Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare il Belgio

Crampi Sportivi
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8 min readJun 13, 2016

Mai come quest’anno, la nazionale di monsieur Hercule Poirot dovrà starci simpatica. Non tanto perché, come spesso accade quando andiamo male, potremo prontamente sfoderare l’alibi di essere stati eliminati nel girone da una delle più forti del torneo, ma perché, questa volta, il Belgio rischia seriamente di arrivare fino in fondo. Senza contare che — in ogni caso — le motivazioni si sprecano. Ovvero: quanto gasa il Belgio? Sono furie rosse senza essere la Spagna (per gli esteti delle magliette è una festa); sono giovani e forti (e forse pure un po’ più rodati) senza essere la Germania; hanno un fascinosissimo accento francese senza essere la Francia. Potendo, inoltre, rivendicare un meltin’ pot da fare brutto: spicca, su tutti, l’indonesiano con le ali sulla schiena, ma anche i congolesi non scherzano.

L’intrinseca simpatia della nazionale belga deriva però, in ultima analisi, dai membri della sua rosa, che non fanno che rendere ancora più suggestiva l’idea (la speranza?) di una vittoria finale. Partendo dal mister, quel vecchio spaccatore di porte e traverse — conosciuto dai più per aver fatto piangere gli interisti in Coppa UEFA -, che risponde al nome di Marc Wilmots: uno che di mestiere tirava sassate, si lamentava poco e in campo non si risparmiava. Uno che ha convocato i migliori a disposizione, dovendo supplire alla dipartita — per ragioni diverse — di due tra i difensori più rappresentativi dell’ultimo decennio belga: Van Buyten, dopo le overdose di trionfi bavaresi, ha ben pensato di ritirarsi nel 2014 per andarsi a sfondare di Chimay da 7 gradi; Kompany, complici gli dei, si è rotto e non potrà capitanare i suoi. Tra gli altri assenti, due menzioni d’onore: mancherà, finalmente, Mirallas, qualcosa di molto simile alla versione fiamminga di Elmander; mancherà, come non avveniva da anni, il jolly Anthony Vanden Borre, che in zona-trentello può ormai dirsi ufficialmente “mancata promessa” (ma se, per dire, il Crotone decidesse di ingaggiarlo ad agosto, avrebbe tutto il sostegno da parte di chi scrive).

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Tra i pali

La rosa wilmotsiana può contare sul terzetto di portieri in assoluto più forte. Chi sulla carta dovrebbe essere il titolare indiscusso, il buon Thibault, pare vivere in eterno ballottaggio: si tratti di Cech o Mignolet, Courtois non è sicuro di alcuna titolarità e dovrà giocarsela anche stavolta con un rivale di prima fascia. Questo perché l’annata londinese si è chiusa con un non esaltante 30 / -38, senza contare che il rivale-collega è, per l’appunto, nientemeno che Mignolet, battuto in tutte le finali disputate quest’anno sotto la guida di Klopp e classificatosi comunque davanti al Chelsea (che Mignolet non prenda meno di 53 reti annue dal 2012 è una questione a questo punto del tutto marginale e squallidamente numerica).

Tra i due litiganti non gode, ma gioisce per una convocazione sacrosanta, Jean François Gillet, portierone del Mechelen (o Malines che dir si voglia). Della cui carriera, davvero surreale, gioverà ripercorrere le tappe una volta per tutte. Si parla, in primo luogo, di un portiere che ha raggiunto la nazionale maggiore solo nel 2009, a trent’anni. Del recordman di presenze del Bari, squadra della cui città è stato fatto cittadino onorario. Di uno che in biancorosso è stato — nei suoi trascorsi più recenti — un uomo di fiducia tanto di Conte (salvaguardato dal mitico duo Ranocchia-Bonucci) quanto di Ventura, che lo ha portato con sé a Torino, manco fosse stato Gazzi. Si parla di un para-rigori che nel 2001, contro il Brescia, stregò tanto quel bisonte di Hubner quanto quel ragazzetto di un Pirlo; di uno che nel 2010–2011 parò a Totti due rigori tra andata e ritorno; di uno che lo scorso ottobre, contro l’Anderlecht, ha neutralizzato addirittura tre tiri dal dischetto (Toldo who?) negando il gol, tra gli altri, a un incredulo Okaka, suo ex compagno. Si parla di uno che può vantare sia una squalifica per doping — per robetta di nandrolone — sia una squalifica per calcioscommesse — per robaccia barese, di cui il suo mister del tempo non sapeva nulla. Si parla, soprattutto, di un portiere che ha fatto una carriera di gavette, tra le panchine giovanili allo Standard Liegi e la B tra Monza, Bari e Treviso, e che ora, a 37 pieni, va in Francia sperando di sbloccare un palmarès sostanzialmente vuoto.

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Dietro

Già detto dei grandi assenti, si dovrà contare sulla doppia-v. Vermaelen (a.k.a. Verminator), ormai assurto a centrale di livello internazionale dai tempi dell’Arsenal, resta un ottimo difensore-bomber, cui peserà, non poco, il ruolo “forzato” di leader del reparto: se in Catalogna è tutto tendenzialmente molto facile, lo è meno se si è reduci da quaranta presenze complessive in tre stagioni e non ci si chiama Alessandro Nesta. S’intende che l’intesa con Vertonghen, suo compagno anche ai tempi dell’Ajax, dovrà essere effettiva fin da subito, pena una serie di rischi troppo elevati per chiunque. Per Vertonghen il discorso è in parte diverso: affamato a causa di un deludentissimo terzo posto, è, tra i due, la certezza.

Passando al terzinaggio, il 2 sarà esclusiva proprietà di Alderweireld, altro hotspur deluso, che ha disputato una stagione di livello stellare: titolare inamovibile, con quattro gol e ottime prestazioni ha pienamente giustificato i milioni spesi per il suo cartellino. Se i maligni hanno visto nel periodo madrileno un declino, sono stati, prontamente, zittiti. Dall’altra parte, il mancino di Lombaerts cercherà di fare il resto: dopo aver vinto il vincibile con lo Zenit, con cui si appresta a disputare la decima stagione in carriera, è verosimile che si aspetti qualcosina anche a livello di nazionale. Se i due nomi fatti sin qui sono in fin dei conti garanzie, la rosa belga sembra non avere, in tal senso, troppe alternative: a destra sono coperti da Meunier, del Bruges, che ha trascorsi da attaccante; per ogni altro problema, chiedere a Dembélé, su cui ci si soffermerà più avanti.

Altro nome saliente della rosa è senza dubbio Jordan Lukaku, il “fratello di” che ha ripristinato una tradizione non più in voga dai tempi della mitologica compresenza di Mbo ed Emile Mpenza, punte sguscianti e decisamente giramondo. Se poco sappiamo di lui e del suo Ostenda (società nata nel 1981), c’è da credere che per l’occasione Wilmots non l’abbia chiamato tanto per fare numero, se è vero che buon sangue potrebbe non mentire e che il suo allenatore di club, il leggendario Yves Vanderhaeghe, è di fatto un’estensione dello stesso Wilmots. Da valutare attentamente, nel caso giocasse, il ’94 Bjorn Engels, che pur non corrispondendo al profilo del fine ideologo che il cognome farebbe presagire sembra un prospetto tra i più promettenti in chiave futura, con tanto di 194 centimetri di pura pericolosità offensiva; lo stesso vale per Jason Denayer (1995), di cui il City detiene ancora il cartellino e che, dopo una parentesi scozzese (anche lui al Celtic), si è fatto le ossa anche al Galatasaray.

In mediana

Veterano, benché under-30, è Moussa Dembélé. Alzi la mano chi sia riuscito ad inquadrarlo: più che un jolly per vocazione, sembra sempre più un giocatore di cui non si è ancora capita la collocazione ottimale. Vero è che il più evidente ridimensionamento offensivo del mancino risale ai tempi del Fulham del post-Hodgson, per quanto non sia coinciso — in termini generali — con un ridimensionamento qualitativo. Semplicemente, Dembélé ha smesso di segnare con continuità, diventando però preziosissimo per la propria versatilità tra la trequarti, le fasce e il centrocampo stricto sensu (come Vanden Borre, continuerà a sembrarci fortissimo per la straordinaria commistione tra Pro Evolution Soccer e vita reale). Certo, per il momento, è che essere belgi e stare al Tottenham non paga. Altro incompreso, almeno agli occhi di chi scrive, è Fellaini, di cui si ricorda troppo ingenerosamente l’alzata di scudi dei napoletani ad acquisto quasi concluso. A tratti sembra solo un Massimo Troisi per sbaglio a Manchester, un po’ troppo piazzato per ricominciare da tre, ma mai abbastanza deludente da meritarsi la cessione, per quanto lo United abbia letteralmente fatto di tutto per privarsene nel corso degli anni.

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Quanto al resto, i pezzi da novanta sono i soliti noti e coincidono con il consueto tourbillon di centrocampisti centrali. Defour e Witsel sono insieme da dieci anni e non verranno al Milan nemmeno per sbaglio. Per Witsel può valere una considerazione di ordine generale, che per Lombaerts ha tinte meno oscure: perché lo Zenit? Dove è finito il blasone del vecchio continente? Il Benfica era tanto peggiore? Il rublo basta a spiegare tutto questo? Per Defour, fatta incetta di supercoppe portoghesi, sembra invece essere tramontato il vecchio sogno di spaccare il mondo, avendo ormai abbandonato lo status di giovane interessante ed essendo tornato in patria. Del supereroico Radja da Piacenza, invece, non si sa più che dire. Da un paio di anni si aspetta che la smetta di segnare, senza però che si trovino logiche spiegazioni ad un rendimento che ha avuto, a tratti, del mostruoso. In attesa di carpire da twitter altre foto in compagnia di Pinilla, non schierarlo sarebbe una pazzia. Che poi sia regista, mediano o trequartista, poco importa.

Davanti

Difficile non invidiare Wilmots, a fronte di un reparto assortito in maniera tanto varia. Ciò nonostante, le scelte dell’allenatore finiranno inevitabilmente per penalizzare qualche stella extralusso. Una premessa metodologica: questa divisione per reparti, con appena cinque centrocampisti di ruolo e tutti i trequartisti considerati come “attaccanti”, riproduce i criteri adottati dalla federazione nel diramare le convocazioni.
Veniamo ai grattacapi. Tanto per cominciare: chi ha detto che il furetto di Lovanio si accontenti — come a Napoli — di non partire titolare? Posto che la critica resterà eternamente divisa tra i detrattori di un giocatore programmato per durare massimo un’ora a livello mentale e gli assoluti idolatri (tra cui il sottoscritto), l’idea che si tratti di un’arma da inserire a partita in corso è una pura illazione. Mertens è inoltre una delle essenze di questo Belgio: ventinovenne come Dembélé, ha ormai accumulato un’esperienza internazionale da vero e proprio veterano. In termini simili sarà da valutare la già lunghissima carriera di quell’anziano signore di Lukaku, che a 23 anni fa l’Europa da otto stagioni, ha messo circa un’ottantina di gol inglesi dal 2012 e può vantare vittorie di Champions (che umilmente e non meno polemicamente non si attribuì) e classifiche marcatori sparse qua e là. Se c’è una punta di diamante, questa è proprio Romelu, che porterà tutto il suo quintale al servizio dei suoi colleghi. A patto, naturalmente, che si scordi definitivamente di un certo rigore mal calciato in una certa Supercoppa e non accusi eccessivamente la (ovvia) pressione.

Menzione speciale per Kevin De Bruyne: come dire, se sei Wilmots e per una carriera non hai fatto che bombardare i tuoi portieri avversari, il tuo uomo non può che essere De Bruyne. E che dire del bistrattato Hazard, autore (per una volta) di soli quattro gol, dopo aver fatto sbrodolare per circa un decennio i critici di ogni nazionalità? Semplicemente, anche questa volta, la stampa è stata impietosa e non andrà seguita alla lettera. Semplicemente, a parte tutto, sarebbe un sacrilegio non tenerlo sempre dentro.

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Certi di non giocare mai, se non in caso di emergenze o risse di gruppo, sono il buon vecchio Benteke, che è ormai l’Asafa Powell della situazione, e il dinamico Origi, che giocherà poco a Liverpool ma in Italia spaccherebbe molte difese e non ricorda per niente Eljero Elia. C’è, infine, un certo Carrasco, belga di origini portoghesi. Uomo di Ranieri e Jardim al Monaco, può ormai dirsi affermato a livello internazionale. Acquistato dal Cholo per quindici milioni, ha mostrato tutto il suo campionario: nel pieno delle forze, ha giocato qualcosa come cento partite in due anni, compreso un tristemente inutile gol in una recente Finale dalle orecchie grandi, dove pure è stato forse il migliore in campo.

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Dulcis in fundo, il congolese e non-propriamente-caucasico Batsuahy del Marsiglia, altro ’93 non male: se ventitré sono i suoi anni, altrettanti sono stati i suoi golletti stagionali, quattro dei quali in Europa League.
Le certezze, per il simpaticissimo Belgio versione 2016, sono le seguenti: 1) vincerà il girone, battendo un’Italia senza centrocampo, battendo l’Irlanda e forse anche la Svezia; 2) se vincessero pure alla fine, non sarebbero una Danimarca, un Leicester né tantomeno una Grecia (e in silenzio si aggiunga la 3): non vinceranno, ma li avremo amati follemente).

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