E ora che si fa, Pep?

Crampi Sportivi
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9 min readJan 3, 2017

Partiamo da un dato oggettivo ed immediato: dal 2008 nessun altro allenatore ha vinto più di Guardiola, che con 20 titoli in 2555 giorni (al netto quindi del suo anno sabbatico prima di approdare in Baviera nel 2013) ha stabilito un record irripetibile, in considerazione dell’elevato tasso di competitività del calcio moderno.

Non solo, Guardiola è stato anche l’artefice mediato di due tra i più grandi recenti fenomeni internazionali: la metamorfosi della nazionale spagnola campione di tutto — dopo anni di stenti — proprio dal 2008 al 2012 (guarda un po’), e la rinascita di quella tedesca, che nel 2014 in Brasile conquista finalmente il suo quarto, attesissimo, titolo mondiale.

Successi la cui origine va ricercata nelle idee di gioco del tecnico catalano, calate prima nella Liga al servizio del Barcellona, poi rivisitate in Bundes per l’armata di Franz Beckenbauer. Da lì, si può azzardare che siano state naturalmente assorbite anche dalle rispettive selezioni nazionali.

La filosofia del gioco di posizione, quella che porta alla ricerca della superiorità numerica in zona palla attraverso gli uno contro uno o la ricerca dell’uomo libero, è la pietra angolare di tutta l’impalcatura di gioco guardiolana: detto altrimenti, le sue squadre creano superiorità numerica attraverso il possesso palla in fase di transizione positiva al fine di “destrutturare” l’organizzazione difensiva avversaria ed attaccare lì dove si creano gli spazi opportuni. “L’obiettivo è muovere l’avversario, non la palla” ripete in maniera ossessivo-compulsivo ai propri calciatori: a seconda di dove (e soprattutto come) l’avversario si muove, allora così dovranno reagire tutti gli interpreti della manovra.

Proprio come in un valzer.

Dimenticate la staticità del modulo, nient’altro che una serie di numeri asfittici che crocifiggono idee ed estro dei calciatori: la vera chiave di lettura è l’interpretazione del ruolo da parte del singolo, a cui è affidata una vera e propria lettura materiale ed orientata dell’azione, che gli suggerirà di volta in volta se cercare l’attacco preventivo o limitarsi all’appoggio, accentuare o sgonfiare il pressing, dove e come posizionarsi in marcatura sulle linee d’anticipo… il tutto ovviamente finalizzato a un unico obiettivo: fare gol.

Obiettivo che Guardiola ha realizzato in maniera ammirevole sia a Barcellona che a Monaco di Baviera, dove non è mai sceso sotto quota 100 gol stagionali (nel 2010/11 furono addirittura 190 le reti totali segnate in blaugrana).

Tuttavia, a colpire dell’operato di un allenatore che definire visionario forse è poco, è la sua capacità di sperimentare innovando e riplasmando la (pur sempre) ricchissima materia a sua disposizione: su tutti basta pensare al Messi falso nueve nel 2010 — probabilmente il miglior Messi di sempre — o ancora al Lahm riscopertosi jolly fluttuante tra l’out di destra e il centrocampo, dopo una vita intera da terzino.

Erasmus tedesco

Se però a Barcellona Guardiola si innestava su un filone calcistico nato con Crujiff ma da lui portato comunque alla sua massima espressione, è al Bayern che in pochi mesi Herr Pep chiude una rivoluzione senza precedenti, portando i bavaresi dall’essere una squadra prettamente fisica, poco armoniosa, discretamente organizzata, quasi completamente rimessa alle invenzioni delle due frecce Robben e Ribery a supporto di Muller, a un esperimento desueto, che si proponeva di unire la concretezza teutonica al visionario ingegno catalano.

Il Bayern è così diventata al suo arrivo una squadra quasi perfetta, in grado di occupare geometricamente lo spazio come poche in Europa abbinando lo strapotere fisico alla qualità del possesso palla, devastante in fase offensiva ed ermetica in quella difensiva grazie alla sua capacità di fare densità in mezzo al campo, al suo baricentro altissimo e alla sua vocazione ultraoffensiva (con soli 17 gol subiti nel campionato 2015/2016 a fronte dei 34 incassati dal Borussia Dortmund secondo classificato), capace di sfruttare il campo in ampiezza ma di giocare abilmente anche nello stretto, camaleontica e fluida nel cambiar pelle ancor più di quanto non lo fosse il Barcellona (che “soffriva” dell’inamovibilità funzionale di alcuni interpreti come Busquets, Xavi, Villa e, solo per un anno, Ibrahimovic).

Unico difetto: quella che apparentemente potremmo definire presunzione del tecnico catalano in alcuni snodi fondamentali della stagione (su tutti, la semifinale Bayern Monaco-Real Madrid 0–4 del 2014). L’incapacità di rinunciare alla propria filosofia a vantaggio di un più sornione adattamento all’avversario che è costato ai bavaresi almeno due finali di Champions in tre anni, a dispetto dei piani di conquista elaborati al suo arrivo in Germania.

Poco male, però, perché mentre il catalano già guardava altrove ammiccando a turno a una delle due facoltose squadre di Manchester, Loew faceva tesoro delle sue idee applicandole alla sua nazionale, che, più o meno apertamente, va a prendersi il titolo mondiale in casa del Brasile nel 2014 declinando scientemente tutte le soluzioni tattiche bavaresi: baricentro alto, controllo del gioco, salida Lavolpiana con Schweinsteiger posizionato tra i centrali, Lahm e Howedes larghi e alti a ricevere palla sul lato debole, l’utilizzo di Gotze come jolly d’attacco che consente ad Ozil e Muller di aumentare esponenzialmente la loro pericolosità offensiva.

Il tutto viene poi favorito dal moltiplicatore del fattore “forza fisica” dei tedeschi. La Germania di Loew non si è rivelata però devastante come ha saputo essere il Bayern, ma trattandosi di un torneo di fine stagione — a gara secca e per giunta in condizioni climatiche spesso proibitive — la minor sfrontatezza messa in campo ha finito sicuramente per ripagare sulla breve distanza.

La Premier è unica (a modo suo)

Da qui la domanda che ci ha afflitto (per così dire) nei tempi recenti: giunto alla corte degli sceicchi di Manchester, Guardiola sarà allo stesso modo capace di incidere sul calcio inglese così come ha fatto per quello spagnolo e tedesco? E, di rimando, la cultura calcistica inglese è pronta ad accogliere il messaggio guardioliano anche in nazionale oppure lo confinerà nel recinto — nemmeno poi tanto stretto — della Premier League?

Una possibile risposta al momento appare difficile quanto il tentativo di ipotizzare possibili evoluzioni dall’una o dall’altra parte. Unica certezza, la quasi inesistenza di punti di contatto tra il calcio totale di Guardiola e del football made in England. Per arrivare a questa conclusione basta osservare il modo di stare in campo del Leicester campione di Inghilterra nella passata stagione e le due roboanti sconfitte incassate quest’anno dal Manchester City contro Tottenham e Chelsea.

Partendo dall’analisi della formazione allenata da Ranieri, è facile accorgersi di come tra reparti e singoli calciatori ci sia poca collaborazione: la squadra è portata spesso ad allungarsi, e fioccano i duelli individuali in mezzo al campo risolti il più delle volte o facendo ricorso alla fisicità (in fase di non possesso) o con giocate forzate in cui è il singolo a dover inventarsi qualcosa (in fase di possesso).

Come uno specchio di quel Leicester, la nazionale inglese ha giocato allo stesso modo — ma ancora con minor qualità e organizzazione — durante gli europei dello scorso giugno in Francia, culminati con l’uscita agli ottavi di finale contro la sorpresa Islanda e le dimissioni di un fallimentare Roy Hodgson . Durante l’intera manifestazione si è potuta difatti “ammirare” una nazionale impacciata nella costruzione (e lo testimoniano i soli 4 gol in altrettante partite) e con gravissime carenze strutturali che hanno mortificato le individualità dei vari Rooney, Sterling, Lallana.

Svuotata, senz’anima e senza identità, quell’Inghilterra ha persino rinunciato all’intensità che contraddistingue da sempre il calcio inglese in favore di un calcio ragionato che non sapeva mettere in atto perché non ne aveva le basi (o, boriosamente, presumeva di averle). Guardiola pare, da questo punto di vista, l’uomo ideale per restituire una nuova identità a questa nazionale palesemente allo sbando ma che tuttavia al momento non sembra disporre di calciatori idonei a poter emulare il calcio dello spagnolo, il quale dal canto suo può fornire alla selezione britannica solo Sterling e Stones, non propriamente giocatori chiave nel Manchester City e per questo non sufficienti per far partire una rifondazione orientata al Guardiola-pensiero.

Squisitamente culturale è invece il discorso relativo ai due tonfi contro Tottenham e Chelsea, maturati in condizioni molto diverse e che lo stesso Guardiola ha ben evidenziato dichiarando alla stampa che la sua squadra ha sì patito la maggior aggressività e organizzazione tattica degli Spurs, ma nulla le si deve rimproverare dopo il pesante 1–3 in casa contro i Blues di Conte; anzi ne ha elogiato il bel gioco espresso, cercando di compattare tutto l’ambiente con l’obiettivo di proseguire sulla strada tracciata in estate.

Contro gli uomini di Pochettino sono emersi tutti i limiti di una squadra ancora incapace di gestire il pallone partendo dalle retrovie, con automatismi ancora da perfezionare, e che si è fatta beffare proprio sul piano agonistico (che dovrebbe mirare a contenere) e del controllo del gioco (che dovrebbe invece comandare); mentre contro il Chelsea i citizens, dopo aver prodotto tantissimo, hanno accusato il cinismo nel contropiede tipico delle squadre allenate dall’ex ct azzurro.

Eccolo, quindi, il break point culturale tra Guardiola e il calcio inglese: una mole di gioco imponente che si scontra con espedienti tattici da calcio totale 2.0, dallo stile spigoloso, poco arzigogolato — almeno in apparenza — ma più efficace. Quest’anno, infatti, sono già arrivate quattro sconfitte contro formazioni dalla filosofia opposta a quella di Pep, bastonato appunto dal Tottenham, dal Chelsea, dal Liverpool, ma anche da un Leicester che annasperà anche nelle acque agitate della medio-bassa classifica ma è comunque capace di rifilare la bellezza di quattro gol a Bravo & co.

Risultati che in un campionato livellato verso l’alto come la Premier, dove almeno 6 squadre di alto lignaggio ambiscono al titolo, nessuno può permettersi. Nemmeno Guardiola.

Di paradossi e monadi

I citizens hanno tremendamente sofferto la maggior intensità messa in campo dagli avversari ed evidenziato una marcata difficoltà in fase di costruzione della manovra, complice anche una quasi perfetta organizzazione in fase di non possesso delle squadre affrontate, Tuttavia Guardiola non ha pensato di rinunciare alle sue idee col rischio snaturare la propria squadra — paradossalmente — più di quanto non le sarebbe costato giocare di rimessa rispetto all’avversario.

Accade così che la maggiore qualità di Silva e De Bruyne li porti entrambi ad abbassarsi sulla propria trequarti alla ricerca di palloni giocabili da ricondurre nella metà campo avversaria, con Sterling molto largo a destra e Aguero unico terminale offensivo. Risultato? Il City non riesce mai ad rendersi pericoloso, e finisce spesso e volentieri per subire l’arma letale propria delle squadre connotate da un pressing scientificamente organizzato: le ripartenze, con annessi inserimenti e verticalizzazioni.

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Pressing di Pochettino > cocciutaggine a tutto campo di Guardiola[/caption]

Una rigidità quasi antitetica per un allenatore che ontologicamente si propone di “contenere” l’idea sostanziale di fondo del football inglese, per arrivare poi a concepire e sciorinare sul rettangolo di gioco altre idee, quelle che nell’ultimo decennio hanno marchiato a fuoco il calcio moderno. Ancora una volta Pep si sta divertendo quindi a fare la monade, entità a se stante, autosufficiente, incomunicante e che di conseguenza rappresenta a se stessa l’universo tutto; stavolta con l’unica differenza che il monolite che si appresta a portare allo sfinimento per poi — ritenere — di battere non è il Mourinho di turno (quello sì battuto sul campo, talvolta persino umiliato), bensì un’intera realtà calcistica, con i suoi dogmi, peculiarità, storicità, tradizioni… una sfida titanica, disumana, che Guardiola sembra affrontare illudendosi di conoscere un nemico di cui in realtà ignora tante, forse troppe cose. Fa bene quindi a dire che “ora bisogna concentrarsi e lavorare” o che il suo City non può avere grandi obiettivi, a patto però che lo ammetta in primis a se stesso e si renda conto che nel calcio tutto il lavoro profuso è in funzione esclusivamente dell’avversario, troppe volte ignorato a furia di concentrarsi a sviluppare i sui suoi principi tattici.

Tanto più che la scalata alla Premier presenta altre sfide, come la tendenza del Liverpool di Jurgen Klopp ad avere meno il pallone tra i piedi, a giocare più in verticale e preferire l’affondo di sciabola piuttosto al fioretto; o ancora Antonio Conte al Chelsea, capace di cambiare volto alla stagione semplicemente grazie al passaggio al 3–4–3, più aderente alle peculiarità dei blues. Se Liverpool e Chelsea sono in testa alla classifica lo devono quindi alla duttilità dei rispettivi tecnici, capaci di trasformare le apparenti debolezze delle proprie squadre in granitici punti di forza calandosi a pieno nelle rispettive realtà calcistiche ed ambientali.

Ci attendiamo quindi che Guardiola faccia lo stesso, come lasciato intendere nel post match polemico della vittoria contro il Burnley, in cui riconoscendo una certa rigidità del calcio inglese (che si rispecchia poi nelle decisioni arbitrali contestate) ha confessato “cambieremo il nostro stile di gioco. Ho sempre cercato di far giocare a calcio le mie squadre, ma a questo punto in qualche modo dovremmo adattarci alle regole. Stasera abbiamo battuto gli avversari e le circostanze avverse. In 10 contro 11 non era facile, per questo siamo molto contenti del risultato finale.”

Di necessità virtù, insomma. Da tecnico intelligente quale è non potrà che essere altrimenti. Se invece non dovesse (o non volesse) riuscirci, allora dovremmo rassegnarci al fatto che quanto ha dichiarato recentemente è vero, e cioè la parte finale della sua carriera da allenatore è già iniziata, e per sua stessa decisione. In quel caso sarebbe un peccato, perché il pallone che Pep ha tanto amato, e a cui ha tanto dato, nonostante l’empasse del momento ha tutta l’aria di amarlo ancora, a sua volta.

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