Crampi Elisi 2015 — Gli spiriti del Tour

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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8 min readJul 28, 2015

SPIRITI ELISI

I Campi Elisi, secondo la letteratura mitologica greca e romana, sono il luogo dove si raccolgono, dopo la morte, le anime degli eroi e delle persone buone, i più amati dagli dèi. Un paradiso pagano cui la corona francese ha voluto rendere omaggio negli anni, ridisegnando la viabilità di Parigi a misura della propria autocelebrazione. Nel ciclismo, i Campi Elisi (o meglio, gli Champs Élysées) sono il luogo dove gli eroi del Tour mettono fine alle loro fatiche. Non vi è nessuna eterna beatitudine dopo, ma soltanto un riposo agognato dopo tre settimane di fatica. Sui Campi Elisi gli eroi del ciclismo vagano ancora oggi, talvolta si esibiscono in sprint improvvisati come sfida tra tre diversi decenni, altre volte si limitano ad assistere alla sfilata degli eroi ancora in corsa, sul finire della loro battaglia. Ma in un luogo così ricco di mitologia, non può destare stupore la comparsa di un fantasma: tra gli eroi e i beati che riposano nella vita eterna, qualcuno ancora resta sospeso, angelo indeciso tra vita e morte.

A poco più di due chilometri dal traguardo finale del Tour, sui Campi Elisi domenica si è manifestato un fantasma. Non poteva essere un vivente, non lì, non in una giornata blindata per Parigi, dove la polizia non aveva avuto remore a sparare. Resta in piedi a braccia larghe in mezzo a un gruppo lanciato a 50 all’ora il fantasma, ondeggiando un poco ma senza mai sbilanciarsi; solo il movimento dell’aria che fa muovere la sua veste bianca lascia il dubbio che sia una creatura di materia concreta, ma così non può essere, e lo sanno bene i corridori che lo sfiorano e passano oltre.
Non ci è dato sapere chi fosse questo fantasma, cosa portasse scritto sul suo mantello, se una parola di protesta o di pace, se il suo spirito volesse opporsi al Tour o se le sue braccia aperte fossero soltanto un abbraccio impossibile. Risposte che non avremo mai, almeno fino all’anno prossimo, fino al ritorno sui Campi Elisi, dove passeggiano gli eroi e, ogni tanto, appaiono anche i fantasmi.

Protestor on the course — how did he get there! pic.twitter.com/VtsDEjetwT

— David Standard (@DaveStandard) 26 Luglio 2015

A LA COURSE COMME A LA COURSE

Diluviava, come e più che a una classica del Nord, quando poco prima delle tre del pomeriggio di domenica Anna Van der Breggen tagliava il traguardo degli Champs Élysées braccia al cielo, conquistando la seconda edizione de La Course by Le Tour de France. E’ proprio mentre il ricco plotone maschile della tappa finale della Grande Boucle prendeva il via della sua ultima tappa da Sèvres, che il Tour rendeva un nuovo omaggio alle protagoniste del ciclismo femminile. Un ciclismo snobbato nei numeri e nella visibilità, umiliato dalla disparità economica rispetto a quello maschile, eppure fatto di protagoniste splendide e battagliere, illuminato anche sotto il diluvio da un coraggio tattico che dovrebbe essere solo di esempio per i più ricchi colleghi maschi.

Anna Van der Breggen ne è un esempio perfetto: sul circuito bagnato degli Champs Élysées riesce ad anticipare una sicura volata di gruppo lanciandosi all’attacco nell’uscita dal tunnel, in quella leggera salita verso l’Arc de Triomphe, e portandosi quel vantaggio fino al traguardo. Un’azione più di occhio che di gambe che completa la sua estate magica, dopo la vittoria del Giro Rosa, che non può non esaltare anche la sua più celebre compagna di squadra: la divina Marianne Vos, una che a 28 anni è già considerata la più grande di ogni tempo e che di questa Course ha vinto la prima edizione 12 mesi fa. Marianne quest’anno è ferma per malanni fisici, ma a giudicare da come ha seguito la corsa in telecronaca, non si può dire che si stesse riposando.

TIFARE CON MODERAZIONE

Il Tour de France è finito, viva il Tour de France. Di queste tre settimane di gara ci ricorderemo di qualche impresa, di pochi attacchi memorabili, di alcune cadute e di diversi protagonisti; ma la gara è solo un piccolo aspetto di quell’universo di strada che è il Tour de France, la cui componente più spettacolare non sta al centro della strada ma ai suoi bordi. I tifosi del Tour sono una vera e propria esplosione di colore (ve lo raccontavamo nel nostro racconto dalla strada), e quando si avvicinano gli ultimi giorni, quando le Alpi promettono di essere il teatro delle sfide decisive, questa esplosione diventa irrefrenabile.
Certo, quando i numeri si fanno così imponenti, è impossibile pensare che tutti i tifosi siano all’altezza dello spettacolo. Ne sa qualcosa Chris Froome che dopo il famigerato bicchiere di piscio in faccia nell’ultima settimana è stato accolto prima dal più classico degli “ombrelli”…

… e poi persino dagli sputi, gli stessi su cui le ironie in rete hanno creato fantasiose ipotesi su vecchi rancori…

La risposta a questi personaggi potrebbe venire direttamente dal gruppo dei corridori, ma sempre più spesso avviene direttamente dal resto del pubblico.
Nel gruppo ci ha pensato su più volte Jan Barta, quando si è trovato con una borraccia da buttare e un ragazzo che gli mostrava il culo a pochi centimetri di distanza. Non sappiamo come sia andata a finire (ma crediamo che Barta si sia trattenuto).

Chi non si trattiene fortunatamente sono alcuni spettatori che di questi idioti non ne possono più, soprattutto di quelli che in mezzo al gruppo rappresentano un pericolo reale. Così capita che attraverso il pubblico scatti una forma di auto-moderazione, che quando è necessario avviene anche con le maniere forti.

Un’auto-moderazione che riguarda solo il disturbo, ovviamente, non certo l’alcool.
Se l’Alpe d’Huez è un luogo sacro per tutto il ciclismo, il tornante degli olandesi all’Alpe d’Huez è il luogo sacro per eccellenza per chi il ciclismo ama viverlo ad alto tasso alcoolico. Una visione godereccia dello storico “passaggio della borraccia” che spesso e volentieri coinvolge i corridori stessi, che dopo un Tour di fatica un goccio di birra se lo bevono volentieri.

Soprattutto gli ultimi del gruppo, come Manuel Quinziato qui sopra o come un altro onnipresente di queste feste. Adam Hansen? No, Borat.

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Ma dai primi agli ultimi, è difficile capire quanta lucidità ci sia nelle scelte dei corridori al passaggio dal tornante olandese. Per capirlo basta mettersi in sella con loro, chi non ne uscirebbe frastornato?

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IL GRUPPETTOBUS

I tornanti dell’Alpe d’Huez, così come quelli di ogni altra salita alpina, sono il luogo perfetto dove la festa allevia la sofferenza. Quando vediamo gli ultimi corridori salire sorridendo, spesso non ci rendiamo conto della fatica che hanno nelle gambe, e spesso non se ne rendono conto nemmeno loro.

Il modo migliore per sopravvivere a questa fatica non è la birra degli olandesi, bensì il gruppetto: il plotone di velocisti, passisti, ciclisti stanchi e ciclisti mezzi malati che a un certo punto della corsa, nelle tappe più dure, si forma da solo e va d’amore e d’accordo fino al traguardo per evitare il limite del tempo massimo. In realtà non si forma da solo il gruppetto, viene chiamato da qualcuno, e bisogna stare attenti alla chiamata per non perdere l’autobus. Per maggiori informazioni, come ci suggerisce Thomas De Gendt, basta chiedere a Marcel Sieberg.

FEAR OF THE DARK

Il fallimento è l’origine del successo” (Proverbio giapponese).

L’ultima tappa di questo Tour è stata l’unica volata in cui Peter Sagan non si è piazzato nemmeno tra i primi cinque. Nel momento in cui c’era da fare l’ultimo sforzo è arrivata la fatica di tre settimane a tutta, benchè lo slovacco abbia provato a inserirsi tra i primi facendo anche a spallate e testate. L’atteggiamento nervoso di chi ha fatto un grande Tour, ma non è mai riuscito a vincere.

Vincere non è mai facile, in uno sport faticoso come il ciclismo, ma ci sono corridori in particolare per cui vincere è proprio difficilissimo. C’è chi non riesce a vincere per mancanza di gambe, e lì c’è poco da fare, ma c’è chi la vittoria non riesce ad agganciarla per quei motivi tutti misteriosi che sono racchiusi nell’animo dell’uomo. L’arrivo di Rodez con il testa a testa tra Greg Van Avermaet e Peter Sagan ha regalato uno scontro ad altissimo livello tra i due esempi più fulgidi di corridori i cui limiti interiori si tramutano in macigni all’approssimarsi del traguardo di una corsa.
Talenti fenomenali e grandi lavoratori, Greg e Peter hanno una storia di corse da protagonisti e di piazzamenti di lusso, ma un carnet di vittorie che — per quanto numerose possano essere — non è mai all’altezza di questi piazzamenti. Uno, Greg, è il massimo regolarista delle grandi classiche (10 top ten nelle classiche monumento in carriera); l’altro, Peter, ha corso 84 tappe del Tour nella sua giovane carriera, e per 36 volte è arrivato tra i primi cinque: numeri impressionanti per due campioni che in corsa riescono ad entusiasmare, ma che quando vedono a pochi metri da loro la linea bianca del traguardo sentono le gambe bloccarsi e lo sguardo fuggire altrove. E ogni volta che questi numeri aumentano, ogni sconfitta che passa, questo blocco si fa più duro, minando un’autostima che troppo spesso è già allo zero assoluto. Napoleone diceva che “Chi ha paura d’essere battuto sia certo della sconfitta”, che è necessario affrontare e comprendere la sconfitta per imparare a vincere. Ma la sconfitta ripetuta all’eccesso, specie per pochi centimetri, rischia di generare soltanto altre debacle.

Non ci è dato sapere a cosa pensino, corridori come Greg e Peter, in quei pochissimi secondi in cui è la paura a schiacciarli, nei secondi che corrono velocissimi e separano i loro destini dal dolce sapore della vittoria. Forse ora potrebbe raccontarcelo Greg, dirci come cambiano le sensazioni nel passare dal timore al trionfo. Nei giorni successivi a provato a raccontarcelo anche Peter, in fuga ogni giorno e ogni giorno piazzato sul podio di tappa, ma ancora battuto. Non si può negare che non ci abbia provando fino in fondo a vincere questa tappa che ancora gli sfugge, ma il traguardo continua ad essere un tabù, un moloch che prima o poi riuscirà a fare un po’ meno paura.

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SPARARE A SALVE

Non facciamo torto a Peter Sagan, il suo Tour non è stato quello della paura ma quello dello spettacolo comunque, fuori e dentro la gara. Gli ultimi sintetici di questo Tour li dobbiamo per forza chiudere con lui, che del trofeo per la sua maglia verde ne fa un’allegra mitraglia verso il pubblico parigino. L’espressione di rinnovata incredulità con cui lo guarda Chris Froome è la stessa con cui continuiamo a guardarlo anche noi, che ancora non ci siamo stancati di raccontare questa corsa e le sue insostituibili stravaganze.

Articolo a cura di Filippo Cauz.

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