Dramma olimpico

Paolo Stradaioli
Crampi Sportivi
Published in
11 min readSep 13, 2017

La più importante kermesse sportiva nella storia dell’uomo è in crisi. Un po’ apocalittico magari come intro, ma i dati corroborano una sensazione che serpeggia nelle stanze del CIO (o IOC, se preferite l’acronimo all’inglese) da diverso tempo.

I Giochi Olimpici, uno dei più importanti legati della civiltà greca, il simbolo di unione e cooperazione tra i popoli, stanno vivendo uno dei momenti più delicati della loro centenaria storia.

Difatti, la prima edizione delle Olimpiadi moderne si tenne ad Atene nel 1896 con un’affluenza di poco più di 200 atleti. Dopo 120 anni Rio de Janeiro ha accolto oltre 11.000 atleti provenienti da 207 nazioni senza contare i media, i tifosi, gli staff delle varie nazionali e l’enorme capitale che un evento simile sposta.

Dal momento che il vil denaro è sempre al centro di ragionamenti riguardanti l’organizzazione di eventi di qualsivoglia entità, può essere un buon punto di partenza cercare di capire quanto un’Olimpiade grava sulla città (e sulla nazione) ospitante e quanto invece quest’ultima ne trae beneficio. Non c’è ovviamente una legge immutabile che stabilisce se i giochi producano una variazione positiva o negativa del PIL di una nazione o se garantiscano o meno un benessere superiore alla popolazione della città ospitante; tuttavia, possiamo basarci sulle ultime edizioni per capire qual è il trend economico delle Olimpiadi.

Se partiamo dalle basi, organizzare una manifestazione simile costa… e pure parecchio. Oltre ai costi operativi inerenti all’evento (impianti, villaggio, personale) vanno considerate anche quelle spese sostenute per implementare il tessuto urbano della città (strade, trasporti, edifici, aree bonificate) e quelle inerenti al personale addetto per la sicurezza.

Anche soltanto organizzare la cerimonia d’apertura richiede un dispendio di energie, economiche e umane, fuori dal comune.

Il che vuol dire che se la città non parte da una base urbana così sviluppata, come successo a Pechino, si può arrivare a spendere una cifra vicina ai 40 miliardi di dollari nel periodo compreso tra l’assegnazione dell’evento e lo svolgimento. Una cifra considerevole, che tuttavia la Repubblica popolare cinese non ha avvertito così gravosa. Infatti lo snodo cruciale non è il costo totale di un Olimpiade, ma quanti di quei soldi vengono sborsati dalla comunità e se tale investimento genera dei dividendi economici e sociali a lungo termine.

Senza girarci troppo intorno, per chi non lo avesse ancora capito, i Giochi Olimpici non generano vantaggi finanziari per chi si prende la briga di organizzarli; dei tanti soggetti che beneficiano della manifestazione, la nazione ospitante è forse quello ad avere un ritorno economico minore in proporzione. L’organizzazione di eventi internazionali di questa portata non segue mai logiche economiche bensì finalità politiche, ma andiamo con calma.

Se torniamo a Pechino 2008, l’idea del governo cinese era quella di mostrare al mondo lo strapotere di una nazione che si accingeva a diventare il più corteggiato giocatore sulla scena internazionale. Inoltre l’immensa riserva di capitale presente nelle banche nazionali ha consentito alla Cina di uscire dal periodo olimpico praticamente intatta da un punto di vista fiscale, ma con un benessere sociale in costante aumento e una credibilità a livello internazionale ai massimi storici. Non per niente, nel 2022 i cinque cerchi torneranno a Beijing in versione invernale, preannunciando un ulteriore successo del presidente Xi Jinping. Le Olimpiadi del 2008 hanno aperto la strada a tutti quei progetti che la Cina sta portando avanti in questi anni (il più importante la nuova via della seta).

L’imponente “Nido di Uccello”.

L’altra faccia della medaglia è rappresentata da Atene e Rio, modelli di una manifestazione che a queste condizioni non è sostenibile. La recessione ha fatto il suo in entrambi i casi, ma il vero problema risiede nella mancanza di destinazione per gli impianti costruiti ex novo per i giochi e poi lasciati al loro destino e l’impossibilità di risanare il disavanzo pubblico senza ricorrere a un’aspra tassazione della comunità negli anni successivi.

È da ricercare più che altro in questo aspetto il rifiuto categorico della sindaca romana Virginia Raggi a portare avanti il progetto di Roma 2024. Non che sia sola nel gruppo dei “vorrei, ma non posso”: Amburgo, Budapest, Boston, Baku erano tutte città inizialmente interessate alle Olimpiadi 2024 e poi bruscamente defilatesi in seguito alla volontà (tacita o esplicita) dei cittadini. Come detto negli occhi c’era il flop di Atene e il mezzo flop di Londra (rientrata nelle spese dopo diversi anni di imposte gravose e con ancora alcuni impianti usati solo occasionalmente), e quindi ecco la mossa del CIO che timoroso di un Olimpiade 2028 altrettanto povera di candidati è pronta a spartire la torta tra le due città superstiti. A Parigi andrà l’edizione del 2024 e a Los Angeles quella del 2028.

Basterebbe tornare alla votazione per le Olimpiadi del 2004 per capire quanto sia cambiato il rapporto con i cinque cerchi; allora le contendenti erano 12, oggi appena due (con Parigi che aveva chiarito la sua disponibilità esclusivamente per il 2024).

La video-candidatura della capitale francese.

Parlare delle Olimpiadi come un male per la cittadinanza rimane in ogni caso una follia. Nel 2002 le olimpiadi invernali di Salt Lake City hanno creato tra i 4000 e i 7000 posti di lavoro permanenti in Utah, i flussi turistici a Torino dopo il 2006 sono cresciuti del 43%, l’East End londinese è stato totalmente riqualificato e dei benefici che i giochi hanno portato alla Cina ne abbiamo già ampiamente parlato.

Allora perché aleggia questo scetticismo intorno alla questione? A causa dell’unico fattore macro-economico che gli economisti nel mondo devono prendere come dato: la fiducia.

Un tempo i giochi erano visti come un tripudio di cibo, arte, cultura, sport, tantissimo sport. Oggi invece devono fare i conti con una disillusione generale che investe tutti gli ambiti della vita; le persone non si sentono più al sicuro e le Olimpiadi non fanno altro che aumentare questa paranoia del nemico (impersonificato a più riprese da banche, politici, ISIS, immigrati) che può essere debellato soltanto rimanendo nel proprio orticello.

I giochi di Monaco ’72 sono stati la prova che ormai la realtà ovattata dello sport non è più così estranea agli orrori del mondo. Poi con la crisi del 2008 è subentrata la paura di organizzare una manifestazione costosissima che a Londra ha palesato il suo lato più venale. Quando il comitato organizzatore ha avanzato la candidatura della capitale inglese aveva stimato un costo totale inferiore ai 3 miliardi. Dopo due anni, la cifra è già triplicata e secondo inchieste svolte sul territorio la spesa totale non può essere stata inferiore ai 14 miliardi di sterline. Secondo un’inchiesta di Sky News, si arriverebbe addirittura a 24 milioni di sterline considerando anche le spese per la sicurezza e per l’implementazione dei trasporti.

C’è anche da dire che Londra ha beneficiato di impianti di altissimo livello come questo gioiellino che è l’Acquatic Centre.

Non c’è da stupirsi quindi che anche a Rio i costi attesi non siano stati rispettati (anche se in maniera meno eccessiva rispetto all’edizione precedente) e inoltre il Brasile è stato uno dei paesi più martoriati dalla recessione e dall’ingente corruzione successiva agli appalti per mondiali di calcio e Olimpiadi. Il risultato oggi è un paese che vive di forti contraddizioni, molto lontano dall’impennata economica dei primi anni 2000, con impianti sportivi e abitativi lasciati a sé stessi.

Ad alimentare ulteriormente la sfiducia sul futuro delle Olimpiadi c’è la situazione di Tokyo 2020: già a oggi si stima una spesa vicina ai 26 miliardi di dollari, quattro volte tanto rispetto alle aspettative iniziali. È quindi scontato che in un clima simile la rosa delle pretendenti alle future manifestazioni si assottigli sempre di più, costringendo il CIO a trovare accordi vantaggiosi con le poche superstiti o a scegliere per la “meno peggio” (per il 2022 erano rimaste soltanto due candidature: Almaty in Kazakistan e Pechino. Alla fine l’ha spuntata la capitale cinese). Sorge spontanea un’altra domanda alla quale è molto difficile dare una risposta. È possibile concepire un Olimpiade sostenibile nel medio-lungo periodo?

Il pensiero di molti.

A queste condizioni, per la maggior parte dei paesi la risposta è no. Se escludiamo infatti gli Stati Uniti — scopertisi tra l’altro negli ultimi anni esportatori di greggio — e le economie emergenti come Cina, Corea del Sud e paesi del Golfo, per il resto del mondo è quasi sempre un gioco a perdere. I motivi sono abbastanza semplici: gli investimenti degli sponsor, gli introiti delle televisioni e il botteghino sono troppo marginali per coprire l’ingente costo organizzativo della macchina a cinque cerchi. Basti pensare a un’azienda come McDonald’s, partner storico dei giochi, che negli ultimi giorni ha chiuso i rapporti con il CIO.

Ancora più preoccupante la situazione relativa alla distribuzione dei diritti tv, che a Londra hanno fruttato ben 2,5 miliardi di dollari dei quali appena il 30% sono finiti nelle casse cittadine con la restante parte intascata dal comitato olimpico. Un bel salto all’indietro per chi organizza, dal momento che a Pechino la spartizione era avvenuta al 50%. Per quanto riguarda il botteghino, è altrettanto difficile creare engagement tra i tanti appassionati sparsi per il globo. Se prendiamo come esempio l’ultima edizione di Rio, i biglietti invenduti sono stati circa il 20% del totale, troppo per la prima kermesse sportiva al mondo. C’è da chiedersi a questo punto quanto il panorama attuale vada preso come mera conseguenza dei tempi e quanto invece si possa fare per invertire la rotta.

Uno stadio come il Maracana non può versare in certe condizioni.

Le entrate dal broadcasting devono assolutamente essere ridiscusse; se la città mette sul piatto più della metà dei soldi per l’evento, è inaudito che ottenga meno di un terzo da quella che è a oggi la fonte principale di guadagni dello sport agonistico ad alto livello. Il CIO dovrebbe preoccuparsi soprattutto di trovare sponsorizzazioni redditizie nel lungo periodo e per questo motivo porgere l’orecchio al mercato asiatico.

L’esempio della FIFA è abbastanza eloquente: vistasi costretta alla rivoluzione dopo lo scandalo delle mazzette che ha coinvolto gli alti funzionari del massimo organo calcistico, la massima organizzazione calcistica ha trovato in Wanda Group (conglomerato cinese che attenta ai $40 miliardi di fatturato) il main sponsor ideale per ripartire. Ci sono numerose aziende cinesi (e con il tempo potrebbero arrivare altri competitor asiatici) desiderose di espandere i loro interessi oltre i confini della Grande Muraglia e se per loro è quasi esclusivamente una tecnica di soft power, per le organizzazioni occidentali è un’occasione importante al fine di iniettare liquidità nelle proprie casse.

Il partner da sostituire non è esattamente marginale.

Discorso di più ampio respiro meriterebbe l’attrattiva attuale delle Olimpiadi, un tempo simposio di eccellenza umana in ogni campo, ma oggi seguite soltanto settorialmente dagli appassionati di quello sport o di quell’altro. A tenere banco è soprattutto la “televisività” di un singolo sport o ancora meglio la sua capacità di modellarsi a misura di smartphone. Per alcuni sport è più semplice snellirsi all’occorrenza come il rugby nella sua variante a 7 o il tennis (che vuole inserire in pianta stabile il tie break per decidere il quinto set), mentre per altri diventa più difficile venire incontro alle esigenze social senza snaturarsi (basti pensare al golf, al nuoto di fondo o al ciclismo).

Insomma, dietro a una candidatura come paese ospitante dei Giochi Olimpici, ci sono tantissimi fattori che in qualche modo esulano dalla concezione sportiva della manifestazione. Quando all’inizio accennavamo alle finalità politiche come principale motore all’organizzazione di un simile evento ci riferivamo esattamente a questo. Basti guardare le venue delle ultime edizioni per capire quanto un teatro simile valga eccome un buco nel bilancio nell’immediato futuro. Paesi come Cina, Russia, Brasile, Corea del Sud sentivano il bisogno di aprire al panorama mondiale la loro visione delle cose con il rischio ovviamente di fornire una visione non così fiorente. Le prossime tre edizioni dei giochi saranno tutte in Asia (PyeongChang, Tokyo, Pechino) e probabilmente dimostreranno quanto a Est degli Urali ci sia voglia di investire dopo decenni di immobilismo economico e politico.

A PyeongChang la buttano sull’”I have a dream”.

Inoltre si nasconde un grande rischio dietro questo trittico di Asian Games in salsa globale. Nell’opinione pubblica si fa sempre più strada l’idea di una sede permanente per i Giochi Olimpici, o quantomeno una sede che si impegni ad ospitare più di un’edizione in fila. Un’idea che negli ultimi anni è stata rilanciata sia da giornali economici come Forbes, sia da quotidiani come il Chicago Tribune, sia da ex atleti come Derek Boosey.

A parere di chi scrive, sarebbe una sconfitta epocale per lo spirito olimpico, il quale dovrebbe incoraggiare la diversità e coinvolgere il più possibile i cittadini di tutto il mondo nel più grande spettacolo sportivo mai visto dall’uomo.

È palese che alle condizioni attuali una singola città non possa sobbarcarsi tutti gli oneri finanziari che occorrono per mettere in piedi lo show e allo stesso tempo non accusare il colpo negli anni a seguire: la condizione degli impianti olimpici in giro per il globo ne è la prova più lampante, però c’è la possibilità di percorrere altre soluzioni. Ad esempio la candidatura congiunta. I Mondiali di calcio hanno già recepito il messaggio e infatti per il 2026 c’è già la candidatura a tre da parte di Stati Uniti, Canada e Messico e anche per il 2030 si sta facendo strada la possibilità di veder correre insieme Argentina e Uruguay per celebrare il centenario della coppa contro una corazzata asiatica riunita sotto il nome di ASEAN. In una candidatura congiunta ipotetica tra Vienna e Budapest (per citare due città credibili abbastanza vicine tra loro), il villaggio olimpico sarebbe situato in una sola città ovviamente e le competizioni sarebbero divise tra le due sedi valutando quali impianti sono più idonei e dovendo ricorrere soltanto a spese di ammodernamento e ristrutturazione senza essere costretti a creare cattedrali nel deserto. Spingendosi ancora più in là sarebbe interessante vedere un conglomerato di stati lavorare per l’organizzazione dei Giochi (come i Paesi Bassi, la Scandinavia, gli Stati dell’America centrale, quelli dell’Africa occidentale).

“L’importante è partecipare” diceva il tipo che per primo ha inquadrato le Olimpiadi in un contesto di modernità e attualmente la partecipazione è proprio ciò che latita nello spirito dei giochi. L’augurio per il futuro è di non trovarsi più in una congiuntura che costringa il CIO ad accordarsi bilateralmente con l’unica città disposta a sobbarcarsi l’onere di una kermesse tale. Una situazione del genere è foriera di ulteriore sfiducia e di corruzione, dal momento che essere l’unica contender spinge la diretta interessata a fare i propri interessi e non quelli della manifestazione poiché nessuno può mettere sul piatto un’offerta diversa (il CIO dovrà stanziare $1,8 miliardi alla città di Los Angeles come penale per non aver permesso alla città di competere per il 2024. In teoria tali fondi dovrebbero andare allo sviluppo degli sport giovanili, ma nella pratica chissà…).

La gente ha bisogno delle Olimpiadi esattamente come ha bisogno degli EXPO, dei musei, dei cinema, dei teatri: essere partecipi di qualcosa per il quale vale la pena fermarsi e contemplare ciò che la mente umana può fare.

Ne varrà la pena anche se dal 2020 non godremmo più di queste scene.

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