Coast to Coast — Il tennis da Indian Wells a Miami

Crampi Sportivi
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7 min readApr 9, 2016

di Raoul Ruberti

Un appuntamento classico del tennis, nel marzo di ogni anno, è l’accoppiata di tornei consecutivi che si tengono a Indian Wells, California e Miami, Florida e che monopolizzano l’attenzione degli appassionati per una settimana e mezza. In contemporanea con gli ultimi match del primo si giocano già le qualificazioni del secondo; i due Masters formano così un’asse, che collega la costa del Pacifico a quella distante 5000 chilometri e quattro fusi orari dell’Atlantico, fondendosi in una sorta di piccolo Slam panamericano.

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Uno dei primi elementi in comune tra i due tornei saltare all’occhio è il numero di palme, davvero tante.

Nel momento in cui mi è stato proposto di riassumerli, stava andando in onda il primo set di Estrella Burgos contro Groth. Escludendo feticismi molto particolari per l’uno o l’altro tennista, credo che il numero di apparecchi televisivi sintonizzati sull’incontro non superasse i cento — e che novanta di essi fossero accesi in ristopub che avevano aperto presto, o nel salone di qualcuno che tiene la TV in sottofondo per farsi compagnia. Eccetto pochi match utili a valutare lo stato di forma di qualcuno, in effetti, a pensarci bene i primi turni dei “mille” del marzo americano ricordano davvero quelli di uno Slam: una guerra civile tra semisconosciuti, per conquistarsi l’opportunità di prendere 6–3 6–2 liscio da un top 20.

Del resto, questa sensazione fatalista può essere estesa senza troppe forzature fino all’ultimo match dei tornei in questione. Da almeno un paio d’anni le emozioni di quasi ogni settimana dei maestri consistono in un paio di inciampi illustri, un giovane che stupisce e…

…e alla fine arriva Nole

Il cannibale, Mister Fantastic, la macchina perfetta. Novak Djokovic, che ormai avrebbe ormai prosciugato persino la riserva di epiteti di un autore classico, assomiglia in maniera sempre più inquietante ai tedeschi della celebre massima di Gary Lineker sul calcio. Tanto l’afa della Florida quanto l’inatteso temporale sul deserto californiano sono sembrati climi ideali per far piovere gli ennesimi coriandoli sopra la sua premiazione. Gli avversari poi, come sempre più spesso accade, hanno dato il peggio: in finale a Indian Wells Raonic ha servito talmente male da sembrare infortunato, mentre il dritto di Nishikori nell’atto conclusivo di Miami è parso quasi dilettantesco.

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Questo è Djokovic che palleggia (con Taylor Fritz, uno dei promettenti teenager americani massacratisi a vicenda nel primo round) ma potrebbero essere anche gli highlights della finale.

Date dunque per certe, in un modo o nell’altro, le vittorie del serbo, è il caso di concentrarsi su cosa accade nelle posizioni dalla seconda alla tendente-a-infinito. Con l’assestamento di Wawrinka tra i contendenti Slam, verso il finire della sua epoca il concetto di fab four sembra essersi esteso fino ad accogliere un nuovo membro, un po’ come i tre moschettieri che diventano quattro al termine del romanzo di Dumas. Oltre ad essersi allargata, tuttavia, l’élite di campioni che dovrebbero a turno mettere a rischio la leadership sembra aver subito un livellamento verso il basso.

Andy Murray — probabilmente distratto dalla nascita della primogenita, una sorta di royal baby tennistica — è caduto dopo soli due incontri in entrambi i 1000 statunitensi, ad opera di un terrorizzato Delbonis nel primo caso e di un lampo (privo di continuazione) di Dimitrov nel secondo. Avversari, sulla carta, se non da tritare almeno da battere senza inzuppare troppi asciugamani. Al tramonto fisico di Federer, assente da Indian Wells per un acciacco rimediato preparando il bagnetto per le figlie e fermato dall’influenza a poche ore dall’ingresso in campo a Miami, si è sommato quello di Nadal.

Dica “treinta y tres”

La zappa sui piedi

Proprio Rafa Nadal è protagonista di due tra i fermo immagine più significativi di questa quindici giorni a stelle e strisce. Il primo arriva dal Sunshine State e lo vede seduto in panchina, boccheggiante, nel secondo time out medico del suo match d’esordio contro l’oscuro Dzumhur — adeguatamente definito online come “il troll che controlla il ponte che separa il circuito ATP da quello challenger”, insomma non esattamente un titano del tennis. La belva dei match-maratona su terra rossa in piena estate, l’inesauribile Rafa, è ridotto male a tal punto da doversi far misurare la pressione in campo. Un evento più unico che raro, al quale segue inevitabile il ritiro.

Il secondo fermo immagine precede il primo di una settimana, ed è all’apparenza di tutt’altra natura: Nadal, vene del collo tirate, sta flettendo il bicipite e urla l’esultanza di chi ha appena rimontato match point e vinto. Scena già vista centinaia di volte nella sua carriera. Allargando di poco l’inquadratura, però, si nota come il suo avversario sia Alexander Zverev, diciotto anni e nessun accenno di barba; un minuto di rewind mostra inoltre come Sascha il match point se lo sia annullato da solo, sparandosi sui piedi la palla per svoltare una carriera, giunta sotto forma di volée elementare. Il ragazzetto, molto promettente, svanisce dal campo per i punti che intercorrono tra questo e la stretta di mano finale.

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Se avete giocato a tennis, conoscerete la sensazione. Solo che contro Nadal è mille volte peggio.

Zverev può consolarsi, in ogni caso: dieci anni d’esperienza in più non hanno impedito a Stanislas Wawrinka di fare esattamente la stessa cosa contro David Goffin. Tie-break del set decisivo, cinque pari, chi fa punto va a match point, Stan è in piedi nella stessa mattonella maledetta mentre la palla di Goffin completa un comodo campanile scendendo verso di lui. Smash lunghissimo oltre la linea di fondo campo e check-in all’aeroporto, direzione casa. Nel torneo seguente, pigro e a tratti iroso, Svizzera Due viene spedito fuori con ancor minore gloria da Kuznetsov. Non ci è dato sapere che genere di ponte controlli il russo, ma c’è da immaginare che non sia molto più celebre di quello del collega Dzumhur.

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Stanimal (per la precisione un pollo).

Nascite, rinascite, risurrezioni pasquali

I figli tennistici degli anni 90 si dividono per adesso in due gruppi: quelli emersi all’incirca quattro anni fa, e quelli saliti alla ribalta negli ultimi dodici mesi. Della prima, etichettata lost generation a tempo di record, gli esponenti di maggior successo sono al momento David Goffin e Milos Raonic. Il belga è stato spesso definito troppo leggero per sopravvivere nel power tennis contemporaneo; starà ai prossimi mesi dirci se le due semifinali raggiunte negli USA sono state una semplice somma di coincidenze, l’ennesima eco del grido speranzoso “un altro tennis è ancora possibile!” o qualcosa di più serio.

Dal canto suo Milos ha finalmente fatto il passo avanti che gli si chiedeva nella catena evolutiva, sviluppando il bozzolo di gioco extra-servizio inespresso che possedeva invece di incancrenirsi sulla battuta (sventando così il rischio della metamorfosi in un fenomeno da freak show alla Karlovic). Il lavoro fatto gli è fruttato una finale e una sconfitta nei quarti per mano di Nick Kyrgios, portabandiera della seconda categoria di giovani, quelli terribili, che il mondo probabilmente lo spaccheranno davvero. Al pazzo Nick dovremo abituarci tutti, in ogni senso possibile: l’impressione è che il suo look, i suoi atteggiamenti al limite del tollerabile e la sua altalena di risultati non gli impediranno di proseguire la sua scalata verso la top 10 e che quindi anche il minimo incentivo a regolarizzarsi sia andato perduto. Subito fuori a Indian Wells contro Ramos-Vinolas, a Miami Kyrgios è arrivato per la prima volta in carriera tra gli ultimi quattro in un Masters 1000, spiazzando più d’un avversario con bordate impressionanti da fondo campo.

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Nick Kyrgios si lamenta in un inglese aussie del fatto che se Nadal facesse ciò che fa lui, rimarrebbe impunito. O magari dice una cosa completamente diversa.

Chi sembra perfetto per incidere il proprio volto sull’altra faccia della sua fluorescente medaglia è Dominic Thiem. Di due anni più maturo, l’austriaco potrebbe prepararci ad una rivalità di stili e di caratteri come quelle che da sempre nutrono questo sport — e che finora ha un solo precedente, durato sette game prima del forfait di Kyrgios. Oltre che per il suo bel rovescio a una mano, in quel di Miami Dominic si è dimostrato degno erede di Federer anche in negativo: contro Djokovic è riuscito a concretizzare solo una delle quattordici (!) palle break. Un po’ poco.

E poi, alla fine di tutto, c’è Juan Martin Del Potro di ritorno dall’oltretomba. La disabitudine a vederlo in campo, dopo due anni senza quasi mai giocare, ha circondato d’incanto la manciata di incontri disputati. Il gigante d’argilla ha messo alla prova il suo fisico e, grazie al ranking protetto, ha potuto accedere direttamente al tabellone principale, superando due primi turni abbordabili prima di cedere a un Berdych di un livello ancora troppo lontano e al lucky loser Zeballos. Il perdente fortunato in questione, che di nome fa Horacio, sostituiva in extremis niente meno che Roger Federer. Ad un cambio di campo, a un certo punto, nell’inquadratura Del Potro sembrava piangere dal dolore. Ha tolto il polsino, mostrando una cicatrice lunga un dito. Poi si è rialzato e ha perso il match, tutto, fino in fondo, ricordandoci un’altra ragione ancora per la quale è bello riaverlo tra noi.

Quasi un’immagine liturgica.

E gli italiani?

Seppi ha deluso, Bolelli ormai delude come modalità predefinita, Lorenzi ha preferito giocare i suoi amati tornei challenger, Fognini ha gli addominali strappati e un matrimonio da organizzare. Forse è il caso di stendere un velo pietoso e riparlarne tra qualche settimana, belli sporchi di terra rossa. Possiamo invece porre un altro interrogativo scomodo.

E le donne??

Le donne, le donne. Dolcemente complicate. Spiace relegare l’intero tennis femminile ad un solo paragrafo d’appendice, ma la realtà dei fatti è che il circuito WTA al momento non fornisce prospettive, neppure minime, di stabilità. La querelle economica sull’equiparazione dei premi in denaro è precipitata in un istante in una guerra dei sessi, e il CEO del torneo californiano Raymond Moore è passato altrettanto rapidamente dalla candidatura a Slam per il 2019 alle dimissioni. Mentre le teste cadevano e gli insulti twittavano, Victoria Azarenka si è presa entrambi i trofei.

Bella la Vika ah?

Uno lo ha conquistato battendo Serena Williams, al ritorno sui campi di Indian Wells al seguito della sorella dopo un boicottaggio familiare durato quattordici anni. L’altro superando Svetlana Kuznetsova, in una finale che è stata l’emblema perfetto della difficoltà “rosa” nel conservare il proprio turno di servizio. In aggiunta a ciò ci sarebbero da citare la novità britannica Johanna Konta e quella lettone Jelena Ostapenko, l’ingresso in top 10 di Roberta Vinci, i crolli di Muguruza, Halep e Kvitova, eppure tra tre mesi ogni cosa potrebbe essere stata completamente capovolta senza sorprenderci troppo. L’unica certezza sarà l’assenza di Maria Sharapova, fermata forse per sempre dall’antidoping. Per tutto il resto, magari ci rivediamo qui.

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Adesso vorrei proprio assaggiarle, quelle caramelle.

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