partecipanti all’Europa League, alternandola alla vecchia competizione — come sarebbe la Coppa delle Coppe 2016/17?

Queste le partecipanti di un’eventuale CWC, con l’asterisco le qualificate perché la vincitrice della coppa nazionale ha l’accesso alla Champions. In quel caso si qualificherebbero le finaliste della coppa. Se entrambe le finaliste sono già in Champions, si qualifica la miglior piazzata in campionato (doppio asterisco):

Kukesi (ALB), UE Santa Coloma (AND), Banants (ARM), Admira Wacker (AUT)*, Neftchi Baku (AZE)*, Standard Liegi (BEL), Torpedo Belaz (BLR), Radnik Bijeljina (BIH), Montana (BUL)*, Slaven Belupo (CRO)*, Apollon Limassol (CYP), Mlada Bodeslav (CZE), AGF (DEN)*, Manchester United (ENG), Athletic Bilbao (ESP)**, Sillamäe Kalev (EST)*, IFK Mariehamn (FIN), Víkingur Gøta (FO), Olympique Marseille (FRA)*, Europa FC (GBL), Sioni Bolnisi (GEO)*, Schalke 04 (GER)**, AEK Atene (GRE), Újpest (HUN)*, Maccabi Haifa (ISR), Cork City (IRE)*, Valur (ICE), Milan (ITA)*, Kairat (KAZ), Jelgava (LAT), Vaduz (LIE), Trakai (LTU)*, Mondorf-les-Bains (LUX)*, Rudar Pljevlja (MNE), Zaria Bălți (MOL), Shkëndija (MKD), Hibernians (MLT)**, Feyenoord (NED), Glenavon (NIR), Sarpsborg 08 (NOR)*, Lech Poznań (POL)*, Braga (POR), Cluj (ROU), Zenit San Pietroburgo (RUS), Hibernian (SCO), Partizan (SER), Maribor (SLV), La Fiorita (SMR), ŠK Slovan Bratislava (SVK), BK Hacken (SWE), Zurigo (SWI), Konyaspor (TUR)**, Zorya Luhansk (UKR)*, Airbus UK Broughton (WAL)*

Anche vedendola così, non sarebbe una coppa senza storie. Mourinho tenterebbe l’assalto alla conquista dell’ultima competizione europea che non ha vinto (affiancando Lattek e Trapattoni), il Milan avrebbe qualche biglietto europeo da utilizzare, così come l’OM (che non se l’è passata bene nel dopo-Bielsa). E poi lo Schalke, il Zenit con Lucescu, il Feyenoord. Magari con la vecchia formula, senza gironi e con gare a eliminazione diretta fin da subito. Magari facendola partire da febbraio per non intasare una ridotta Europa League e aggiungendo la Lazio in quanto ultima detentrice della Coppa delle Coppe.

Articolo a cura di Gabriele Anello

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