Col minimo scarto

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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5 min readSep 30, 2015

Che l’importante sia vincere, nel calcio come negli altri sport, è chiaro a tutti.
Le strade che portano alla vittoria sono tante. Mentre le foglie sugli alberi iniziano a ingiallire, in testa alla classifica di Serie A troviamo una strana coppia: Fiorentina e Inter. I viola hanno agganciato i nerazzurri grazie allo scontro diretto stravinto per quattro a uno a San Siro. Quella partita ha demolito le (poche) certezze degli uomini di Mancini, che erano arrivati allo scontro diretto a punteggio pieno dopo cinque partite, quattro delle quali vinte uno a zero (l’altra, comunque, è finita uno a due in casa del Carpi). L’illusione di poter costruire la propria forza su vittorie col minimo scarto, forse, è finita al trentesimo del primo tempo del match contro la Fiorentina.

Quegli uno a zero sono stati accompagnati da tre parole: cinismo, concretezza, solidità. Come se fosse necessario giustificare le vittorie di misura.
Mettiamo da parte la partita contro la squadra di Paulo Sousa, ovvero quella in cui qualcosa non si è limitata a scricchiolare, ma è proprio venuta giù con un gran rumore.
Per capire la reale portata psicologica dell’uno a zero, bisognerebbe andare al di là dei numeri. Al di là di quei numeri secondo cui l’Inter nelle prime cinque giornate ha avuto il controllo delle partite con un possesso palla, in media, del 56%, e con un numero di tiri in porta sempre maggiore rispetto a quello degli avversari (unica eccezione il derby). E bisognerebbe andare anche oltre la tattica dei nerazzurri, ovvero bullizzare l’avversario.

Per controllare un risultato così in bilico è necessario intimorire l’avversario.

L’uno a zero è uno stato della mente. L’uno a zero è il riflesso dei nostri tempi, una condizione di precariato che non lascia spazio, durante i 90 minuti, al puro godimento della vita: l’avversario è sempre in agguato, la situazione può essere ribaltata da un momento all’altro. Non si può abbassare la guardia.
L’uno a zero implica un livello di tensione altissimo. Per reggerla sono necessari dei bulli: ecco spiegata la scelta di Mancini, nella sessione estiva di calciomercato, di puntare su atleti fisicamente forti come Kondogbia e dalla personalità dominante come Felipe Melo, uno che nell’agonismo ci sguazza.

Dietro l’uno a zero, poi, si nascondono visioni diverse non solo del calcio, ma della vita tout court.
Vincere con un gol di scarto è un esercizio di sottrazione e di rinuncia. L’uno a zero rifugge l’edonismo, bada alla concretezza. L’uno a zero è pragmatico. L’uno a zero è efficiente. Pragmatismo ed efficienza sono qualità che spesso associamo allo spirito teutonico. Il calcio ce lo conferma. La Germania vinse la finale del mondiale 2014 con un gol ai supplementari.

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Special guest: Angela Merkel.

Tra le pieghe della vittoria per uno a zero si intravedono segni della visione cattolica della vita: la felicità si raggiunge attraveso il sacrificio, l’equilibrio, la rinuncia, la sofferenza. Non ci si lascia sedurre dalla tentazione del gioco offensivo alla ricerca del piacere effimero di un altro gol, perché questo significherebbe, inevitabilmente, scoprirsi. L’edonismo della goleada è peccato.

Forse la partita più sofferta e incerta del mondiale tedesco per l’Italia. Un sacrificio che verrà premiato.

A volte, però, un gol non basta. Pochi giorni fa abbiamo assistito alla manifestazione delle qualità sovrumane di Robert Lewandowski, che entra e segna cinque gol in nove minuti. Ma facciamo un passo indietro. Il Wolfsburg stava difendendo l’uno a zero. Poi è arrivato Lewandowski, incarnazione delle avversità che ti stravolgono i piani e ti ribaltano la vita.
Il caso più estremo, però, è quello della finale della Champions League 1999. Il Bayern aveva la vittoria in tasca, un gol prezioso da difendere e solo tre minuti di recupero a separarlo dalla gloria. Ma centottanta secondi furono sufficienti a capovolgere la situazione. E i bavaresi si trovarono faccia a faccia con la fragilità dell’esistenza.

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A 0:48 Lothar Matthäus osserva il sogno che si sgretola.

Un’altra finale di Champions conferma la fragilità dell’uno a zero: quella del 2014, il derby di Madrid. L’Atlético stava costruendo l’impresa su un uno a zero di cristallo. Un risultato che stavano difendendo con il sudore e con veri e propri sacrifici umani (Diego Costa immolato sull’altare della coppa dalle grandi orecchie). L’illusione dura fino ai minuti di recupero. Il tracollo nei tempi supplementari fu solo una conferma che quello stato della mente che hai costruito con impegno e mantenuto con fatica può essere ribaltato in un battito d’ali (o in uno stacco di testa, come in questo caso).

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La reazione di Simeone e della panchina al calcio d’angolo che porterà al gol è il segno che l’essere umano è consapevole della precarietà dell’uno a zero: hanno una sorta di presentimento, percepiscono il pericolo, sentono gli scricchiolii.

In novanta minuti, come in una vita, ci sono forze che premono per affermarsi. Queste forze a volte sono quelle spietate del caso. Spesso, invece, sono la manifestazione della volontà dell’avversario che cerca, con uno slancio vitalistico, di aprire una crepa nelle certezze altrui. Quasi sempre, è la combinazione di caso e volontà a generare i suoi frutti. Allora chi subisce l’uno a zero, a maggior ragione se accade con la più crudele e beffarda situazione di gioco, ovvero l’autogol, non può fare altro che arrendersi. Piantare la bandiera bianca, raccogliere i cocci e guardare con la coda dell’occhio l’altro che festeggia (e gode).

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Il caso malevolo fa svirgolare il pallone a Nesta e costringe Negro a subire la carambola disgraziata.

Del peso di questo risultato apparentemente insipido ce ne siamo accorti: Champions League e Mondiali vengono decisi da una sola marcatura o dalle rimonte su questo esile baluardo.
Succede anche che l’uno a zero abbia strascichi a lungo termine sulle partite successive. Fu il caso del Milan nella stagione 2004/2005. Scontro diretto con la Juve a San Siro. L’uno a zero consegnò lo scudetto ai bianconeri e fu un’avvisaglia dell’inferno che avrebbe atteso i rossoneri a Istanbul (dove fu chiara un’altra cosa: l’abbuffata di tre gol non ti mette al riparo dalla sconfitta).

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Quella rovesciata di Del Piero è un fatto che esula dall’umana comprensione.

L’uno a zero ti sbatte in faccia la crudezza della vita, la sua fragilità anche nel paradosso della solidità necessaria alla marcatura e alla sua conseguente difesa. Ti fa credere nella necessità di chiudere la partita con un altro gol, ti fa agognare la sicurezza in un mondo estremamente fragile. Ti fa vivere in uno stato di tensione, perché sai che basta una sciocchezza per sciupare lo sforzo e l’impegno. Segnarlo è una liberazione, ma, allo stesso tempo, una condanna perché sai che la vittoria può sfumare in un istante. Indipendentemente da come arrivi, segnato all’inizio e difeso strenuamente o conquistato agli ultimi minuti, l’uno a zero è il più umano dei risultati.

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