Considerazioni inattuali sul calcio tedesco: del Bayern Monaco come alba di una nuova civiltà

Crampi Sportivi
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4 min readMay 22, 2013
Caspar David Friedrich - Evening Landscape with Two Men

Fissavo il muro della cucina sorseggiando dell’ottima Oranjeboom (discount-beer olandese, Tuodì € 0,62). Riflettevo sulla prima finale di Champions League tutta tedesca: un Evento, come avrebbe detto “quel ridicolo filisteo nazista in calzoni alla zuava” (Bernhard, 1985) di Martin Heidegger. Mi convincevo sempre di più che non può ridursi ad una mera partita di calcio, sebbene si tratti di una finale. Quando si parla di Europa, di Germania, di crisi, ogni cosa per me, persino (o soprattutto) il calcio, può essere ammantato di interpretazioni che spaziano dal surreale al sublime; non riesco a non infondergli complessi contenuti metastorici ai limiti dell’assurdo, che neanche io comprendo del tutto. Perché forse non hanno alcun senso. Sicuramente non ne hanno: come una domenica senza campionato, perché la sera precedente c’era Italia-Isole Far Oer. In un attimo compresi come, di riflesso, da quando Aurelio Andreazzoli è alla guida dell’A.S. Roma (ma probabilmente anche da molto prima, forse addirittura da quando Paulo Sergio se n’è andato), fosse l’assenza di significato il fulcro del mio agire, ciò che permea d’evanescenza il mio esistere, e lo condanna ad una sequenzialità di giorni/pareggi indistinti, senza possibilità di redenzione, di catarsi.

Fu per questo, decisi, che non potevo astenermi dal trasvalutare valori, proiettare significati metamorali ad un vuoto esistenziale/calcistico che dura dal 1999, a cui altrimenti non saprei come sopravvivere. Dovevo sforzarmi di credere che nel trionfo del Fußball tedesco si potesse rinvenire qualcosa di non riducibile alla sola dimensione calcistica. Il mio istinto di conservazione m’imponeva di scorgervi qualcosa di più profondo, che non poteva più restare in latenza: un’inedita, ma originaria, Weltanschauung doveva erompere impetuosamente, squarciando quella coltre di mediocrità che per anni il calcio spagnolo, con il suo odiosissimo kiti-kaka, ha esteso sull’Europa. Lo spettro del geist teutonico ha dovuto subire umiliazioni, perdere finali, attendere che i tempi fossero maturi, prima di manifestarsi con l’arroganza di chi si erige al di sopra delle masse, della cui inferiorità necessita “come della sua base e condizione” (Nietzsche).

La schiacciante vittoria del Bayern Monaco sul Barcellona ha sancito la ricomparsa di una saggezza antica, il venire in presenza di uno spirito filosoficamente elevato, in grado d’emanciparsi dalle tenebre del recente passato calcistico. In quel 4 a 0 ho visto tutta la superiorità di una eticità classica, quasi aristocratica, che sgorga da sentimenti di pienezza, di potenza, espressi nei valori vitali della forza e della fierezza, incarnati da giocatori come Bastian Schweinsteiger, Philipp Lahm, Thomas Müller.

NS

Undici übermenschen, guidati da Jupp Heynckes (la versione germanica del sergente Tom “Gunny”Highway), hanno trionfalmente sopraffatto undici nani, umiliando la loro morale degli schiavi, improntata ai valori anti-vitali dell’umiltà e del possesso-palla. Ad uno “stile di gioco basato sulla monopolizzazione del pallone e fatto di continui passaggi corti eseguiti senza nessun apparente senso e senza aver nessuna fretta di concludere l’azione”(cit.), il Bayern ha risposto con un’organizzazione di gioco che attinge alla Fenomenologia dello Spirito, riuscendo in tal modo a dispiegare sul campo il dispositivo hegeliano dell’Anerkennung: l’istanza di una realizzazione dei singoli che sia al tempo stesso produttrice di unità, la ricerca di una simultaneità di individuazione e socializzazione, che ha consentito ai tedeschi di sviluppare un sistema di gioco corale, in cui persino quel catamarano croato di Mario Mandžukić potesse non sembrare fuoriluogo. E ha fatto sì che, d’improvviso, la bruttezza di Franck Ribéry apparisse bella, necessaria.

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Oliver Kahn sfida il Diavolo[/caption]

Quella contro il Barcellona, a mio avviso, fu anche, e soprattutto, una vittoria da ricondurre alla mitologica figura di Oliver Kahn: eroico portiere e capitano dei bavaresi. In lui ho sempre creduto di vedere la personificazione dell’oltre-uomo nietzschiano. Oliver, infatti, si è sempre dimostrato in grado di accettare la dimensione tragica e dionisiaca del calcio, e quindi della vita; è riuscito a reggere la perdita di certezze assolute, collocandosi nella prospettiva dell’eterno ritorno dell’uguale: quello di una finale persa all’ultimo minuto dei tempi supplementari contro avversari indegni, che hanno fatto dell’anti-calcio il proprio ideale. Ma soprattutto si è sempre posto come volontà di potenza, forza espansiva autosuperantesi: oltrepassando il nichilismo intrinseco di un certo calcio, e vivendo come continuo superamento di sé, dei propri limiti sportivi.

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Oliver Kahn-Klaus Kinski[/caption]

Ѐ soltanto raccogliendo la sua eredità, che i calciatori tedeschi potranno dunque stagliarsi sull’orizzonte del futuro, prospettando all’Europa una modalità nuova d’intendere il calcio: diversa dal buonismo di Prandelli, senza allenatori con gatti morti al posto dei capelli, calciatori fascisti, o attaccanti con la maionese sulla testa.

D’un tratto, il mio eloquio digressivo bruscamente s’interruppe. La mia Oranjeboom era finita. Dalla cucina, emigrai in salotto a fissare il soffitto.

FL

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