Con quello che guadagnano

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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9 min readJan 20, 2017

Cosa ci troverai in 11 milionari in mutande che corrono dietro un pallone”.

Questa è la frase che qualunque appassionato di calcio si è sentito dire almeno una volta nella vita. Non è un concetto limitato solo al calcio e nemmeno solo a questo tempo storico. In “Io e Annie” di Woody Allen, l’ex moglie intellettuale del protagonista Alvy Singer (interpretato dallo stesso regista) quando lui durante una cena con l’élite culturale newyorkese si apparta in camera per guardare i Knicks, chiede: “Alvy, che c’è di tanto affascinante in due branchi di affetti da gigantismo che cercano di ficcare una palla dentro a un cesto?” Lui risponde: “Beh, l’affascinante è nel fatto fisico. Sai, gli intellettuali hanno una cosa: sono la prova che puoi essere coltissimo e non afferrare la realtà oggettiva”.

La realtà oggettiva è che siamo appassionati di sport e lo seguiamo perché adoriamo vedere qualcuno che fa cose che noi non riusciremmo a fare. Come ammiriamo gli artisti, gli attori o gli astronauti. I Greci trattavano gli atleti al pari dei filosofi perché erano gli esseri umani più vicini a dio, gli uni fisicamente gli altri intellettivamente. Cosa è successo poi? Ad oggi, quando un calciatore subisce un brutto infortunio e qualcuno se ne rammarica, la risposta è sempre la stessa: “Con tutti i soldi che guadagna”. Non considerando nulla della realtà oggettiva: parliamo di ragazzi, spesso ragazzini, che hanno ricevuto un dono dalla casualità genetica per cui, fisicamente e nell’intelligenza applicata, possono fare delle cose che non può fare nessun altro. Ci fosse qualcosa di male, in questo, o di deprecabile.

Eppure non è facile la vita di un calciatore, almeno finché non diventa un professionista celebrato. Si guarda a Cassano o Balotelli — che invece a Nizza pare essersi ripreso, per fortuna e si pensa che tutti siano così, nel senso di tanto forti e dotati da avere il destino già segnato dalla tenera età, e di essere quindi in diritto di frantumato per poca consapevolezza della grandissima opportunità ricevuta, ma comunque in grado di mettersi in tasca vari milioni ogni anno. Solo che non è così, almeno non sempre.

Apprestarsi alla scalata della piramide del calcio può essere una decisione cruciale, nella vita di un individuo, che ne sia consapevole o meno, e può comportare grandi sacrifici, e altrettanto grandi rischi. Non mi riferisco all’aspetto ludico dell’età infantile, al calcio prima dei 10 anni che, nonostante i genitori ossessionati e appostati in tribunetta, il giovane vive come un enorme divertimento. La scelta arriva un po’ dopo, quando devi decidere: continuo a giocare per divertirmi o punto a diventare un professionista? È una scelta ben definita perché da un lato c’è la squadra di quartiere, il campo più vicino a casa, due allenamenti a settimana principalmente incentrati su una lunga partitina a campo ridotto. A 14 anni si inizia a fumare, a 16 bucare allenamenti per uscire con la ragazzetta, a 18 si abbandona tutto per poter uscire il sabato sera. Dall’altra parte invece comincia una sorta di calvario.

I dati più recenti consultabili sono quelli del Report Calcio Italiano del 2015 dove ci viene detto, in freddi numeri, che i giovani calciatori non professionisti (entro i 16 anni) sono 666.506. Di questi, confrontando i dati con il numero di professionisti, solo 1 ogni 227 potrà fare il calciatore come lavoro in futuro. Più probabile che, se non smetteranno di giocare, si ritrovino fra i 393.718 dilettanti che ogni sabato pomeriggio o domenica mattina dimenticheranno turni, precarietà, fatica e traffico per vivere battaglie di 90 minuti su campi sparsi nei più disparati paesi della penisola. Per ogni calciatore professionista ci sono 134 uomini che continuano a giocare fra i dilettanti per passione e, raramente, rimborso spese.

Parlavo di calvario e il termine è senz’altro un’iperbole, ma parto dalla mia esperienza e la confronto con tutti gli altri ex compagni, tra cui pochissimi sono riusciti a ballonzolare per qualche anno nella terza serie italiana (uno solo ha raggiunto l’esordio in Serie A ma poi è sceso tra Lega Pro e la Serie D). Mattina a scuola, zaino e borsone. Appena finito via agli allenamenti quasi tutti i giorni (tra le 3 e le 5 volte a settimana, man mano che si sale dai Giovanissimi alle categorie superiori) e ritorno a casa tra le 19 e le 21. Niente pomeriggi a giocare con gli amici, cartoni animati o doposcuola. La domenica mattina sveglia all’alba, visto che gli orari di inizio delle partite vanno dalle 9 alle 11. Dieta ferrea, pochi dolci, niente alcolici, niente fumo, solo tanta pasta in bianco. Poi i ritiri di inizio stagione, la preparazione di luglio/agosto, il richiamo di dicembre, gli allenamenti sotto la pioggia o con 35 gradi. Tutto questo, oltre alle implicazioni psicologiche, sperando di essere tu quell’uno ogni 410 a fare il salto nel professionismo.

Ma il professionismo è davvero “riuscirci”? Andiamo più a fondo: si parla di “calcio milionario” e allora ho voluto prendere in considerazione i soli calciatori italiani che guadagnano almeno un milione di euro netti a stagione. Partiamo da quelli che non fanno parte delle cosiddette 7 sorelle, ovvero le squadre più ricche e importanti del campionato (Juve, Roma, Napoli, Milan, Inter, Fiorentina e Lazio), le squadre con il più alto fatturato e le migliori ambizioni, e concentriamoci sui milionari delle piccole. In Serie A sono 7. Solo sette: Paloschi, Destro, Gastaldello, Perin, Cigarini, Berardi e Cannavaro. Tra questi il più ricco è Mattia Destro, 1,6 milioni netti l’anno, frutto dei residui di un contratto importante in giovane età con l’AS Roma. Tutti e sette sono o sono stati nel giro della nazionale italiana, quindi il top del top.

Allarghiamo il discorso a tutte le squadre? Ok. Arriviamo a 41 totali e sì, me li sono spulciati uno ad uno. Oltre ai 7 già citati troviamo Bernardeschi, Astori, Ranocchia, Candreva, Santon, D’Ambrosio, Andreolli, Buffon, Bonucci, Marchisio, Chiellini, Barzagli, De Ceglie, Sturaro, Rugani, Immobile, Marchetti, Parolo, Montolivo, Abate, Bertolacci, Romagnoli, De Siglio, Poli, Antonelli, Bonaventura, Lapadula, Gabbiadini, Insigne, Giaccherini, Maggio, De Rossi, Florenzi e Totti. A parte casi rari (De Ceglie che ha giocato appena 32 partite negli ultimi tre anni) siamo di fronte alla crème del calcio azzurro, quasi tutto il bacino a cui mister Ventura può attingere ovvero il livello massimo, per un giovane che inizia a sognare di fare il calciatore. Torniamo ai numeri? Bene: per entrare a far parte di questo ristretto club il giovane aspirante professionista deve sperare di essere l’eletto tra altri 16.256 compagnucci che quel milione non lo guadagneranno mai.

Ok, certo, un milione di euro l’anno sono tanti soldi, e questo è vero, ma un ragazzo di 13–14 anni che si imbarca nel viaggio al professionismo ha lo 0.006% di probabilità di arrivarci, a quel contratto da un milione. Molto più facile che navighi tra la Lega Pro, dove gli stipendi migliori equivalgono a quelli di un buon posto in banca, e le categorie regionali a rimborso spese.

Ma cosa si intende per “calciatore professionista”? Qualunque calciatore tesserato per una squadra tra la Serie A e la Lega Pro. Nelle 102 squadre dei 5 campionati professionisti, infatti, il contratto obbligatorio dopo quello giovanile è regolato come un qualsiasi contratto di lavoro, con tanto di pressione fiscale altissima: su uno stipendio da un milione di euro lordo vengono versati dal professionista nelle casse dello stato 441,5 mila euro, poco più del 44%. La stessa cifra, più o meno, spetta invece al club che paga il contratto con il risultato che l’indotto per ogni contratto professionistico per le casse dello stato sviluppa circa il 90% degli stipendi versati, tanto che nel 2012 il contributo fiscale dell’industria calcio allo stato italiano è stato di più di un miliardo di euro.

“I calciatori guadagnano troppo” si dice e si ridice. Ma troppo rispetto a cosa? Sergio Marchionne nel 2015 ha ricevuto dalla famiglia Agnelli uno stipendio di 11,5 milioni di euro per il suo lavoro come manager di due aziende della holding Exor. Prada ha versato a Patrizio Bertelli circa 13 milioni di euro. Amplifon, invece, ha elargito a Franco Moscetti più di 8 milioni. Cifre al lordo, sia chiaro. Questi sono solo 3 presi a caso dalla top ten, dove il più povero ha guadagnato più di 6 milioni di euro lordi (altra fonte qui). A cosa serve questo excursus? Semplicemente a mostrare come un lavoro che genera milioni di euro viene ripagato in milioni di euro, molto semplicemente. E infatti, analizzando gli stipendi delle squadre di Serie A, solo le prime 7 per fatturato elargiscono stipendi multimilionari mentre il “Paperone” del Crotone è Palladino con i suoi 300mila euro l’anno, circondato da cifre che schizzano fino ai 250mila euro di Rosi ma ballano soprattutto intorno ai 100mila euro, che per la maggior parte della rosa dei rossoblù sarà il contratto della vita. Lo stesso discorso, più o meno, vale per Pescara ed Empoli. I calciatori, quindi, vengono pagati in base a quanto incidono sul fatturato, come un manager o, paragone più crudo ma ancora più azzeccato, come un macchinario. E il paragone con un macchinario non è casuale, tant’è che a bilancio si calcola l’ammortamento di costo del cartellino e di stipendio di un calciatore come si calcola sugli investimenti in macchinari per le aziende di altri settori.

D’altronde è ora di mettere da parte le utopie e fare i conti con la realtà: i soldi esistono e il loro flusso non è regolato dalla “giustizia divina”. Siamo ben coscienti che lavoriamo per guadagnare, magari senza l’ossessione di diventare per forza ricchi, ma per consentirci almeno una vita con meno rinunce possibili. Fatta la pace con questa realtà possiamo valutare con più calma: il dato più esplicativo è che, come puro esempio, la Juventus paga 145 milioni di euro di stipendi a fronte di un fatturato di 325 milioni. Dal momento che è soprattutto grazie ai suoi calciatori che può vantare questo giro di denaro possiamo quasi affermare che per ogni euro che la società bianconera versa a un suo calciatore questo gliene rende più del doppio. Dov’è allora il “troppo”? Forse era negli anni ’90 fino ai primi 2000, quando follie da “patron” portarono ad una sequela di fallimenti eccellenti (Napoli e Fiorentina su tutti) e al successivo e famosissimo “decreto salva-calcio” che consentì a Milan, Inter, Roma, Lazio e Parma di “spalmare” i debiti in un arco di tempo lunghissimo. Oggi non è più così, quelle che percepiamo come “cifre folli” sono frutto di alti fatturati e infatti, a parte le poche società in mano a arabi, cinesi e russi, le società spendono sulla base del proprio fatturato. I 100 milioni dello United per Pogba? Frutto di 537 milioni annui di fatturato. L’ingaggio faraonico di CR7? Con 578 milioni di entrate l’anno si può fare.

Ci sono ancora delle “ingiustizie economiche” in giro per il mondo del pallone, come i 19 milioni di euro che proprio il Real Madrid ha dovuto restituire al governo spagnolo per degli “illeciti aiuti di stato”. Almeno in questo però in Italia, dal post-calciopoli, siamo in una situazione meno grave. Quello che viene percepito come “campionato in calo” è semplicemente figlio di gestioni più sostenibili, in linea con la situazione attuale del paese. La cifra monstre per l’acquisto di Higuain da parte della Juve, ad esempio, è figlio dell’affaire Pogba e non di un presidente che “apre i cordoni della borsa” mettendo nei guai la società che controlla.

Il calcio milionario, in sostanza, è una realtà, è vero. Ma non una realtà così distorta. Va sempre tenuto a mente che i soldi che i calciatori guadagnano non vengono sottratti dalle nostre buste paga. Va ricordato altresì che per ogni bel ragazzone tatuato che vediamo correre sui prati ogni domenica ve ne sono altre centinaia che hanno fatto il suo stesso iter e, alla sua età, sono impiegati in un lavoro normale come tutti noi. E non va dimenticato che in ambienti che sembrano più “umani”, meno sovraesposti, soprattutto a livello mediatico, gli stipendi multimilionari fioccano.

Quando vediamo quei ragazzi, oltre a pensare ai privilegi della loro vita fuori dal campo, forse sarebbe giusto anche pensare ai sacrifici che hanno fatto prima di arrivare li, perché sono gli stessi sacrifici che altri hanno fatto e che tuttavia non hanno portato questi altrettanto lontano. E in un certo senso loro sono lì anche per darci l’impressione che quello che abbiamo fatto in nome di un obiettivo fuori dalla nostra portata è stato totalmente inutile.

Calciatori adulti professionisti in Italia: 2.930

Giovani di serie: 10.132

Calciatori adulti dilettanti in Italia: 393.718

Giovani tesserati FIGC: 666.506

Probabilità di diventare giovane di serie o professionista: 0,4%

Articolo a cura di Valerio Savaiano

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