Cuore più cervello — Intervista a Lenny Bottai

Crampi Sportivi
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9 min readSep 23, 2015

C’è un luogo a Roma, nel cuore del Tufello, strutturato sulla solidarietà e la condivisione. È la Palestra Popolare Valerio Verbano. Sono ormai dieci anni che (r)esiste, barcamenandosi tra difficoltà economiche ed assurde richieste d’affitto. Tutto ebbe inizio nel 2005: quando alcuni ragazzi del centro sociale Astra 19 decisero di occupare un locale abbandonato, fatiscente, ridotto a deposito di mobili vecchi, lasciati lì dagli sfrattati delle case popolari. Erano gli anni in cui l’eroina circolava troppo facilmente tra i giovani, in un quartiere apatico, che, privo di servizi e luoghi d’aggregazione, sembrava condannato a sprofondare giorno dopo giorno nell’incuria. Oggi la palestra è una realtà conosciuta e apprezzata, che nel corso di questi dieci anni ha raggiunto importanti traguardi agonistici. È uno spazio aperto a chiunque — ragazzi e bambini in particolare — voglia avvicinarsi alle arti marziali o alla ginnastica artistica.
Ma questa palestra rappresenta molto di più. È soprattutto il tentativo quotidianamente perseguito, attraverso l’impegno e i sacrifici di chi vive il quartiere, di avvincere a pratiche concrete di emancipazione (come lo sport popolare) la memoria di Valerio Verbano. Uno sforzo per restituirne il ricordo, “ferita ancora aperta” (cit. Capoccetti Boccia), proprio lì dove gli occhi vividi di lacrime hanno dato l’ultimo, commosso, saluto a Carla Verbano, il 7 Giugno del 2012.
Lo sport popolare, al Tufello, sembra muoversi nel solco tra lotta e memoria. Sabato 12 Settembre il pugile livornese Lenny Bottai è venuto per tenervi uno stage. Abbiamo deciso, allora, d’incontrarlo per un’intervista.

Cosa hai provato tornando al Tufello, in questa palestra?

Guarda, sono arrivato questa mattina e qui fuori c’era un sole bellissimo. Ho fatto una foto, l’ho pubblicata sulla mia pagina facebook e c’ho scritto “casa”. Perchè per me questo è il senso, quando sono qui al Tufello. Ormai riconosco questo quartiere, e non soltanto questa palestra, come una casa. Ed è un sentimento che provo davvero dal profondo. Tornare qui, ad allenarmi o per fare degli stage, per me è sempre un piacere. Anche oggi, ad esempio, che abbiamo vissuto una bella giornata di sport popolare. L’obiettivo era quello di raccogliere fondi per le popolazioni del Donbass, per portare materiale sportivo in una zona di guerra. Un gesto di pace concreto, assai più efficace di qualsiasi analisi geopolitica.

Quando e come ti sei avvicinato alla boxe?

Io in verità iniziai con il kick boxing. Avevo 13 anni. Andavo in una palestra vicino casa. A portarmici fu un amico che smise l’indomani. Da lì compresi quasi subito, però, che ad appassionarmi erano soprattutto le tecniche di braccia. E così, compiuti 14 anni, provai con il pugilato, appena presi il motorino. Capii immediatamente che quello era il mio sport. Poi purtroppo, complici una squalifica presa a 21 anni e diverse distrazioni di strada che il mio quartiere mi offriva in quel periodo, dovetti abbandonarlo. Fino a che, a 27–28 anni, non tornai in palestra, quasi per gioco. Era il 2004, subito dopo le Olimpiadi di Atene. Pesavo 98,5 Kg. Decisi allora di rimettermi in gioco. Inizialmente tornai in palestra solo con lo scopo di perdere peso, anche se, intimamente, speravo di poter tornare a combattere. In seguito, le cose — devo dire — sono andate piuttosto bene. La boxe mi ha dato tante soddisfazioni. Riuscire a passare al professionismo, ad esempio: per me, che percepivo il dilettantismo come uno sport “diverso” dal pugilato professionistico, è stato motivo d’orgoglio. E’ stata una grande avventura, di passione e sacrificio. Ma è stata soprattutto una storia condivisa. Perchè davvero non posso dimenticare il sostegno che ogni singola persona mi ha dato standomi accanto: la mia città, la mia gente, persino questa palestra. Sono riuscito a trasformare il loro amore in energia.

Tu sei anche uno dei pochi atleti ad esser riuscito a coniugare una carriera sportiva di successo con un impegno politico reale, non solo di facciata come per tanti.

Sai, quando hai una struttura ideologica forte, radicata, frutto di generazioni, fai davvero fatica a farne a meno. Senti quasi il bisogno di non rinnegare mai te stesso e la tua linea di pensiero, portarla anzi scritta addosso. Ti accompagna, come un faro illuminante. E tante volte per me è stata proprio questo.

In questo senso, immagino che crescere in una città storicamente antifascista come Livorno ti abbia segnato.

Indubbiamente. Un ricordo di mia nonna ha accompagnato la mia crescita. Mi raccontava di dispute infinite, a Natale, fra il marito comunista, il suocero anarchico, più volte incarcerato e confinato, e il padre socialista, deportato in un campo di concentramento. Nel dopoguerra era questa la situazione in famiglia. Ed è in questo contesto sociale che sono cresciuto.

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Di recente hai preso parte al mixtape Benvenuti in borgata vol.3 di DJ Fester Tarantino, aprendo una canzone del Supremo 73 che s’intitola “Vecchie maniere”. Mi pare che tu incarni perfettamente questo concetto, e lo faccia “dal ring fino in mezzo alla strada” (cit.). Ovvero, in fin dei conti, il proposito di restare autentici. Anche in un mondo, come quello dello sport, che sembra esser(si) ridotto a mero intrattenimento.

In effetti c’è da dire che la boxe, purtroppo, è stata conosciuta attraverso un’iconografia fatta di film, in cui quasi sempre il pugile è un disperato o in cui il combattimento appare estremo, ai limiti del reale. Quindi la gente, il più delle volte, ha percepito situazioni che poi, in realtà, risultano essere profondamente diverse.
Sono stato contento di aver collaborato al mixtape. Anche perchè ho notato che i Gente De Borgata hanno avuto il coraggio di esporsi, in una metropoli complessa e polimorfa come Roma, prendere posizioni nette su tematiche sociali quali il lavoro e il razzismo. Quando ti esprimi su certi argomenti è ovvio che commercialmente dimostri di non essere un paraculo cerchiobottista. E questo ti fa onore, perchè sono scelte che a volte rischi di pagare.

Era importante farlo. Visto anche il qualunquismo che negli ultimi anni sembra affliggere certo rap italiano.

Esatto. Anche nel rap imperversa un’immagine molto machista. Ricordo ad esempio una diatriba tra i Dogo e il mio amico Militant A degli Assalti Frontali, di cui condivido pienamente le parole. Chi comunica, soprattutto ai giovani, ha in mano una cosa importante. E indirettamente anche qualche responsabilità. Io poi comunque, pur avendo una cultura musicale diversa, più legata al rock, apprezzo molto anche gruppi come Colle Der Fomento. E proprio Danno con gli Artificial Kid ha fatto un disco bellissimo, dal punto di vista concettuale fantastico. In fondo il rap ha questo di unico: ti consente di tirar fuori in una volta sola una tale mole di contenuti che, in qualsiasi altro genere, riempirebbe dieci canzoni. Quando questo non avviene mi sembra fine a se stesso: è un’occasione sprecata.

Troppo spesso si dimentica che l’hip hop è una cultura meticcia, antifascista per natura. Soprattutto era una possibilità di riscatto per i ghetti afroamericani. In questo senso, al pari dello sport popolare, potrebbe rappresentare ancora adesso uno strumento per emancipare dal basso le periferie e le borgate. Si tratterebbe di riscoprirne l’essenza, o piuttosto le “radici”, per citare Kento, un rapper che conosci di persona e che ti ha anche omaggiato in un suo pezzo.

Sì, assolutamente. E Kento è un amico, un ragazzo con un grande cervello.

La deriva razzista che ha investito l’Italia spesso si manifesta anche nello sport. Penso a Balotelli, ad esempio, che forse è soltanto il caso più emblematico dal punto di vista mediatico.

Ma sai, il calcio ed i calciatori, per le condizioni che vivono, aiutano fino a un certo punto a comprendere la reale portata del razzismo. Il razzismo vero è quello vissuto in situazioni complesse e ordinarie: in fabbrica, con il caporalato o altre forme di sfruttamento. Alla fine, la dinamica del tifo è quella di un paradosso. E’ partigianeria. Andrebbe tutto un po’ “filtrato”. Se giochi in una squadra e fai goal ti acclamano, anche se sei nero. E anche se la tua tifoseria è di estrema destra. Per gli altri resti un avversario da insultare.

E nel pugilato hai mai assistito ad episodi di intolleranza?

Nella boxe c’è stato un grossissimo dibattito per far accettare i figli di stranieri residenti in Italia all’interno dei campionati nazionali. C’era una colonna destrorsa e conservatrice che si opponeva a tutto questo. Io mi ero schierato sostenendo che sono campionati italiani, non degli italiani. Anche i nostri Marciano, Malignaggi e altri pugili italo americani, hanno avuto questa opportunità più che legittima negli Stati Uniti. E del resto mi sembra anche ovvio: un ragazzo che è affiliato a una federazione, studia, lavora e paga le tasse in Italia, dove dovrebbe farli i campionati?

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Mi colpì molto una tua vecchia intervista in cui parlavi di Sonny Liston, forse il primo importante avversario di Muhammad Alì. A partire dall’infanzia, la sua fu un’esistenza tragica, dolorosa. Da adulto portava ancora sulla schiena i segni delle frustate infertegli da bambino. Anche lui fu vittima di violente discriminazioni. Anche dello stesso Alì.

Io ho conosciuto la vicenda attraverso due libri, che consiglio vivamente. Uno — che è il mio libro preferito — si chiama Il diavolo e Sonny Liston di Nick Tosches: fantastico! C’è dentro tutta la vita di Liston, che è veramente da film, molto più di quella di Alì. L’altro è Il re del mondo di David Remnick: un ritratto di Muhammad Alì, che apre delle porte a una visione profondamente diversa da quella convenzionale. Alì è stato soprattutto un grande personaggio, mediaticamente abilissimo. Ma di certo non è stato il più grande pugile della storia: questa è decisamente una rappresentazione artefatta che lui stesso è riuscito a costruire di sè. Sfruttando il sostegno del Nation of Islam e della parte “bene” degli afroamericani è riuscito poi a escludere Sonny Liston, facendolo passare come un criminale. Fino a renderlo il “negro” tra i neri. Anche questa, se ci pensi, è una forma di razzismo. In fin dei conti, quello di Alì è stato un mito piuttosto ipocrita. Come la storia della medaglia, che avrebbe buttato nel Mississippi: semplicemente la perse. Per non parlare poi di alcune sue posizioni maschiliste, di cui raramente si parla. Insomma, andrebbe tutto ridimensionato.
Sonny Liston invece è un campione dimenticato, con una storia incredibile. Ha conosciuto la boxe in carcere, a vent’anni. E forse è anche per i suoi carichi pendenti che non fu mai riabilitato del tutto. Quando sono stato a Las Vegas, per la finale dei superwelter Ibf, ho visitato la sua tomba. Un momento davvero emozionante.

Io ricordo anche Emile Griffith, discriminato perchè nero e omosessuale.

Pensa che io Griffith l’ho conosciuto attraverso Facebook. Credevo fosse uno scherzo e invece era proprio lui! Recentemente c’è stato anche un pugile portoricano, Orlando Cruz, che ha fatto outing. Chissà, magari un giorno, anche grazie a loro, l’umanità si renderà conto di tutte le sue contraddizioni.

Forse per troppo tempo il machismo più gretto ha inquinato lo spirito di questo sport.

Questa è una cosa che soprattutto noi insegnanti dovremmo combattere. Io ai miei ragazzi insegno che il pugilato è soprattutto una sfida con se stessi, mai contro gli altri. Quando batti un buon avversario, batti prima di tutto te stesso: vinci le tue paure, riesci a domare quelli che Parisi chiama “i tuoi demoni”. Nessuno sei quando entri in palestra, nessuno resti quando ne esci, anche se hai vinto cento titoli. A me è questo che ha insegnato il pugilato. Però, anche in questo sport, purtroppo ci sono molti che campano d’immagine.

Cambiando argomento: recentemente è stato l’undici Settembre. Anni fa ci fu uno striscione delle Brigate Autonome Livornesi: “Corea, Vietnam, Yugoslavia, Iraq… Ogni presidente un errore. Servirà un giorno di terrore?”, stigmatizzato da gran parte del giornalismo che non colse la riflessione critica che vi era sottesa, interpretandolo come un’offesa. Tu come ricordi quei giorni?

Premetto che non amo molto parlare dello stadio. E ti spiego perchè: io ho avuto una funzione per quanto riguarda il mio gruppo; tutte le azioni che ho fatto e che rifarei, tutto ciò di cui posso parlare, è affine al mio gruppo. Una volta che il mio gruppo è sciolto, è esclusa anche solo l’idea, per me, di poterne parlare. Per me quello è un periodo chiuso. Non per le battaglie ideologiche portate avanti in quegli anni, ma proprio come periodo di vita.
Nello specifico, la risposta a quello striscione possiamo leggerla nel corso di questi ultimi quattordici anni. Tuttora prevale nel mondo occidentale l’idea di poter governare e fare economia con l’imperialismo.

E riguardo all’undici settembre di Salvador Allende?

L’esperienza cilena fu soprattutto la testimonianza drammatica che in America Latina — quella che Henry Kissinger definiva il “nostro cortile di casa” -, difficilmente il potere si può conservare con le modalità che ha avuto con Allende. Il suo governo era predestinato dalla nascita. Io invece sono stato molto sorpreso da Chavez, dalla sua abilità mediatica. Aveva compreso tutte le potenzialità politiche della comunicazione. Spesso lo si è accusato di populismo. Ma forse si tratterebbe di distinguere tra chi cavalca e sfrutta i timori e i bisogni di chi vive la miseria, e chi, al contrario, li incarna, per farsene carico.

Forse, in politica come nella boxe, è indispensabile tendere verso un equilibrio tra forza e precisione. Come testimonia anche il martello ed il calibro che hai tatuato sul petto. Insomma: “cuore più cervello” (cit. Colle Der Fomento).

Proprio così. Questo è un simbolo sovietico abbinato ai reparti tecnici. Fu usato anche dagli Erode per un loro disco. Indicava appunto la necessità di calibrare la potenza sulla meticolosità e l’accuratezza. E anche allenandomi ho avuto sempre l’impulso a scomporre ogni singolo gesto per capirlo ed analizzarlo. Questo è importante: provare a razionalizzare tutto, in ogni cosa che fai. Altrimenti siamo in balia del nulla.

Davvero non si vuole,
che da sotto le bluse,
dove prima
c’era la gobba,
gettato via
il peso
delle camicie-fardello,
si distendano
un paio di ali?!

V.V. Maijakovski

Un Grazie di cuore alla Palestra Popolare Valerio Verbano e a Lenny Bottai per la disponibilità.

Articolo a cura di Flavio Lepore

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