Cosa abbiamo imparato da questi primi quattro giorni di Madness

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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9 min readMar 26, 2015

Giovedì è iniziato ufficialmente il torneo più folle della palla arancione. Da 64 squadre partenti ne sono sopravvissute solo sedici. Ecco più o meno cosa abbiamo capito da questo primo weekend di ordinaria follia.

1. E’ ancora un gioco per figli di papà

Pronti, partenza, via, il grande highlight della prima giornata è stata la bomba a fil di sirena di R.J. Hunter che ha costretto gli Orsi di Baylor ha tornarsene a casa con la coda tra le gambe, regalando a Georgia State i riflettori dedicati all’upset del giorno. I Panthers erano arrivati al Torneo a quattordici anni di distanza dalla loro ultima apparizione, quando a sorpresa sconfissero al primo turno Wisconsin, grazie ad una vittoria a tratti surreale su Georgia Southern per il titolo della Sun Belt. Risultato della stessa 38–36. In una partita che, capite voi stessi, non ha brillato per percentuali offensive, la parte del leone l’ha recitata con 18 punti Kevin Ware.

Ma quel Kevin Ware che faceva il sesto uomo nella Louisville campione di un paio d’anni fa e che scioccò l’America con un tremendo infortunio durante le Elite Eight? Bingo. Ha deciso di abbandonare i Cards, stanco di tutte le attenzioni spettacolistiche e morbose che gli venivano estorte e ricominciare una nuova carriera nella più modesta Georgia. Insieme a lui gioca il figlio del Coach, un topos ricorrente nella mitologia sportiva americana. Il Coach in questione però non è un tipo molto comune, era uno che allenava scalzo per manifestare a favore dei bambini abbandonati nel mondo, e che, da nero dell’Ohio, si è sposato una bionda wasp dalla quale ha avuto un figlio. Questo figlio è quello che ha mandato a casa i Baylor Bears tirando da casa sua mentre strillava la sirena, accompagnata da migliaia di voci in un misto di esaltazione e sconforto che si può vivere solo verso Marzo.

Ok. Tutto chiaro, no? La squadra sfavorita è sotto di due a dieci secondi, palla al figlio di papà (coach) che la infila realizzando il più comune dei miracoli cestistici. La variazione sul risiede nell’uomo tutto in nero che si accartoccia sul parquet quando la palla entra. Quello è papà Ron Hunter, costretto a seguire tutta la partita seduto su uno sgabello da un’infortunio al tendine d’Achille, causato, narra la leggenda, da esagerati festeggiamenti dopo la vittoria contro Georgia Southern. Ricaderci sopra non farà fare salti di gioia al suo fisioterapista ma per un figlio questo e altro.

https://www.youtube.com/watch?v=KnsmmEWjjco

Riavvolgiamo il nastro all’inizio di questa stagione. 20 Dicembre. UCLA gioca contro Kentucky allo United Center, la tana dei Bulls, in una partita di pre-conference. Segna 7(!) punti nel primo tempo. Si avverte nell’aria un sapore che annuncia una stagione di lacrime e sangue per i Bruins. E gli aruspici avevano ragione. La gloriosa squadra che fu di John Wooden arriva quarta in una versione non irresistibile della Pac12 e per un periodo indefinito di tempo è on the bubble per entrare nel Torneo. Perdono contro Zona al Championship. Sembra la fine della stagione, invece, senza alcuna logica definita, il comitato selezionatore gli appioppa una undicesima testa di serie a Sud.

Se tutta la nazione rimane stupita, forse quello con la bocca più aperta è proprio Steve Alford, l’allenatore dei californiani. Ma tant’è, si fanno i biglietti per Houston dove si gioca contro SMU, la squadra che ha vinto l’American e in cui in teoria avrebbe dovuto militare Emmanuel Mudlay, che all’ultimo invece ha optato per la via cinese. La allena The Jewish Genius, Larry Brown, che i più attenti ricordano anche in NBA.

In campo per i Bruins la palla la porta, ancora una volta, il figlio del coach, Bryce Alford. Bryce ha un compito impegnativo, sostituire Kyle Anderson, ora agli Spurs e che a Westwood era un idolo. Come tutti i figli degli allenatori ha dovuto combattere contro le lingue taglienti che suggerivano che il suo posto in squadra era dovuto non tanto alle sue qualità quanto alla sua discendenza.

https://www.youtube.com/watch?v=yINNPJ0h8qY

2. Ma ndo vai se un Backcourt non ce l’hai

Nella scienza inesatta del basket collegiale c’è una variabile che può essere presa per quasi definita. Ovvero che le squadre che arrivano fino in fondo hanno un paio di giocatori sul perimetro in grado di fare la differenza. Prendete ad esempio i campioni in carica di Uconn trascinati dal duo Napier — Boatright, o Louisville l’anno precedente con Peyton Siva e Russ Smith. Si potrebbe andare avanti verso l’infinito ma quella che può rappresentare una banalità (e lo è) rivela anche come la regular season è tutto un’altro sport. Prendiamo in esempio Virginia.

I Cavaliers di Tony Bennett sono stati per un lungo tratto di stagione la vera antagonista di Kentucky. Erano l’altra squadra imbattuta nell’ombra dei Cats, stessa difesa asfissiante, minore coefficiente tecnico, diverso quantitativo di All-American. Tony Bennett ha ricostruito un ateneo che non aveva avuto più rilevanza nazionale dopo la dipartita di Ralph Sampson, imperniandolo su un sistema difensivo sorprendente ed efficacissimo. Vedere come i Cavs gestivano i raddoppi è stato uno dei piacere più rotondi di questa stagione. Era, appunto, perché Virginia da seconda testa di serie a Est è stata mandata a casa dagli Spartans di Tom Izzo nel round delle 32. Virginia aveva vinto per la seconda volta in due anni l’ACC, la conference più dura della nazione (e i risultati al Torneo lo stanno confermando). Le uniche tre sconfitte della sua stagione erano state contro Duke, Louisville e North Carolina per un totale di 12 punti di scarto complessivo, le ultime due poi senza il loro miglior giocatore, Justin Anderson, infortunatosi al polso destro. Eppure non è bastato.

Michigan State ha messo in luce tutti i difetti di una macchina che in molti ritenevano perfetta. Gli Spartans hanno sfidato i Cavaliers sul loro stesso terreno, la difesa, e hanno vinto, perché hanno trovato in Travis Trice il giocatore che ha messo i tiri necessari per vincere senza che Virginia avesse qualcuno in grado di smuovere il tabellone. Non importa quanto sei ordinato in difesa, capace ad eseguire in attacco, alla fine il gioco si riduce, come dicono oltreoceano, a un buckets game. O hai chi la mette o vai a casa. Virginia non lo aveva e sono tornati a Charlottesville mentre MSU vola alle Sweet Sixteen. E questo ci porta immediatamente al terzo punto.

3. Referendum per cambiare il nome March con qualcosa con Izzo in mezzo

https://www.youtube.com/watch?v=XEOjt63KH5c

Quest’uomo ha condotto gli Spartans di Michigan State a diciassette consecutive partecipazioni al torneo di cui cinque fino alle Final Four e l’anno scorso, con una delle sue squadre più forti, si fermò solo davanti ad un irripetibile Napier ad un passo dalla sesta. Tom Izzo è il mito di Marzo, è il vero interprete della nobile arte del Win or Go Home. Se vi capita un matchup contro OSU nel vostro tabellone fatevi il segno della croce e pregate affinché la palla rotoli dalla vostra parte. Perchè dall’altra c’è un manipolo di guerrieri pronti a scendere in guerra con un gameplan perfetto, conoscendo dei loro avversari vita, morte, miracoli, indirizzo e numero di previdenza sociale. E se non ce l’avete sono caxxi. Bisogna mettersi l’elmetto ed esser coscienti che saranno quaranta minuti d’inferno. Lo hanno scoperto a loro spese prima Georgia, poi Virginia. Ormai quando inizia il Torneo la signora Izzo ha capito che deve tirare giù la valigia pesante per il marito, perché non si sa mai che possa servire fino ad Indianapolis.

4. Offense wins games, defense wins championship

Ah già perché oltre a Virginia è uscita anche Villanova. Jay Wright è chiaramente la vittima di qualche sortilegio che gli impedisce di andare oltre le Sweet Sixteen, visto che dal 2009 non riesce più a varcare il confine del primo weekend. Ed è ridicolo contando la qualità delle squadre con cui arriva al Torneo. Se la signora Izzo è abituata a non vedere il marito tornare a casa per due o tre settimane, la signora Wright, tra l’altro ex cheerleader a Villanova, resta sempre delusa dalla quantità di completi rimasti piegati in valigia. Purtroppo l’eleganza del George Clooney del college basketball non arriva mai oltre un paio di giacche sartoriali e anche questa volta ha dovuto lasciar posto alle camicie dai colletti sformati o ai tutoni degli allenatori rivali.

E pensare che i Cats erano ritenuti da tutti come una delle pretendenti più accreditate per l’assalto a Kentucky. Invece contro Nc State è sprofondata nuovamente nella macumba più nera trovandosi di nuovo a casa.

Ok, dimenticate cosa avevamo detto a proposito di Virginia, sono le difese a vincere le partite. Villanova era uno degli attacchi più prolifici della nazione, capace sia di grandinare dall’arco che di far male nel pitturato, guidato dalla saggezza dei senior ad un grado di efficienza svizzero e con un coro di giocatori sugli esterni da riempire due o tre squadre. Tutto ciò è andato a farsi benedire contro il Wolfpack. Nova ha tirato il 31% dal campo contro il 47% della stagione. E le percentuali non sono neanche troppo da imputare alla difesa di NC State, quanto all’incapacità dei ragazzi di Wright di mettere la palla nel cesto da mezzo metro. Ho cominciato a perdere il conto degli errori da point blank range verso la metà del primo tempo e non ho più ricominciato. E nonostante questa sagra dei ferri Villanova si è giocata la partita negli ultimi possessi. Ovviamente sbagliati.
Per il prossimo anno il consiglio che mi sento di dare a Jay Wright è “meno sarti e più chiromanti”, non si sa mai.

Se Nova, nonostante uno dei backcourt più profondi e talentuosi della nazione, non è riuscita per l’ennesima volta a farsi strada nel bracket, non si può dire lo stesso di Wichita State. Tra le poche cose che ho azzeccato nello svolgimento di questo primo weekend di Madness è stato l’upset degli Shockers sui vicini di casa ben più facoltosi di Kansas. Una rivincita attesa ventidue anni.

5. Alla fine questo Regional Factor non è niente male

La decisione del comitato di privilegiare una certa vicinanza tra gli atenei e il luogo in cui si dovevano radunare le squadre per la loro fetta di tabellone ha creato non poche discussioni prima, dopo e durante Selection Sunday, ma grazie ad esso abbiamo avuto partite che mettevano in campo, oltre che il passaggio del turno, una certa tradizione locale.

Partiamo da Kansas — Wichita State. Lo showdown tra Il Prinicipe e il Povero del Sunflower State era un confronto atteso da tanto, troppo tempo. Diciamo dal 1993, quando gli Shockers persero di 50 dalla squadra allenata allora da Roy Williams. Poi con Bill Self in panca si è persa la tradizione di organizzare incontri tra i due atenei, divisi da meno di duecento chilometri, e anche la rivalità è andata scemando. Quando sono scesi in campo per raggiungere il traguardo delle Sweet Sixteen infatti i giocatori si sono salutati come vecchi amici e così hanno anche fatto le tifoserie sugli spalti. Non c’è stata acredine, ma la volontà dei ragazzi di Gregg Marshall di far vedere ai cugini quanti errori hanno commesso in fase di recruiting. Baker, Wessel, Van Fleet sono tutti giocatori che, scartati dai Jayhawks, sono finiti a giocare a Wichita con un senso di rivalsa finalmente esploso domenica sera. I tre insieme a Cotton hanno segnato 60 dei 78 punti che hanno permesso agli Shockers per una sera di riprendersi lo scettro dello Stato. E’ stata una vittoria, ancora una volta, del backcourt, che ha surclassato quello dei Jayhawks con Selden e Oubre spettatori non paganti. Confermando ancora l’assunto di cui sopra.

Altro confronto dal sapore regionale è stato quello tra Notre Dame e Butler, entrambe residenti in Indiana, lo stato in cui si giocheranno le Final Four. Un ulteriore boost quindi a una sfida che non ha tradito le previsioni. L’ex cenerentola di Brad Stevens ha messo in seria difficoltà i ragazzi di Mike Brey, che venivano da una striscia aperta di risultati positivi coronata nella vittoria del Championship dell’Acc. Striscia conservata con una vittoria sudatissima, in overtime, grazie alle giocate di Pat Connaughton. Se Jerian Grant è il cervello degli Irish, Patty Boy è il cuore verde e pulsante. Già scelto dagli Oriols di Baltimora per fare il lanciatore in MLB, ha deciso di rimanere per un ultima danza sul parquet, e lo ha fatto con questa stoppata che ha salvato partita e torneo. Ora si vola a Cleveland per giocare contro Wichita State e magari sognare una finale di Regional contro Kentucky.

Beh sogno mica tanto, visto che, come tutti del resto, preferirebbero giocarsela contro PressVirginia. Anche loro quindi si appellano alla cabala e sperano che qualcuno faccia fuori i Wildcats imbattuti prima di vederseli davanti, magari volando sopra le loro teste.

https://www.youtube.com/watch?v=VuMaBtweuYc

La speranza ora si chiama Bob Huggins, coach di WVU, che ha un record di 8 vinte e 2 perse contro Calipari in carriera. Si vedrà stasera. Clima amarcord allo Staples, invece, per l’incontro tra Sean Miller e la sua precedente squadra, gli Xavier Musketters (altro confronto interstatale). Poi Pitino contro un Wolfpack in straordinaria fiducia, Roy Williams contro Bo Ryan, Izzo contro Kruger. Ce ne è un po per tutti.

Benvenuti alle Sweet Sixteen.

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