Come i Kentucky Wildcats stanno sommergendo l’NCAA

Crampi Sportivi
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8 min readDec 18, 2014

Ok, la National College Athletic Association ha appena aperto le arene di parquet e ancora l’attenzione è rivolta nei prati adiacenti, dove si scornano bardati da vistose armature i guerrieri del Football, ma le prime allacciate ufficiali del programma di John Calipari hanno allarmato i tifosi di tutti gli atenei a stelle e strisce.

BOOOOOM.

Non che vedere Kentucky alla guida della nazione sia una novità, stiamo pur sempre parlando del programma con la più alta percentuale di vittorie nella Division I (la Serie A del basket collegiale), condite da 8 titoli NCAA (solo UCLA ne ha di più). Da quando John Calipari da Memphis si è trasferito a Lexington i numeri sono ancora più impressionanti: in cinque anni ha portato i Cats a tre final four (2011,2012,2014) vincendole nell’anno da freshman di Anthony Davis.

Questa nuova ondata vincente dei Cats si deve all’aver anticipato una tendenza causata dai cambiamenti del regolamento riguardo il trasferimento dei giocatori dal college all’NBA, denominata “one and done”. Questa consiste nel reclutare i più forti giocatori dell’High School, costretti a passare almeno una stagione nelle palestre collegiali prima di spiccare il volo verso il dorato mondo del professionismo, ed allestire team imbottiti di talento ma senza alcuna esperienza, cercando di vincere tutto in un solo tentativo. Una concezione del basket collegiale che ha fatto — e continuerà a far inorridire — i puristi del gioco, per i quali le vittorie vanno conquistate grazie al duro lavoro sul campo e alla capacità di assemblare, pezzo dopo pezzo, squadre composte da giocatori, non superstar, i cui risultati vanno valutati nell’intero arco della carriera universitaria. Studenti-atleti quindi, non futuri poster in camere adolescenti, non fantasmi che passano di soppiatto nei campus ma senior in grado di guidare le matricole nel loro percorso di crescita. Questo nonnismo è sparito dall’ideologia vincente di Kentucky, i cui quintetti sono territorio di caccia per freshmancon corpi già pronti per palcoscenici superiori e dove i senior appaiano sporadicamente.

Basta ricordare qualcuno dei nomi passati per Lexington negli ultimi anni per dimostrare come a Kentucky il recruiting è una cosa che sanno fare. E bene. Un paio di prime scelte assolute come John Wall e Anthony Davis, una seconda (Michael Kidd-Gilchrist) e un’infinita lista di primi giri tra i quali spiccano gente come Demarcus Cousins, Eric Bledsoe, Nerlens Noel, Julius Randle, Enes Kanter e Brandon Knight. Tutti rimasti per un anno nella Big Blue Nation e poi migrati verso contratti garantiti.

In questa stagione però abbiamo assistito ad un cambiamento molto interessante in queste dinamiche. Dopo la finale persa contro la sorpresa UConn, solo Julius Randle e James Young si sono dichiarati eleggibili per il Draft, mentre tutti gli altri componenti del team hanno optato per ritornare alla Rupp Arena dopo l’estate.

“I made it but I’m still playing like I’m being scouted till I’m outted”

Questo ha dato la possibilità a Calipari di integrare la nuova classe di freshman con i reduci dalla scorsa stagione formando una squadra dalla profondità invidiabile. Per sfruttarla è stato così ideato e perfezionato l’ormai celebre Platoon System, che consiste nel dividere la squadra in due quintetti — il Blue e il White Platoon — che si avvicendano regolarmente durante la gara.

Invece che la classica turnazione avviene quindi la completa sostituzione degli interpreti sul parquet con altrettanti compagni dalla panca. Questo sistema, se da una parte abbassa i minuti di utilizzo dei giocatori, dall’altra permette a Kentucky di avere sempre atleti freschi e motivati in campo, pronti a giocarsi al massimo le chances che il coach gli concede. Così grazie alla qualità della sua rosa, Kentucky riesce a mantenere un livello di intensità insostenibile per l’intera durata del match, colpendo e ricolpendo finché l’avversario non cede.

Il plotone Blu, quello che scende in campo alla palla a due, è quello formato dai giocatori più esperti: sono i due sophomore gemelli, Aaron e Andrew Harrison, altezza 6–6 ft., i due junior Alex Poythress (6–8 ft.) e Willie Cauley-Stein (7–0 ft.) e il freshman meraviglia Karl Anthony Towns (6–11 ft. ma cresce ancora).

Sì è al limite tra una cosa molto fica e una cosa molto ridicola.

Ad un certo punto, si alza il plotone Bianco. Questo è composto da un backcourt molto differente, comandato dai recruits Tyler Ulis e Devin Booker, meno fisici e atletici degli Harrison, ma con cui Kentucky, grazie alla loro velocità, allunga la difesa su tutti i 28 metri.

In SF gioca un altro McDonald All-American, Trey Lyle capace sia di tirare con range, sia di mettere la palla a terra. Sotto il ferro gravitano Dakari Johnson e Marcus Lee, due sophomore che stanno trovando quest’anno molto più spazio, confermando i netti miglioramenti compiuti in off-season e la filosofia per cui spesso serve un’anno in più di college per esprimersi al meglio. (Questo sistema avrà dei cambiamenti dovuti allo sfortunato infortunio al legamento del ginocchio sinistro che terrà Poythress fuori per la stagione. Già contro UNC ci sono state infatti delle rotazioni più tradizionali.)

Questo continuo alternare i quintetti in campo, entrambi ricchi di talento tecnico e atletico, permette a Kentucky di dominare il ritmo dell’incontro, trasformando la fase difensiva in un muro elastico invalicabile, una selva di braccia e gambe pronta a rispedire al mittente ogni tipo di conclusione per poi riversarsi in transizione attaccando con forza il ferro e distruggendo il tabellone offensivo.

Non avendo ancora costruito un vero e proprio attacco su metà campo è evidente come l’efficienza offensiva nasca dalla qualità difensiva dei Cats. La rapidità nel raddoppiare e contenere il portatore avversario, costringendolo a scelte avventate o a scontrarsi al ferro con le lunghe leve dei rim-protector di Calipari, genera una quantità enorme di opportunità in campo aperto, situazioni in cui gli atleti con la canotta bianco-blu eccellono. Inoltre, la lunghezza di ogni componente della squadra permette a Kentucky di dominare non solo sotto il proprio tabellone, ma anche nell’altra metà campo, garantendosi spesso extra possessi vitali, viste le percentuali dal campo non pulitissime.

Non saranno mai una squadra che incanterà gli occhi degli spettatori come i Lakers dello Showtime ma questa versione 2014/15 di Kentucky mette sul parquet un’intensità e un talento fisico che trasbordano i limiti del college baskeball. Sono il team dall’altezza media di gran lunga più alta nella nazione a livello non professionistico, e secondi solo ai Portland Trail Blazer considerando anche le franchigie NBA.

La squadra di Calipari rappresenta un mix unico di talento puro, sia tecnico che atletico, abbinato ad una profondità e omogeneità rara. Come se non bastasse sono riusciti subito ad instaurare una chimica molto efficace di cui l’altruismo e il sacrificio sono le parole chiave e che è visibile nel modo in cui tutti difendono il loro canestro. McDonald All-American, First Team All-Sec, future prime scelte, tutti hanno voglia di sbattersi in difesa più che di far scintille in attacco. Prima il team, poi le statistiche personali. Grazie a questa mentalità vincente hanno prodotto un’inizio di stagione immacolato.

The Big Blue ha infatti vinto le prime undici partite della stagione asfaltando i malcapitati avversari attraverso una difesa formidabile che guida la lega per punti concessi (48.0), distribuisce quasi nove stoppate a partita e forza gli attacchi avversari a tirare con il 30.4% dal campo. Inoltre guida la nazione in scoring margin, con addirittura 28 punti di scarto tra quelli segnati e quelli subiti, nonostante abbia già giocato e vinto contro tre ranked team, Kansas, Texas e North Carolina. Queste tre partite hanno rappresentato i test più probanti finora per i Wildcats ed è inutile sottolineare come siano stati ampiamente superati.

Godzilla, praticamente.

Contro i Jayhawks, Kentucky ha dimostrato tutte le proprie potenzialità in un match più adatto ad un’arena medioevale piuttosto che al lucido parquet della Bankers Life Fieldhouse, azzannando alla gola il team di Bill Self.

I dieci volte campioni della Big 12 hanno messo a referto un punto al minuto, facendo una difficoltà sovrumana semplicemente a lanciare la palla verso il ferro senza che arrivasse qualche manona a ricacciarla a metà campo. Uno dei programmi più vincenti del basket collegiale, infarcito di giocatori che vedremo a breve anche al piano di sopra, ha chiuso con il 19,6% dal campo, il peggiore di Kansas dalla stagione 1988/89, e con il punteggio a tabellone più basso da quando Bill Self siede su quella panchina, dall’Aprile del 2003.

Sono numeri associabili ad una disfatta napoleonica o ad un’incontro di pugilato piuttosto che ad una partita di inizio stagione, ma il rumore della più roboante disfatta in match tra top25 degli ultimi vent’anni ha segnato queste prime giornate di basket collegiale, investendo immediatamente Kentucky del ruolo della squadra da battere.

La sfida contro Texas invece ha evidenziato altre qualità della squadra di Coach Cal, in primis la predisposizione alla sofferenza. Non è facile vedere un gruppo con tutto quel talento dedicarsi anima e corpo alla fase difensiva, accettare senza colpo ferire le rotazioni che li costringono a giocare meno minuti e quindi meno possibilità di far colpo sugli scout Nba. Nessun colpo di testa, nessuna prima donna ma una squadra che è cosciente dei suoi punti forti e li sfrutta, senza pensare troppo all’estetica o all’egoismo.

Nella sfida contro il team allenato da Rick Barnes si affrontavano le due squadre più lunghe d’America ed erano previste randellate sia da una parte che dall’altra. E sono arrivate. Texas ha deciso di sfidare Kentucky sul suo stesso territorio, la verticalità e l’intensità difensiva, mettendo fuori i gomiti e andando forte a rimbalzo offensivo. Questa mossa ha messo in difficoltà i ragazzi di Calipari per almeno un tempo, dopodiché è uscito fuori il superiore tasso tecnico dei Cats che, guidati da un’ispirato Cauley-Stein (discreta doppia — doppia da 21+12 con 5 recuperi e 3 stoppate), hanno messo la freccia dopo l’intervallo riuscendo finalmente a eseguire correttamente anche nella metà campo offensiva.

L’ultima sfida contro un’avversario Top25 è arrivata la scorsa settimana, quando alla Rupp Arena si è presentata una nobile dell’NCAA, i North Carolina Tar Heels, alma mater di giocatori che hanno fatto la storia del gioco (non solo MJ ma anche Worthy e Sheed, per dirne due) e ora sotto la tempesta per un’inchiesta riguardante la falsificazione di corsi e diplomi.

La squadra non è più quella da titolo di quando HisAirness si allenava a Chapel Hill ma è pur sempre un programma dalla mentalità vincente guidato da un coach-istituzione come Roy Williams. Nonostante ciò la squadra di Calipari ha avuto vita facile nel controllare il match contro un’avversario piuttosto rinunciatario, che ha avuto contributi importanti solo da Brice Johnson nel primo e da Marcus Paige nel secondo tempo. Kentucky non ha dovuto neanche impegnarsi troppo in difesa e quando si è alzato Booker dalla panca e ha sparato un paio di triple in ritmo, North Carolina aveva ormai le mani piene.

Altra comoda W per la Big Blue Nation che ora è attesa a due ulteriori esami di maturità. Il primo Sabato 20 Dicembre contro UCLA, la franchigia di John Wooden e dei dieci titoli consecutivi, il secondo esattamente sette giorni dopo, quando affronterà il derby con i rivali di Louisville. Due programmi storici, due modi di intendere il college basket diametralmente opposto e due coach da hall of fame. Se i giovani Cats riusciranno ad uscire indenni dalla zone press di Pitino avranno grosse chances di arrivare imbattuti fino ai piedi del torneo NCAA dove però basterà perderne una, anche una sola, per restare con l’amaro in bocca.

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