Divide et (non) impera

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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9 min readOct 3, 2017

Prequel: Not much has changed

«Non puoi aver paura di pensare a come vendere scarpe se sei preoccupato per i diritti civili e umani. Semplicemente non puoi. È così. Lui ha preferito gli affari alla coscienza. Mi dispiace per lui, ma dovrà farsene una ragione».

A Kareem Abdul-Jabbar, quella frase di Michael Jordan («anche i Repubblicani comprano le sneakers») non è mai andata giù. E nel novembre del 2015, lo dice apertamente. Così come l’avrebbe detto apertamente, qualche mese più tardi, anche Craig Hodges, che di Jordan fu compagno di squadra dal 1988 al 1992 prima di sbarcare in Italia, a Cantù. Un cambiamento fatto anche a causa dell’ostracismo subito a seguito delle critiche rivolte a His Airness sulla sua mancata presa di posizione contro l’assoluzione dei poliziotti protagonisti del pestaggio di Rodney King che, di fatto, diede il via all’allora celebre rivolta di Los Angeles:

«Michael all’epoca non si sbilanciava soprattutto perché non avrebbe saputo cosa dire, non perché fosse una cattiva persona. Oggi è un imprenditore esperto, e sono contento per lui, sul serio, non lo odio per questo. Ma ha acquisito conoscenza e consapevolezza con l’esperienza e recentemente si è lasciato anche coinvolgere in iniziative lodevoli, sono sicuro che adesso è molto più conscio rispetto a certe problematiche».

A oltre 25 anni di distanza dai fatti di L.A. LeBron James — che di Jordan è l’erede naturale per carisma, leadership, legacy sul campo e riconoscibilità che travalica qualsiasi confine geografico — pubblica un tweet destinato a segnare il corso della storia recente degli Stati Uniti molto più di quanto egli stesso volesse e si aspettasse.

Si tratta di qualcosa di più di una risposta al piccato cinguettio di Donald Trump contro Stephen Curry e i Golden State Warriors (colpevoli di aver esitato nell’accettare l’annuale invito alla Casa Bianca riservato ai campioni Nba, per manifestare il proprio dissenso contro le politiche dello stesso Trump in tema di integrazione e diritti civili): all’improvviso l’eredità di Hodges — ma anche di Muhammad Alì, John Carlos, Tommy Smith, Bill Russell («Nella mia carriera ho giocato per i Celtics, non per la città di Boston») e dello stesso Jabbar — viene raccolta nel momento più difficile della storia recente degli Stati Uniti.

Tutto questo accade in piena continuità con la campagna “I can’t breathe” del 2014 (per protestare contro l’uccisione di Eric Garner, afroamericano 46enne padre di sei figli, strangolato da un poliziotto che non ha mollato la presa nonostante i lamenti della vittima), con la cacciata dalla Nba dell’ex proprietario dei Los Angeles Clippers Donald Sterling per le frasi razziste contro Magic Johnson pronunciate durante una telefonata con la sua compagna e con quanto accaduto durante la cerimonia degli ESPYS 2016 — quando è toccato proprio a James, ma anche a Chris Paul, Dwyane Wade e Carmelo Anthony tornare a far sentire la voce della comunità nera contro i sempre più frequenti abusi delle forze dell’ordine nei confronti delle minoranze.

Questo per dire quanto Antonio Corsa abbia perfettamente ragione quando scrive:

«Ancora una volta: non c’entrava nulla Trump, non ancora in carica, e non c’entrava direttamente la politica. Insisto su questo argomento perché è lì che la disinformazione cerca di spostare il tiro, su Trump. “Perchè si sono svegliati proprio ora?”. Non è vero, non si sono svegliati ora. “Perchè ce l’hanno con Trump che è stato democraticamente eletto?”. No, non ce l’hanno con Trump, ma con le discriminazioni razziali e la brutalità della polizia. Per le quali, semmai, Trump non ha preso posizione. “Se ne accorgono solo ora che c’è Trump?”. No».

In ogni caso “The Donald” non riesce proprio a raccogliere consensi tra gli sportivi d’alto livello del suo paese.

History in the making

Pochi giorni dopo il tweet “incriminato”, durante il tradizionale media day di inizio stagione, LeBron rincara la dose contro Trump e aggiunge:

«Se fossi il proprietario di una franchigia NFL, il primo giocatore che ingaggerei sarebbe Colin Kaepernick».

Già. Colin Kaepernick e la NFL. Dove tutto e cominciato. Dove tutto sta continuando. Dove tutto, presumibilmente, finirà. Siamo nell’agosto del 2016, una gara di pre-season come tante: durante l’esecuzione dell’inno nazionale americano, Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers, resta seduto in panchina invece dei seguire l’usanza (nel regolamento NFL, infatti, non esiste una regola specifica) che vuole atleti, arbitri e spettatori stare rigorosamente in piedi per tutta la durata dello “Star Spangled Banner”. Negli spogliatoi spiegherà come la sua sia una forma di protesta contro le violenze indiscriminate subite dagli afroamericani da parte della polizia:

«Non resterò in piedi a mostrare orgoglio per la bandiera di una Nazione che opprime la gente di colore. Questa cosa è più importante del football e sarebbe egoista girare la faccia da un’altra parte. Ci sono morti nelle strade e troppa gente che la fa franca».

A nulla servirà il sostanziale appoggio del presidente Obama, la decisione di inginocchiarsi per mostrare comunque il dovuto rispetto ai caduti in guerra in nome dell’America, le numerose donazioni ad associazioni di volontariato che si occupano di tutte le problematiche legate al razzismo o il fatto che, durante la successiva prima giornata del campionato, altri 11 giocatori si fossero già uniti alla protesta (che si sarebbe ben presto allargata, con diverse squadre che seguiranno l’esecuzione dell’inno stringendosi le braccia a formare una sorta di catena umana). Kaepernick viene accusato di essere un traditore della patria, oltre che un subdolo approfittatore, che ha sfruttato una tematica così delicata unicamente per farsi pubblicità nel momento in cui la sua carriera da giocatore professionista stava cominciando a declinare (al momento è ancora free agent visto che, al termine della stagione 2016, i 49ers hanno deciso di non rinnovargli il contratto).

La tipica accoglienza riservata a Kaepernick all’inizio della stagione 2016.

Passano i mesi e, in novembre, Donald Trump diviene il più controverso, contestato e, per certi versi, irripetuto e irripetibile presidente della storia americana. E se da una parte può contare sull’appoggio incondizionato delle grandi multinazionali di Corporate America (nonostante un’opposizione sostanzialmente di facciata) e del ceto medio americano — che si ritiene minacciato dall’immigrazione clandestina e dell’integrazione — , dall’altro si ritrova contro non solo l’ambiente accademico e scientifico, ma anche l’intero star system. Attori, registi, esponenti a vario titolo del mondo dello spettacolo e, appunto, sportivi sono compatti nello schierarsi contro le politiche della nuova amministrazione, con il web come strumento ideale per la manifestazione e la diffusione del proprio dissenso.

La situazione naufraga definitivamente lo scorso 22 settembre. Alla convention per supportare il senatore Luther Strange nella rielezione a governatore dello stato dell’Alabama, Trump si lancia in un delirante j’accuse contro i giocatori della NFL che stanno persistendo nella protesta di Kaepernick, colpevoli di mancare di rispetto alla bandiera, identificati come nemici della Nazione e, per questo, meritevoli di licenziamento. Come ha scritto Lorenzo Bottini su L’Ultimo Uomo:

«Il FIRED è ripetuto due volte, salendo di ottava in ottava come nel momento cruciale di una puntata di The Apprentice. Il pubblico risponde entusiasta intonando un ritmato coro “U-S-A, U-S-A”, autorizzando il Presidente ad insistere sul fatto che inginocchiarsi durante l’inno sia “una totale mancanza di rispetto verso le nostre tradizioni, una totale mancanza di rispetto verso tutto ciò per cui noi ci battiamo”».

Di fatto, l’intenzione di Trump è quello di spostare il focus del dibattito, facendo passare i giocatori come abili manipolatori dell’opinione pubblica, oltre che privilegiati pieni di soldi che dovrebbero unicamente tacere ed essere grati al paese che permette loro di vivere così alla grande. Il tutto viene poi ribadito in una serie incontrollata e rabbiosa di tweet.

La risposta non si fa attendere. Ed è dura, unanime, condivisa, diffusa. E mentre Spike Lee sceglie di utilizzare l’arma dell’ironia in questo suo post su Facebook («Credere che in NFL protestino contro la bandiera equivale a credere che Rosa Parks si lamentasse della qualità dei mezzi pubblici»), a Londra, prima della partita degli NFL International Games tra i Jacksonville Jaguars e i Baltimore Ravens, le squadre decidono di manifestare schierandosi sullo storico prato di Wembley con le braccia intrecciate. A rendere ancor più significativo il tutto la presenza dell’istrionico proprietario di origine pakistana dei Jaguars, Shad Kahn.

Shad Khan passerà alla storia come il primo proprietario NFL che si è unito ai suoi giocatori durante una protesta. Poche ore dopo anche Jerry Jones, owner dei Dallas Cowboys e amico personale di Trump, seguirà il suo esempio. Così come molte altri.

L’effetto è deflagrante. A distanza di poche ore, dall’altra parte dell’Atlantico sono tre le squadre che decidono di restare addirittura negli spogliatoi durante l’inno (Seattle Seahawks, Pittsburgh Steelers e Tennesse Titans. La stessa cosa accade in WNBA quando le Los Angeles Sparks, prima di gara 2 delle finali Nba contro le Minnesota Lynx della nostra Cecilia Zandalasini, boicottano il protocollo venendo accolte sonoramente tra i fischi), mentre a Phoenix i Dallas Cowboys, la franchigia simbolo della lega (oltre che quella dal maggior valore di mercato secondo Forbes ed espressione di quel Texas che, poco più di mezzo secolo fa, era uno degli stati a maggior componente segregazionista) scelgono di inginocchiarsi prima dell’inno per poi seguire lo stesso nell’ormai celebre formazione con le braccia legate, nonostante l’evidente contestazione del pubblico.

Nella gara tra Washington Redskins e Oakland Raiders si assiste al “mix”: i primi in piedi abbracciati, i secondi seduti e/o inginocchiati. Ma c’è addirittura chi va oltre come Odell Beckham Jr.:dopo aver chiuso un touchdown contro gli Eagles, esulta alla maniera di Tommy Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Messico ’68, alzando il pugno destro in segno di protesta.

E le richieste di provvedimenti da parte di Trump? Cadute, ovviamente, nel vuoto. Anzi, il commissioner Roger Goodel, seguendo l’esempio del collega della Nba Adam Silver (che in un comunicato in difesa della scelta dei Warriors, si era detto orgoglioso di come i giocatori stessero avendo un ruolo attivo nella comunità civile e nella discussione di temi di grande importanza), si è complimentato apertamente con giocatori e proprietari, ribadendo in una nota ufficiale il loro pensiero:

«Certi commenti divisivi dimostrino una grande mancanza di rispetto per la NFL, il nostro grande gioco e tutti i nostri giocatori e come rappresentino un fallimento nella comprensione dalla grande influenza positiva che le nostre squadre e giocatori hanno all’interno della nostra comunità».

United we stand… divided

Spesso si è detto, in un’analisi superficiale e fin troppo sbrigativa, che Trump sia stato eletto “da quella parte d’America che sta tra New York e Los Angeles”. Il fatto che l’intellighenzia politica, sociale e culturale abbia sottovalutato la capacità del magnate di parlare “alla pancia” dello stesso, non cancella la profonda spaccatura instillata, non si sa quanto scientemente, tra le varie componenti di un paese mai così diviso su questioni pressanti e mai del tutto risolte fino in fondo, come sottolineato da Steve Kerr e Gregg Popovich, due tra gli allenatori più influenti e riconoscibili in questa fase storica della Nba e come evidenziato dai fischi dei tifosi che, in alcuni casi, hanno accompagnato la protesta dei giocatori.

Sarebbe, per questo, altrettanto pericoloso e superficiale bollare come capricci da bambini viziati le iniziative e le prese di posizione da parte di atleti che, nonostante quello status da privilegiati che rischia di “penalizzarli” nella serietà del messaggio da veicolare, paiono aver finalmente recuperato un ruolo di collante sociale che aiuti a instillare nei giovani e giovanissimi quei valori positivi che l’America pare stia progressivamente perdendo. Non si può non concordare con Doc Rivers, coach dei Los Angeles Clippers, quando dice:

«Non credo che i giocatori vogliano protestare a prescindere, ma perché sono convinti che ci sia ingiustizia e che ci siano pregiudizi e intolleranza. Ci sono molte cose che vogliamo affinché il nostro paese sia migliore e non credo che qualcuno si debba sconvolgere per questo».

E ancor più diretto è stato Erik Spoelstra dei Miami Heat:

«È un momento un particolare, apprezzo i Golden State Warriors per la decisione presa. Apprezzo i giocatori della NFL per aver preso la giusta direzione in merito all’uguaglianza e all’integrazione e contro il razzismo, l’intolleranza, il pregiudizio. Sono queste le fondamenta su cui poggia il nostro paese».

Qui Bill Russell, centro dei leggendari Boston Celtics e giocatore più vincente della storia Nba, immortalato nell’incontro di Cleveland del 4 giugno 1967, in cui i grandi afroamericani dell’epoca andarono a testimoniare la propria vicinanza a Muhammad Alì, fresco di revoca del titolo mondiale dei pesi massimi in quanto renitente alla leva militare obbligatoria viste le sue convinzioni contrarie alla guerra in Vietnam. Cinquant’anni dopo, lo stesso Russell in ginocchio per una causa altrettanto importante.

Chi scrive è un fermo sostenitore della linea secondo la quale, nel 2017, sport e politica non debbano mai andare di pari passo o essere messi sullo stesso piano, per non correre il rischio di strumentalizzazioni pretestuose da parte di personaggi rivedibili. Ci sono però delle eccezioni che confermano la regola e questa è una di quelle. Disconoscere il valore dello sport come aggregatore sociale, del ruolo che può avere nella lotta contro i fondamentalismi e le intolleranze che sedimentano su populismo e ignoranza, significa commettere lo stesso errore di chi, sui social e non, sposa la linea del “pensassero a giocare e basta” lasciando ad altri, non sempre all’altezza, il compito di pensare anche per loro.

Siamo al cospetto di un cambiamento epocale, di forme vecchie di protesta che si ripresentano rinnovate nella moderna possibilità di diffusione (i primi focolai sono arrivati anche in MLB e MLS), comprensione, accettazione, con protagonisti di oggi e di ieri pronti a fare squadra per una causa comune e che va oltre un anello di campione del Mondo.

Che Trump non se ne accorga e reagisca come ha reagito (e reagirà) stupisce, ma fino a un certo punto.

Articolo a cura di Claudio Pellecchia

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