Dov’è finito il grande Milan? Una crisi in 8 tappe

Crampi Sportivi
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8 min readMar 19, 2014

«Con chi gioca domenica il Milan?» «Boh, non lo so». Il Milan è in crisi e il milanista medio vive la disaffezione per una squadra che non sente più sua. Dove è finita la vocazione offensiva? Dove si è perso il carisma dei vecchi leader? Dove è affondata la squadra «padrona del campo e del giuoco»?

Occorre una precisazione. Il sentimento di disaffezione è del tifoso medio, dunque della gran parte dei tifosi. Non vanno considerati quei cento fanatici che demoliscono l’unico vero talento, sbeffeggiano l’artefice pelato di tanti trionfi, esaltano come condottiero un mister da 7 sconfitte su 12 gare. D’altronde quei cento insultarono Maldini nel giorno del ritiro. Non sono rappresentativi, creano solo danni a un ambiente in crisi d’identità prima che di risultati. Il milanista medio ribolle quando Mario balbetta calcio nervoso e superficiale, ma sa che è l’unico capace di giocate superiori. Ama Kakà, e con tutto il cuore, ma sa che il suo tempo d’oro era un altro. Ce l’ha con i parametri zero, ma sa che il problema sta nei conti di Arcore. Mormora contro una rosa di mediocri, ma sa che il loro delitto è un altro: non tanto di essere scarsi, ma di essere scarsi e giocare con la sufficienza di chi si sente appagato della casacca rossonera. Il milanista medio lo perdonava a Seedorf, a Pirlo, a Rui Costa, a Zlatan, persino al Robinho dell’ultimo scudetto. Tanta era la qualità, che prima o poi una giocata solleticava il palato. Ora che il tasso di talento è precipitato, il milanista medio vorrebbe almeno l’ardore: e invece ecco l’alterigia di Mexes, lo sguardo sempre assente di Emanuelson, gli affanni pensionistici di Abbiati, Essien o Bonera. No, questo non è il Milan. Ma dove si è perso?

A maggio 2011 il Milan vince lo scudetto numero 18. Da lì inizia il dirupo. Proviamo a indicare gli 8 momenti, scelte e situazioni che hanno portato a oggi.

1. Pirlo alla Juve

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Udine, ultima giornata 2011: Pirlo portato in trionfo dai compagni, lascia il Milan

Udine, ultima giornata 2011: Pirlo portato in trionfo dai compagni saluta il Milan[/caption]

Col senno di poi, il declino inizia nel mancato rinnovo di Andrea Pirlo. Gli antichi Greci avevano la nozione di hybris: un gesto “empio” degli uomini scatena l’ira degli dei, che li puniscono con sventure in seguito. Questo è accaduto, narrerebbe Omero, al Milan. Nel 2010/2011, primo anno di Allegri, Pirlo aveva avuto difficoltà tattiche (delocalizzato sulla mezzala con Ambrosini mediano) e soprattutto fisiche (problemi muscolari e a un ginocchio). A 32 anni si mormorava fosse finito. Gli ingaggi pesanti andavano smaltiti, lui fu sacrificato. Ma gli dei del calcio se la legano al dito: non si tratta così un sacerdote del mestiere. Alla Juve Andrea rinasce, diventa pietra angolare della corazzata di Conte. Si rinforza una diretta concorrente, che a maggio (complici Romagnoli e i muscoli di Tiago Silva) sfilerà il tricolore ai rossoneri.

2. L’affare Pato-Tevez

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Primi di gennaio 2012: Ipanema, Rio de Janeiro: Galliani con Tevez e l'agente Kia Joorabchian. Se,,,

Gennaio 2012, Ipanema, Rio de Janeiro: Galliani con Tevez e l’agente Kia Joorabchian. Se…[/caption]

Ancora stagione 2011–2012. A gennaio il Milan cerca rinforzi. Galliani ha già pronto il delitto perfetto: Pato, cubo di Rubik perennemente in disordine, al PSG di Leonardo; in cambio Tevez, reietto del Manchester City. Interviene Berlusconi: non si fa, Pato è il futuro (del Milan ma anche di Barbara). Ripensare adesso a quello scambio è spietato. Nota bene: all’epoca l’operazione suscitava perplessità. Pato aveva ancora tutto il tempo per rimettersi dagli infortuni, Tevez sembrava un ex giocatore triste e grassoccio. Il tempo ha dimostrato che Galliani, probabilmente il più consapevole delle fragilità (fisiche e mentali) di Pato, ci aveva visto giusto. Il gol di Tevez a san Siro, due settimane fa, è stata l’ultima coltellata ai nostalgici “se” rossoneri.

3. Maledetta Barcellona

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Sia nel 2012 che nel 2013 il Milan saluta la Champions a Barcellona. Due sconfitte abbastanza nette, 3–1 e 4–0. Ci sono però due episodi che segnano quelle partite. Nella prima, sull’1–1 che qualifica i rossoneri, l’olandese signor Kuipers omaggia il Barcellona di un rigore onirico, ignorando il blocco di Puyol su Nesta. Messi segna, il Milan si scopre, Iniesta la chiude. Un anno dopo è cambiato quasi tutto: luglio 2012 è la Lehmann Brothers della crisi Milan, con le cessioni di Ibra e Thiago. Di nuovo Barça: il Milan s’impone 2–0 a san Siro ma è spazzato via al Nou Camp. Eppure, minuto 38, Niang è solo davanti a Valdes. Colpisce un palo lacrimoso, nell’azione seguente Messi segna. Il Milan si scioglie. E se quella palla fosse entrata? Sono due episodi, ben inteso, ma chissà come sarebbe andata se Kuipers e il palo avessero detto bene al Milan. Vivi in Champions, con ricavo conseguente di visibilità e soprattutto di milioni. Forse il declino avrebbe trovato almeno un pianerottolo.

4. La mela marcia

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Segno del Milan allo sbando è l’incomprensione tra Berlusconi e Galliani. Voce di questi giorni è un Presidente furioso per l’umiliazione subita dall’Atletico, che ha monte ingaggi ben più leggero. «Squadra costruita male», avrebbe detto. D’altronde dalla cessione di Kakà (2008), e fatta salva l’estate di Ibra, la politica è stata chiara: stop investimenti. Galliani allora ha dovuto inventarsi acquisti senza esborso, ma per convincere un giocatore svincolato serve una busta paga convincente. Oggi Berlusconi vorrebbe avere giocatori forti ma salari bassi: la botte piena e la moglie ubriaca. La rottura oggi si centra sulla figura di Balotelli. A Silvio non è mai piaciuto: il 7 gennaio 2013 lo definì «mela marcia», salvo poi acquistarlo venti giorni dopo. Nella conferenza stampa di presentazione Galliani difende vergognosamente la frase di Berlusconi, come se milioni di persone che hanno visto questo video fossero incapaci di intendere. Oggi il piano di Berlusconi è chiaro: scaricare Mario (anche con l’aiuto dei 100 fanatici di cui sopra), sperare in un buon Mondiale, venderlo bene per ripianare ulteriormente i bilanci. E il capro espiatorio diventa Galliani: un po’ come accusare i comunisti di aver impedito la rivoluzione liberale. Impensabile, no?

5. Barbara e Adriano

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Lo strappo tra il Presidente e l’AD si consuma a fine novembre 2013 con le dimissioni di Galliani prima annunciate e poi ritirate. In quei giorni il milanista medio capisce di non riconoscere più la sua squadra del cuore. Tutto si può dire del Milan, ma gli anni berlusconiani sono esempio di una gestione societaria professionale. Ambiente positivo, organizzazione accurata, è raro che i calciatori si lamentino. I panni sporchi si lavano in famiglia; raramente qualcuno “scappa” con rancore (vedi Cassano), anzi molti campioni (Kakà, Ibra e Thiago, ma anche Van Bommel, Zambrotta…) se ne vanno con rammarico. Tutto questo crolla a novembre. Galliani è inviperito: lui, forte di 28 titoli da dirigente è Milan, è delegittimato dalla bionda che di titolo per parlare di Milan ne ha solo uno, e mica guadagnato sul campo: figlia del Presidente. Al Camp Nou (ancora quello stadio) Galliani è rabbuiato mentre Barbara a fianco a lui pigia sul cellulare. No, non è più il Milan che fu.

6. Troppo Allegri

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In questo precipitare societario arrivano anche le scelte inappropriate. I 10 milioni investiti ad agosto su Matri, ad esempio, invece che su un buon centrale (Astori). E poi la scelta di non esonerare Allegri fino al rovescio di Sassuolo (12 gennaio 2014), decisamente troppo tardi. Il giudizio complessivo su mister Max non è negativo: pronti via, scudetto e Supercoppa; secondo titolo gettato, ma poi impresa terzo posto nel 2013. Quest’anno però la squadra, senz’altro condizionata anche dal caos esterno, aveva troppo spesso l’encefalogramma piatto. Il 2013 è tutto un susseguirsi di partite iniziate con cattivo approccio e riprese per i capelli (Torino, Bologna, Parma, Livorno), se non interpretate passivamente (Celtic e Ajax in coppa, Verona, Chievo, Genoa e tante altre in campionato). Ci si mettono pure gli infortuni: la serie odisseica di El Shaarawy, i guai al ginocchio di De Sciglio. Ma i “dai!” di mister Max non caricavano più nessuno: la qualificazione agli ottavi di Champions strappata con l’Ajax era una botta d’intonaco su un muro già a pezzi. Al Milan occorreva una scossa prima, diciamo pure a novembre dopo il ko interno con la Fiorentina: insistere fino a gennaio è stato controproducente.

7. Il 4–2–3–1

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Partiamo da un dato: il milanista medio è gonfio di riconoscenza per Seedorf. Ma da allenatore, per ora proprio non ci siamo. La colpa primaria è quel modulo, un 4–2–3–1 senza capo né coda. Il Milan soffre in mediana, dove i centrali sono sempre in affanno tecnico e fisico. Non ha gli esterni adatti, fatto salvo qualche spunto di Taarabt. E Mario è ancora condannato alla solitudine, lui che non è una prima punta classica (ma cosa ci vuole per capirlo?) e diventa devastante se svaria e parte da lontano. Il 4–2–3–1 costringe Honda o Kakà defilati, loro che sono tra i pochissimi ad avere la tecnica per smistare palloni buoni nel mezzo. Un modulo innaturale, che Seedorf ha imposto da subito e su cui non sembra disposto a ritrattare.

8. Giocatori non da Milan

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Ancora tra le scelte di Seedorf, incomprensibile la fiducia che ripone in giocatori inadatti. Emanuelson è il simbolo: una buona riserva (nell’anno dello scudetto di Allegri fece bene) ma senza la tecnica, la personalità, la costanza da titolare del Milan. Eppure per Seedorf è il terzino sinistro unico, perché “vuole un mancino naturale”. Tenere in panchina uno tra Abate e De Sciglio (così in entrambe le sfide all’Atletico) per far giocare Emanuelson è un crimine. E poi ci sono Essien e Robinho fisicamente impresentabili; Abbiati ormai appesantito; Bonera al lumicino. Perché non dare spazio ai giovani? Riprovare Gabriel, accantonato dopo alcune incertezze a inizio stagione; buttare nella mischia Saponara o Cristante (ultimamente per la verità infortunato). E finalmente ridare una maglia da titolare a Pazzini, che non sarà Van Basten ma almeno ha il pedigree del bomber.

Il milanista medio oggi è sconsolato. Non vede più il rosso, solo nero. Nell’attesa che un investitore straniero, attratto dal brand Milan, rinfreschi le casse. O che un lampo di Balotelli riporti un po’ di luce. L’unica consolazione è quell’orgoglio, il club più titolato al mondo… ah no, all’Al Ahly è stata riconosciuta la vittoria della Coppa Asia-Africa 1988. Il milanista medio oggi scuote la testa: è proprio crisi Milan.

Gioele Anni, da piccolo sognava di fare il calciatore per andare ai Mondiali. Ora sogna di fare il giornalista per andare ai Mondiali. Quasi milanese e tutto milanista, mancino incompiuto attualmente in trasferta a Roma: l’unico giallorosso è quello dell’Amatori Hockey di Lodi. @gioeleanni

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