Date un pallone a quell’uomo — La mano calda esiste

Crampi Sportivi
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7 min readJan 9, 2015

Gli ultimi sei palloni che ha rilasciato hanno attraversato tutti la retina dolcemente. Nessun errore in uscita dal quarto carrello. Marco Belinelli sta per diventare il terzo europeo (primo italiano) a vincere la gara del tiro da 3 punti all’All Star Game NBA e Flavio Tranquillo ha appena disegnato, per lui, un paragone leggendario. Marco Belinelli è caldo come una stufa.

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Il telecronista, da manuale, introduce e poi fa parlare solo retina, ferro e ooh del pubblico. All’istante 0:53 proferisce parola e prende per mano la Storia, che quella notte faceva scalo a New Orleans.

Niente di incomprensibile, per chi segue la pallacanestro. La nozione che un giocatore capace di realizzare una serie di canestri consecutivi sia caldo è comune e intuitiva. In alcuni videogiochi, il fromboliere che ha appena segnato un consistente bottino di punti in un’unità di tempo limitata appare circondato da fiamme. Meglio: on fire è un’espressione entrata nell’uso comune.

Più tecnicamente, alcuni giocatori vengono fatti rientrare nel novero dei “tiratori di striscia”. Quando cominciano a vedere il canestro con continuità, vanno assolutamente cercati e serviti. Esempi eclatanti di streak players sono l’ultimo Ray Allen e ovviamente Kobe Bryant. Qui quello con il numero 24 segna undici canestri di fila contro i Jazz, tanto per gradire. Sembra non poter sbagliare, per legge.

Nessun allenatore si sognerebbe di togliere giocatori del genere dal campo, quando caldi. I compagni di squadra, d’altronde, mostrano una fiducia incondizionata nei loro confronti. Perché gente così ha chiaramente la mano calda. E tutti credono alla mano calda.

Ora, il problema numero uno è che fare ricerca consente di sottoporre alla prova dei numeri alcune delle credenze più diffuse e universalmente accettate.

Il problema numero due è che negli Stati Uniti c’è giusto qualcuno che segue la pallacanestro e giusto qualcun altro che fa ricerca (e pure qualcuno che fa entrambe le cose).

Il problema numero tre è una semplice, immediata conseguenza dei primi due: molto spesso, concetti che tutti danno per assodati si rivelano scientificamente falsi o quantomeno ‘non provati’.

Il dibattito intorno al fenomeno della hot hand e alla sua esistenza rimpolpa e riscalda la letteratura statistica e sportiva da quasi trent’anni. L’ultimo mattoncino è dello scorso agosto e potrebbe rappresentare, nel settore, una specie di rivoluzione copernicana.

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Secondo Wikipedia, NBA Jam era semplicemente “non realistico, ma incentrato sull’azione frenetica e spettacolare.” Sarà. Però giocare con Al Gore contro Shaq, entrambi in modalità macrocefala, resta un’esperienza fondativa degli anni ‘90.

C’erano un epistemologo, un matematico e uno psicologo. Erano gli anni ’80 e usarono i dati dei Philadelphia 76ers di Julius Erving per mostrare che la mano calda non è altro che una banale illusione statistica. Non è vero, in pratica, che un canestro appena realizzato aumenti le probabilità di mettere a referto anche il tiro successivo.

Gli autori spiegano che si tratta di un fenomeno legato alla scarsa dimestichezza che le persone comuni hanno con le leggi della probabilità e con il concetto di ‘evento casuale’.

Significa che noi esseri umani tendiamo naturalmente ad applicare leggi molto generali anche a esperienze sensoriali numericamente molto piccole. Per esempio, ci aspettiamo che lanciando una monetina per 10 volte otterremo 5 teste e 5 croci, ignari che in realtà ci avvicineremo con certezza ad un risultato equilibrato tra numero di teste e numero di croci solo dopo aver lanciato la monetina molte più volte. Un numero infinito di volte, per dirlo con la legge dei grandi numeri. Dieci tentativi sono un numero molto piccolo, per la statistica.

La fallacia dello scommettitore è quella che ci fa puntare convintamente sul rosso dopo che la pallina si è fermata sul nero per tre o quattro volte consecutive. Il 18 agosto 1913 nel casinò di Monte Carlo la pallina finì sul nero per 26 volte consecutive, facendo perdere milioni di franchi a giocatori sprovveduti.

È una convinzione errata, che fa gridare qualcuno al complotto quando escono cinque teste consecutive lanciando una monetina: ci deve essere un trucco!

E invece, indicando con T una testa, la sequenza di dieci lanci

T C C T T C T C C T

ha la stessa probabilità di verificarsi dell’”anomala” sequenza

T T T T T C C C C C.

Per lo stesso motivo, dimostrano argutamente gli autori, una sequenza di tre o quattro canestri consecutivi appare agli occhi di chi guarda il basket come un evento eccezionale e assolutamente non casuale. Quel giocatore ha la mano calda, dategli il pallone.

Ma, alla prova dei numeri, dai dati NBA della stagione 1980–81 non emerse alcun miglioramento significativo delle percentuali realizzative in seguito ad uno o più canestri segnati. Anche il focus sui tiri liberi, situazione di studio privilegiata, non produsse alcunché. Nessuna mano calda, solo strisce di successi e insuccessi statisticamente ordinarie.

La fallacia dello scommettitore spiegata con poche velleità statistiche (e pure artistiche, va detto).

Il problema, come facilmente intuibile, valica le linee dei parquet e si fa più teorico e generale. Arriva ad avere implicazioni dirette nella teoria dei giochi e spiega alcune complesse dinamiche della finanza.

Ma la tendenza a vedere pattern laddove invece c’è solo casualità è innata nel nostro cervello o è invece prodotto culturale acquisito durante l’infanzia?

Recentemente, alcuni ricercatori dell’Università di Rochester hanno mostrato che anche le scimmie credono all’esistenza di strisce positive o negative di eventi. Alcuni macachi Rhesus sono stati sottoposti ad un gioco in cui venivano premiati se sceglievano l’opzione giusta tra le due possibili (destra o sinistra).

Ebbene, quando la risposta vincente si ripeteva con regolarità tra i due lati, i macachi si sono dimostrati capaci di imparare rapidamente la sequenza vincente. Quando invece l’opzione vincente si alternava in modo del tutto casuale tra i due lati, le scimmie continuavano a rispondere come se ci fosse un ordine nella distribuzione delle risposte. Cercavano una regolarità anche dove questa non c’era. L’hanno fatto per settimane.

In definitiva, l’idea è che questa tendenza sia un risultato dell’evoluzione. In natura il cibo non è distribuito casualmente, ma segue dei pattern particolari. Quindi gli individui — come i primati — capaci di riconoscere questo ‘ordine’ sarebbero stati avvantaggiati nella fase di approvvigionamento delle risorse. L’illusione della mano calda sarebbe una cosa tipo il collo lungo delle giraffe, insomma.

Marreese Speights, che in gioventù doveva aver passato svariate ore con la cartuccia di NBA Jam nel Nintendo, attende fiducioso che la sua mano prenda realmente fuoco.

Per diversi lustri, la hot hand fallacy è stata considerata esempio classico di scarsa conoscenza statistica. Poi, la scorsa primavera, tre ricercatori di Harvard hanno deciso che la storia andava — almeno parzialmente — riscritta. Per farlo, hanno usato una mole di dati incredibile.

SportVU è un servizio fornito da Stats, uno dei leader mondiali nella raccolta di informazioni statistiche in ambito sportivo. SportVU usa speciali telecamere installate nelle arene NBA, basate sul sistema di monitoraggio missilistico israeliano. Si tratta di telecamere capaci di registrare la posizione della palla e di tutti i giocatori in campo per venticinque (25) volte al secondo.

La conoscenza di informazioni come la distanza dal canestro, l’angolo di tiro e la distanza dei due difensori più vicini al tiratore ha permesso agli autori di impostare modelli statistici molto più accurati rispetto a quelli che avevano smontato l’ipotesi della mano calda nel 1985. In particolare, è stato possibile creare un indicatore di difficoltà del tiro. Si tratta di un passaggio fondamentale per comprendere la portata dei nuovi risultati.

Infatti, il primo risultato-chiave dell’analisi è che i giocatori di basket credono concretamente all’esistenza della mano calda. Dopo aver segnato alcuni canestri in sequenza, acquisiscono fiducia, tirano di più, si prendono tiri più difficili. La difficoltà aumenta perché i giocatori caldi tirano da più lontano e perché la difesa tende ad essere più attenta e aggressiva su di loro.

Tutto questo significa che la scelta dei tiri non è affatto casuale e tiri successivi non sono indipendenti tra loro: erano gli assunti fondamentali della teoria ‘negazionista’ degli anni ’80, che viene quindi completamente rimessa in discussione.

Inoltre gli autori mostrano che, tenuto conto della crescente difficoltà dei tiri, la mano calda esiste ed è quantificabile in un aumento delle percentuali realizzative nell’ordine dell’1–2% rispetto alle medie personali in condizioni standard. Un fiammifero più che una stufa, verrebbe da dire: l’effetto trovato è piccolo in termini assoluti. Ma insomma, accontentiamoci.

Lo scopo principale, pienamente raggiunto, era quello di riaprire il caldo (ça va sans dire) dibattito sul tema, considerato forse troppo presto come una discussione a senso unico. E di dimostrare, se ce ne fosse ancora bisogno, le enormi potenzialità nascoste dentro l’uso intelligente dei numeri e della tecnologia all’interno del discorso sportivo moderno.

Stephen Curry è uno dei cestisti NBA che diventa caldo con maggiore frequenza. Heat Check Time è il momento di misurarsi la febbre. In genere succede quando un giocatore ha appena segnato tre triple consecutive e si è quindi guadagnato il diritto di prendersi il tiro successivo da una posizione del campo a suo piacimento.

In questo inizio di stagione, Curry (il cui tiro da tre somiglia a tante cose) ha già acceso la luce svariate volte in casa Warriors.
Negli scorsi giorni, Grantland ha dedicato un pezzo monumentale a Steph e al suo amico Klay Thompson, gli Splash Brothers di Golden State che in certi momenti vedono il canestro grande quanto una vasca da bagno.

“Sì, ci capita spesso. È una combinazione di sensazioni positive, palloni che entrano e scelta di buoni tiri. Insomma, molte variabili da prendere in considerazione contemporaneamente. Ma lo capisci chiaramente quando sei in quel momento in cui ti basta guardare il canestro per sapere che la palla entrerà.”

Alcune volte si diventa bollenti, punto. Ci sono sequenze di attimi, sospesi e specialissimi, in cui una grazia misteriosa sembra accarezzarci e renderci infallibili. Che i numeri dicano pure quello che vogliono.

Chi conosce il basket ha sempre saputo bene, meglio di tutti, che la mano calda esiste. Lo sapeva Marco Belinelli, quella sera di febbraio in cui è entrato nella storia a New Orleans. E lo sapeva pure Flavio Tranquillo, con quel suo paragone da antologia.

Amos Tversky, uno dei coautori del citatissimo articolo del 1985, di solito si congeda così: “Mi sono trovato in migliaia di discussioni in cui sostenevo l’inesistenza della mano calda. Ho sempre avuto ragione, ma non ho mai convinto nessuno.”

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