Come siamo arrivati allo Sweeper Keeper?

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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7 min readNov 17, 2016

Il portiere del XX secolo è quel giocatore che tocca la palla con le mani. Il portiere del XXI secolo è quel giocatore che tocca la palla anche con le mani.

Sono cambiati nel profondo tanti aspetti del calcio a partire da quello spartiacque che sono stati gli anni Novanta, ma se c’è una figura che più di tutti ha subito una mutazione genetica è quella del portiere.

Il corsivo non è casuale, in quanto preso in prestito da uno dei due libri che meglio spiegano le ragioni profonde — anche sociali ed economiche — celate dietro a un evento apparentemente superficiale come l’evoluzione del ruolo del Numero Uno.

Eccoli, i due volumi in questione: il primo è I Barbari, di Alessandro Baricco, ed è da lì che l’espressione mutazione genetica è presa. Il secondo è Post-capitalist Society di Peter Drucker, che per chi non lo conosce è stato uno dei più grandi esperti di management del secolo scorso. Se Baricco me lo fate passare senza troppo aggrottare le sopracciglia, abituati a sue incursioni in diversi ambiti tra i quali anche lo sport, il nome di un economista austro-americano in un pezzo sui portieri vi farà dubitare a ragione della mia lucidità. Vi rassicuro subito: mi concedo soltanto qualche caffé al ginseng come apice della trasgressione. Quanto alla validità delle mie citazioni, provo ad argomentare.

Correva l’anno 1992…

A partire dalla stagione 1992–93 viene introdotta una regola che cambia radicalmente il gioco: il portiere che riceve un retropassaggio effettuato di piede non può più toccare la palla con le mani. A fare le spese del repentino cambiamento delle regole è subito Luca Marchegiani in un’Italia-Svizzera del settembre ’92, match del girone qualificazione ai Mondiali di USA 94.

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Passaggio all’indietro e il nostro Uno, con la palla tra i piedi, dimostra una confidenza pari a un numero molto molto grande, ma moltiplicato per zero. Risultato: stop a (in)seguire, palla all’attaccante e gol facile facile della Svizzera.

In quegli anni, più che la rabbia normalmente accusata nei confronti del portiere colpevole di un gol subito, il tifoso prova un senso di tenerezza: quei ragazzoni a guardia delle porte, i quali fino a un mese prima avevano perfino bisogno del “libero” che gli battesse la rimessa dal fondo, si trovano a dover imparare dal nulla a stoppare la palla con un’accuratezza che nemmeno Roby Baggio e Michel Platini messi insieme. Un po’ come se a uno che per tutta la vita si è spaccato la schiena a portare in spalla sacchi di cemento venisse detto che come parte del proprio lavoro deve imparare bene e da subito a suonare il Volo del Calabrone al pianoforte — e viceversa.

La mutazione

Per vedere quanto il cambiamento di questa regoletta abbia inciso non solo sui malcapitati Uno ma sul gioco nel suo complesso, provate un po’ a dare un’occhiata a qualche partita degli anni Settanta e Ottanta.

Vinci 1–0? Bene, da lì in poi ogni volta che la distanza dalla tua stessa porta è inferiore o uguale a 40 metri la prima opzione è quella di girarti indietro e servire il tuo portiere con un mega-piattone. Così il tuo Uno si accartoccia, blocca la palla, si rialza sistemandosi i guanti e, se è uno un po’ vanitoso e belloccio alla Tacconi o Zenga di quei tempi, non disdegna di passarsi la mano per aggiustare il ciuffo (ai tempi l’Uomo Ragno dell’Inter aveva un folto caschetto). Fatto tutto ciò, provvede al rinvio… E intanto sono passati 40 secondi, minimo. Moltiplicate la situazione per cinque, e quasi quattro minuti di gioco se ne sono andati così.

Ed è qui che entra in scena Baricco, che la spiega benissimo la mutazione, inquadrandola nel tentativo — riuscito, sembra — di spettacolarizzare il gioco alla ricerca del successo commerciale: “Il vecchio calcio viveva di molti duelli personali e di una sostanziale divisione dei compiti. Il calcio moderno sembra essersi intestardito a spezzare questa parcellizzazione di senso, creando un solo evento a cui tutti, costantemente, partecipano”.

Nel mondo dei video da 60 secondi massimo — perché poi uno si stufa — delle centinaia di foto, notizie, gif e quant’altro che scorrete ogni giorno sui social ve la riuscite a immaginare ancora la “melina” dello scambio portiere che passa a terzino che restituisce subito al portiere?

Sarebbe al passo con i tempi tanto quanto ostinarsi ad andare da Roma a Milano in calesse, suscitando quello stesso senso di “non c’azzecca nulla” che provate quando vi imbattete in una foto di classe di fine anni Novanta caricata su Facebook oggi. Quanto stridono le felpone degli Iron Maiden o della Lonsdale e gli sguardi tra depresso e trasognato con quelle maglie aderenti di oggi a mostrare un fisico alla Batman e i sorrisi ammiccanti immortalati da un selfie provato almeno 10 volte prima di andare online!

Insomma, nel calcio in cui non esistono più i terzini solo terzini alla Burgnich né i 10 solo 10 alla Rivera (o Roby Baggio) e tutti sanno fare un po’ di tutto, tipo Zambrotta — non a caso scelto a esempio della mutazione da Baricco, dato che il libro è del glorioso 2006 — ci sta che anche il portiere non sia più uno dei più scarsi della squadra, il quale per disperazione o emergenza veniva messo in porta. Per inciso, la mia carriera di ex-portiere ultra-dilettante era iniziata proprio così.

Prendete il caso recente del Manchester City: Joe Hart ne era da anni il guardiano della porta, oltre che una semi-bandiera del club, essendo peraltro uno dei rari inglesi in rosa. Poi cosa succede? Arriva Pep Guardiola e fa comprare Claudio Bravo, spedendo Hart al Torino.

E questo perché? Perché Hart con i piedi non ci sa fare e non sa impostare bene come Bravo, il quale peraltro tanto Bravo nei disimpegni di questi due mesi in Inghilterra non è stato. Roba che oggi passa relativamente in sordina, ma vent’anni fa apriti cielo! Avrei voluto vedere se vi avessero proposto un Higuita al posto non dico di un Pagliuca o un Peruzzi, ma anche solo di un Lorieri o di un Taglialatela: li avreste mandati a spigolare e a ragion veduta.

Solisti orchestrali

E qui entra in gioco Peter Drucker — lo studioso di management, nel caso lo aveste dimenticato.

Nel suo libro Post-capitalist Society del 1993 — data vicina alla modifica della regola del retropassaggio: coincidenza? — Drucker spiega che stiamo vivendo un cambiamento epocale, al termine del quale la visione del mondo, i valori dominanti nella società, le arti e le istituzioni vengono messe in discussione e trasformate.

Cambiano per esempio il modo di intendere l’istruzione e le professioni: è quindi perfettamente normale e coerente che il portiere di oggi non sia quello degli anni Settanta. Nelle organizzazioni di oggi, secondo Drucker, non si raggiungono risultati se non si lavora in modo orchestrale: lavorare da solisti o imparare le cose a compartimenti stagni, senza visione d’insieme, non funziona più. Ecco perché nel 2006 non esistono Burgnich e Rivera ma c’è Zambrotta (o Alaba, se volete un esempio più vicino a noi).

Però, dice Drucker, per quanto inserite in un contesto d’insieme, le specializzazioni rimangono. Per questo, i gol li farà comunque Lewandowski, più di Alaba, e per questo il portiere rimane prima di tutto IL giocatore che bada a non prendere gol, sebbene non più alieno dal gioco della squadra.

Da Zamora a Neuer… con Buffon nel mezzo

L’esempio perfetto è Manuel Neuer. Bravo tra i pali e con le mani, ma anche tecnico con i piedi, veloce e forte di testa: potrebbe giocare difensore centrale in una buona squadra professionistica anche se non facesse il portiere.

Neuer è un leva 1986. Il biondo Manuel è cresciuto ed è stato allenato con un’idea di calcio e portiere che erano già della Nuova Era: una specie di Obelix dei portieri, trovatosi nella pozione magica già da piccolo… Però Neuer è prima di tutto un Portiere con la P.

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Caso a parte quello di Gigi Buffon. Classe 1978, è quindi cresciuto guardando in tv il calcio “lento” del portiere che raccoglie con le mani il retropassaggio e delle squadre lunghe sessanta metri, per cui il Numero Uno può stare incollato alla riga preoccupandosi al massimo nella cosiddetta area del portiere (“Nell’area piccola sono tutte tue e al resto ci pensano i tuoi compagni,” era il Dogma inculcatoci dai mister dei portieri di 30 anni fa).

A quasi 15 anni, e quindi già piuttosto impostato, Buffon si è verosimilmente trovato a digerire un concetto di portiere mutato e infatti di lui vi ricordate esclusivamente per le parate, specialmente quelle d’istinto, e non per le avventure fuori area alla Neuer. A far risaltare il suo immenso talento, se ce ne fosse bisogno, è quindi l’esser riuscito a sopravvivere a due epoche e aver fatto da trait d’union tra Zamora, Yashin e Shilton da un lato e Neuer e Van der Sar dall’altro, con quest’ultimo più vecchio ma comunque imbevuto di quell’idea olandese di totaalvoetbal in cui anche il portiere sa fare di tutto un po’…

E di differenza tra queste due ere, al momento, ne corre proprio tanta. Come scrive Drucker a proposito del passaggio da un’epoca vecchia a una nuova: “50 anni dopo, c’è un nuovo mondo. E le persone nate in esso non riescono nemmeno a immaginare il mondo nel quale vivevano i loro nonni e nel quale i loro genitori sono nati. Oggi stiamo vivendo una trasformazione di questo tipo.”

Articolo a cura di Daniele Canepa

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