Come Ichiro Inuyashiki

Gabriele Anello
Crampi Sportivi
Published in
9 min readJun 29, 2018

Una stanza dai colori opachi, con quel bianco che non è così brillante se lo osservi così bene. Un dottore di fronte a sé, una sentenza di morte sulla bocca: «Guardi, signor Inuyashiki, non so come dirglielo… ma lei ha un cancro allo stomaco. Non le rimane molto tempo». Così Ichiro Inuyashiki — un uomo impiegato nell’enorme apparato amministrativo del Giappone, ormai sulla sessantina — deve provare a reinventarsi in attesa di un esito che appare inevitabile e funesto.

In un pitch tematico che ha una lunga storia nel cinema e nella televisione (tra cui il motivo scatenante di quasi tutte le vicende accadute in Breaking Bad), una vicenda parallela si ritrova anche nella carriera di uno scandinavo. Un classe ’92, figlio d’arte e con già alle spalle un’esperienza nella massima categoria motoristica. Coccolato da una delle più grandi scuderie mai esistite, che però forse non ha più così tanto fiducia nel suo programma di crescita dei giovani piloti.

È il 5 ottobre 2015 quando Kevin Magnussen riceve un’e-mail. Non è stato un anno facile, visto che ha fatto da terzo pilota a Fernando Alonso e Jenson Button, assistendo al naufragio psico-tecnologico che è stato la McLaren-Honda al suo primo anno di ritorno in F1. Però Kevin è tutto sommato contento, perché è rimasto nell’ambiente che l’ha cresciuto e sa che se Button dovesse ritirarsi, lui sarebbe il candidato numero uno alla successione.

Quello che Kevin però non sa è che, aprendo la sua casella di posta elettronica, potrebbe dire addio alla sua carriera in F1. Un assistente personale di Ron Dennis — all’epoca ancora dentro le vicende McLaren — gli comunica che il suo rapporto di lavoro con la scuderia inglese è concluso. Lo fa nel giorno del compleanno di Magnussen. Lo scambio di corrispondenza viene fuori 10 giorni più tardi per bocca dello stesso danese: si pensa che sia la fine della sua carriera in F1.

Capitolo 1, Inuyashiki. Il cancro è ben più serio, ma anche la fine dei tuoi sogni lavorativi non è il massimo.

E invece è solo l’inizio di un Kevin Magnussen 2.0.

Once upon a time

Eppure la storia di Magnussen aveva mostrato di più di quanto visto fino a quel punto. Figlio di Jan (pilota di McLaren e soprattutto Stewart per 25 Gran Premi tra 1995 e ’98), il giovane Kevin riesce a farsi notare nelle categorie inferiori, prima che la McLaren gli consegni una prova con la MP4–27 nel novembre 2012. Il danese ha solo vent’anni, ma è un momento in cui la griglia è ampia e la scuderia di Woking — che ha appena salutato Lewis Hamilton — potrebbe investire su un giovane prodigio.

Il d.s. della McLaren, Sam Michael, rimane impressionato (il danese fa meglio del pilota di riserva, Gary Paffett, e di Oliver Turvey) e la distanza percorsa ad Abu Dhabi è sufficiente affinché Magnussen possa prendere la super-licenza. Impegnato nella Formula Renault 3.5, il giovane pilota attende una chance. Nel frattempo, Magnussen polverizza gli avversari, vincendo le ultime tre corse del 2013 e realizzando le ultime cinque pole position. Non trionfa in campionato, ma lo stravince, superando quel Stoffel Vandoorne che lo sostituirà nel 2016 come terzo pilota in McLaren.

A quel punto, la McLaren — delusa dal rendimento di Sergio Pérez alla sua prima stagione a Woking — opta per il cambio: onestamente il messicano non ha fatto così male, ma la decisione viene dall’alto. Su Magnussen garantisce Martin Whitmarsh, ex team principal della McLaren, già nel 2010:

«Kevin è un pilota impressionante. Penso che abbia capito come suo padre non abbia sfruttato il suo potenziale: Jan vede il talento in suo figlio. Ha un carattere di ferro, forse è più determinato di suo padre… vedremo come potremo aiutarlo».

L’inizio è una follia, in senso positivo. Dopo aver sorpreso nei test (primo a Jerez e in Bahrain), Magnussen si qualifica quarto a Melbourne. È già un mezzo miracolo, sebbene si parli dell’ultima McLaren motorizzata Mercedes. In gara, però, va anche meglio: nessuna sbavatura, un’ottima partenza e il danese — alla prima gara in Formula 1! — si piazza sul podio. Sarebbe terzo, ma Ricciardo viene squalificato e allora Magnussen scala in seconda piazza: è il primo debuttante dal 2007 ad arrivare sul podio al debutto in F1. Chi era stato l’ultimo? Lewis Hamilton.

Per Magnussen è come una vittoria. La McLaren non è forte come nel 2012, ma fa meglio dell’anno precedente: la motorizzazione Mercedes nell’ambito del nuovo mondo ibrido fa la sua parte. Il danese arriva quinto in Russia, settimo in Austria e Gran Bretagna, più una collezione di punti anche in altre piste. Al suo primo anno in Formula 1, il figlio d’arte ha portato a casa 55 punti, parecchio dietro Button (arrivato a 126) e a quattro punti dal reietto Sergio Pérez.

Ciò nonostante, sembra un ottimo inizio. Finché non cambia la motorizzazione in casa McLaren.

L’esclusione

Il ritorno della Honda in Formula 1, infatti, porta la McLaren a cambiare strategia: Fernando Alonso sta per lasciare la Ferrari e si accorda con i giapponesi, pronti a ricambiarlo con un lauto stipendio e la chimera di una macchina vincente da subito. A posteriori, è facile dire come lo spagnolo abbia palesemente sbagliato una scelta di carriera, ma sul momento il danneggiato è Magnussen: Button non ha intenzione di smettere e così il danese viene retrocesso a terzo pilota.

Meglio così, forse: la stagione 2015 è un salasso, un naufragio senza fine per la McLaren, che ha anche il demerito di bloccare un accordo con l’Andretti Autosport, che avrebbe voluto Magnussen per l’IndyCar Series sfruttando la comune motorizzazione Honda. Niente da fare: la scuderia di Woking blocca tutto e mette il danese in pista al posto dell’infortunato Alonso, reduce dallo strano incidente nei test di Barcellona, che costringe lo spagnolo a saltare il primo GP. Peccato che Magnussen non riesca nemmeno a partire per un… indovinato, un problema al motore Honda.

Come Inuyashiki avverte già prima del cancro come la sua vita sia in pezzi — una famiglia che lo vede come un peso, un’azienda che lo tratta come un surplus, una realtà che lo inquadra come un vecchio pavido e buono a nulla –, allo stesso modo Magnussen sente i scricchiolii della sua realtà. Non vuole mollare il sogno della Formula 1, ma la McLaren preferisce la grandeur al progresso programmatico. Come sappiamo oggi, la strategia non ha pagato, anzi…

In ogni caso, si arriva a quella e-mail dell’ottobre del 2015. C’è la fiducia che si possa trovare un altro team, ma non è facile in una F1 molto costosa, dove i soldi contano molto più del talento. Quella fiducia è però accompagnata dalla paura, perché rientrare in questa categoria una volta esserne usciti è molto difficile. Lo sa chi è finito a fare il commentatore per Sky Sports, chi corre in Formula E o chi si è dovuto dare ad altre occupazioni.

Il ritorno

La Haas prova a fiutare l’affare, ma alla fine gli statunitensi — alla prima stagione in Formula 1 — decidono di puntare su Esteban Gutiérrez per affiancare Romain Grosjean. La scelta deriva sia dall’appeal del messicano sul continente nord-americano che dall’ingente contributo economico che la sua sola presenza in Formula 1 potrebbe portare. Gutiérrez farà zero punti nel 2016 e la Haas realizzerà solo in seguito di aver commesso un errore. Ci sarebbe anche la Manor, che ha i motori Mercedes a disposizione; Magnussen, inoltre, prova anche una Mercedes DTM e una Porsche, con la possibilità di correre in categorie diverse dalla Formula 1.

Eppure quel #NeverGiveUpOnTheDream — che campeggiava in quel tweet post-uscita dalla McLaren e che c’è tutt’oggi sul suo profilo Twitter — è come un canto di sirena: no, Kevin non può lasciare la Formula 1. Meglio a questo punto prendersi un rischio: quel rischio si chiama Renault. La casa costruttrice è stanca dei bisticci con la Red Bull e si è decisa a tornare nella mischia da sola.

Il rischio? Praticamente la macchina del 2016 è la Lotus del 2015, ma colorata di giallo. La Renault è rientrata in fretta e furia, ha scelto due piloti che non stuzzicano la fantasia degli appassionati (l’altro è Palmer, ex campione GP2) e ha una vettura poco competitiva. Il 2016 sembra essere un anno destinato alla sofferenza. Ma come Inuyashiki affronta dei prepotenti ancora non pienamente conscio delle sue capacità, Magnussen sa che questa è l’unica porta — non solo l’unica, ma la necessaria — per rimanere nel gioco.

E sofferenza sarà, compresa quella fisica, visto il botto a Spa sulla salita dell’Eau Rouge. Tuttavia, Magnussen tira fuori due gare di livello e rimedia sette punti per la Renault che valgono oro, visto che evitano alla scuderia francese le ultime due posizioni nei costruttori: un settimo posto in Russia e un decimo a Singapore. Magnussen è 16° in classifica piloti, ma stacca pesantemente Palmer e dimostra che nella categoria può starci eccome. Il tutto mentre il compagno diventa un generatore di meme e l’uomo scelto al suo posto in Haas non porta a casa nemmeno un punto.

Superato l’ostacolo 2016, il riscatto è dietro l’angolo.

It’s K-Mag time

In America hanno capito di aver fatto un errore e allora silurare Gutiérrez diventa facile; la Renault ha ingaggiato Hulkenberg e deciso di tenere Palmer per un’altra stagione. Non è difficile allora per Magnussen trasferirsi in Haas, una scuderia bisognosa di un pilota che possa essere al livello di un ottimo Grosjean. I progressi del danese hanno convinto gli americani, che lo ingaggiano con convinzione.

«Questa è una fantastica opportunità: sono sicuro delle mie capacità e sono sicuro che la Haas sia una scelta giusta. Gene (Haas) ha una visione differente e sta facendo un ottimo lavoro».

Messo alla prova però con un compagno di squadra più competitivo, Magnussen deve tirare fuori la parte più oscura di sé stesso per rendere al meglio. Quella grinta che sconfina quasi nell’aggressività pura e gratuita. Lo stesso Giuliano Salvi — ingegnere di pista del danese nella scuderia americana — sapeva già di questo lato di Magnussen, ma quel lato è il motivo per il quale il danese è rimasto a galla nel 2017.

Cinque volte in Top 10, il pilota ex McLaren e Renault ha ottenuto 19 punti, nove in meno di Grosjean. Ma più dei piazzamenti, c’è un episodio che racconta l’evoluzione di Magnussen come persona e pilota: lo scontro in Ungheria con Hulkenberg. Molti ci hanno riso su, il tedesco l’ha presa malissimo e di certo il danese non si è comportato alla grande… ma più che l’episodio in sé, è il post-gara che ha alzato più di un sopracciglio.

Magnussen è nel post-gara, sta parlando con la televisione danese. Resosi protagonista di una manovra scorretta su Hulkenberg, il tedesco della Renault si avvicina e lo interrompe: «Ancora una volta ti sei mostrato il pilota più anti-sportivo sulla griglia…». La risposta di Magnussen è breve e fa malissimo: «Succhiami le palle, bellezza». Breve sorriso compiaciuto del danese e si riparte con l’intervista.

L’episodio è controverso e Magnussen è stato poco elegante, ma la rissa verbale mostra come il danese abbia tirato fuori quella cattiveria che non è stata percepita nella sua prima parte in Formula 1. Anche in Renault, questa garra non c’era. E invece ora c’è, come se l’ambiente americano avesse aiutato il pilota a trovare una certa consapevolezza. Perché oltre all’episodio con Hulkenberg, ci sono tanti sorpassi decisi e commenti sferzanti su argomenti vari (come sull’Halo).

Le conseguenze di questa strategia di self-empowerment si vedono nel 2018. In otto Gran Premi già disputati, Magnussen è andato a punti ben la metà delle volte. Vero è che la Haas ha fatto dei progressi tali da far pensare che possa persino essere la quarta forza del Mondiale — a Barcellona le due macchine si sono qualificate per la Q3 con una mescola più dura: mai successo fuori dai Top 3 team –, tanto da insidiare la più quotata Renault. E dovete aggiungere il disastro del box Haas in Australia, quando entrambi i piloti furono fregati da gomme montate male.

Ma se Grosjean è l’unico pilota del Mondiale — assieme a Sirotkin — a essere ancora a quota zero, Magnussen ha raccolto già 27 punti: ha migliorato il bottino del 2017 dopo appena un terzo di stagione e, con questa progressione, potrebbe fare più punti anche dell’anno trascorso in McLaren. Per chi si era sentito dire che non meritava questa categoria, che Leclerc/Giovinazzi/ogni pilota nell’orbita Ferrari avrebbe dovuto prendere il suo posto… è una grande soddisfazione, nonostante l’intera griglia abbia qualche difficoltà con il danese (come quando Gasly l’ha definito il più pericoloso in pista dopo un contatto pericolosissimo a Baku).

Il tutto mentre il danese comunque non ha timore di rispondere ai grandi di questo sport. Come quando ha dato del “disperato” a Kimi Raikkonen dopo un misunderstanding nella qualifica dell’ultimo GP di Francia, con il finlandese a bloccare il tentativo del pilota Haas: «Ha spinto per tre giri, fallendo tutte le volte: non ha alcun senso. Non c’è modo di sapere cosa farà; se sei confuso, non metterti in mezzo». Il team principal della Haas, Gunther Steiner, ha detto che «forse è la prima volta, da quando si trova in F1, che può dimostrare quanto sia bravo come pilota».

Quel che è certo è che bisognerà aspettare fine anno per tracciare un bilancio, ma l’inizio pare incoraggiante. E pensare che Magnussen — nel 2009 — ha dovuto interrompere la sua carriera motoristica perché senza fondi: era andato a lavorare come saldatore perché il sogno sembrava finito. Ma, come Inuyashiki quando vola lontano per salvare il pianeta da una fine apparentemente inevitabile e funesta, non bisogna mai arrendersi. Fino all’ultimo.

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Gabriele Anello
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