#EravamoQuelli
La magia di Twitter. I tempi sono cambiati e lo si nota anche da come sia diventato più facile definire una situazione, un gruppo, una persona. Ormai basta un hashtag (o “cancelletto”, come diremmo in italiano).
«#primaditwitter io usava cancelletto solo per non fare uscire cane da mio giardino» secondo l’account-parodia di Vuja Boskov. Il segno dei tempi in questione è diventato tutt’uno con la nazionale italiana di pallacanestro, con il suo hashtag #SiamoQuesti, divampato nell’ultimo Europeo.
Siamo questi, perché non abbiamo di più. Siamo questi, perché comunque a sorpresa battiamo Spagna e Germania, qualificandoci bene. Siamo questi, perché ci tocca passare dal pre-olimpico per andare a Rio. Siamo questi, perché capita quello che capita, e comunque si prova ad affrontarlo con un’idea solida di gruppo, concreta, di squadra.
L’ultima volta che il team Italia è andato a podio in una competizione internazionale di una certa rilevanza era il 2004. Ed è stata un’estate anormale, ma bella da morire. Tanto da stupire gli stessi uomini che quell’impresa la portarono a termine.
Da Parigi a Stoccolma
Nemmeno Charlie Recalcati si aspettava di arrivare così lontano: diventato coach della nazionale dal 2001 dopo l’addio di Bogdan Tanjević, raccoglie una situazione che sembra lontana anni luce dal titolo di due anni prima. L’EuroBasket 2003 in Svezia rappresenta l’unica occasione per andare ad Atene, ma non è una passeggiata di salute.
L’ex allenatore di Varese e Fortitudo Bologna non può contare più sui vari Myers, Fucka e Meneghin (tre che erano stati inseriti nel quintetto del torneo all’Europeo vinto in Francia), dando così più spazio a chi c’era nel 1999, ma aveva un ruolo diverso (Galanda, Basile). Nella rassegna svedese l’Italia per poco non esce nella fase a gruppi, dove rimedia anche una discreta scoppola dalla Francia di Tony Parker e Boris Diaw.
In un sofferto ripescaggio contro la Germania finisce 86–84 per la truppa di Recalcati grazie a una schiacciata di Marconato. Altra fatica contro la Grecia ai quarti (62–59: punteggio che dir basso è un complimento) e poi per poco l’Italia non tira fuori un miracolo anche contro la Spagna in semifinale, dove gli iberici vincono 81–79.
C’è di fronte di nuovo la Francia nella gara per il terzo posto, stavolta valida anche per un pass per Atene: il 69–67 finale (con un 20–16 nell’ultimo quarto) non descrive il parto che è stato quell’Europeo.
L’Italia non stupisce in nessuna graduatoria singola o di squadra: la stella del torneo è Šarūnas Jasikevičius, che ha guidato la Lituania alla vittoria dell’Europeo con un immacolato 6–0. Poi Kirilenko, Gasol, Parker… ma di azzurro c’è solo la qualificazione all’Olimpiade dell’anno successivo.
Il gruppo che arriva ad Atene è quasi lo stesso. Recalcati cambia poco: fuori De Pol, Lamma e Cittadini, dentro Rombaldoni, Garri e soprattutto quel pazzo di Giammarco Pozzecco. Così matto che persino l’NBA ha avuto paura a inserirlo nel draft a causa del suo temperamento folle, nonostante qualche apparizione di rilievo nella Summer League del 2001 con i Toronto Raptors.
Non c’è Abbio, che non ha recuperato in tempo da un lieve infortunio. Non c’è nemmeno Mancinelli, escluso all’ultimo taglio. E con questi 12 ragazzi — che perdono contro l’Australia nell’ultima amichevole pre-Olimpiade — si va in Grecia.
Intermezzo di prestigio
Nella preparazione al torneo olimpico, qualche incontro andrà pur disputato. Noi optiamo per diverse amichevoli, tra cui alcune soluzioni di prestigio: in Germania prima perdiamo contro i padroni di casa di un Nowitzki francamente mostruoso, poi la sera successiva tocca agli Stati Uniti.
La squadra è allenata da Larry Brown. In campo ci sono coloro che hanno animato uno dei draft più iconici nella storia della NBA — quello del 2003, ergo ci sono LeBron, Wade, Anthony — più Duncan, Iverson, Marbury, Boozer. Certo, il clima non è dei migliori tra Brown e Iverson, ma il gap tecnico è sensibile.
Che possibilità potremmo mai avere contro di loro? Eppure di fronte ai 15mila spettatori della Koln Arena succede quel che non t’aspetti. 23–14 alla fine del primo quarto, +6 all’intervallo: ci sembra tutto un grande scherzo. Gli Stati Uniti non giocano come ci si aspetta, ma neanche le più rosee aspettative prevedevano uno scenario del genere.
Ricordo di esser rimasto abbagliato quella sera. Ma siamo sicuri che questa è la squadra che un anno prima perdeva contro la Slovenia? Stasera sta battendo il Dream Team (o l’idea che ne abbiamo, perché certi nomignoli andrebbero lasciati alla storia) e io non so se credere alla mia razionalità o all’entusiasmo che mi circola in corpo.
Quel +8 alla fine del terzo quarto deborda fino al +21 (81–60), ridimensionato a un “modico” +17 a fine gara. Galanda ha collezionato gli stessi punti di Iverson e Duncan MESSI INSIEME. Basile ha trovato la maniera di rilasciare il chakra che lo accompagnerà nel mese successivo, con LeBron James che lo insegue a vuoto.
Larry Brown dirà di aver imparato la lezione («In Europa ci sono giocatori che non dobbiamo sottovalutare, se vogliamo vincere le Olimpiadi»), mentre i suoi giocatori dimostreranno ben altro. Recalcati cerca di nascondere la gioia:
«Questa partita è un buon segno in fase olimpica».
Anche se i primi giorni ad Atene sembreranno il repeat di un incubo già visto in precedenza.
L’incubo migliore
Il girone non è dei migliori: l’Argentina, la Spagna vice-campione d’Europa, la Cina di Yao Ming, la Serbia e la meteora Nuova Zelanda. I primi critici si inalberano subito dopo la vittoria di misura sui Tall Blacks: di fronte agli occhi increduli di Recalcati, l’Italia butta un +17 di vantaggio e finisce 71–69.
Con queste premesse, si mette male. Lo si vede nella sconfitta contro Serbia e Montenegro (74–72), seguito da un’altra magra figura contro la Spagna (71–63). Nonostante una vittoria oceanica contro la Cina (89–52!), ci si gioca tutto contro l’Argentina. La partita è una bolgia: il finale — un 76–75 deciso da due liberi di Bulleri e dall’errore finale di Delfino — non fa che ricordare i patimenti dell’Europeo di un anno prima.
Il che, secondo qualcuno, è proprio quello che serve a questa nazionale. La sofferenza rende unito il gruppo, che si prepara a ben altro rendimento nella successiva settimana.
L’Italia che si presenta ai quarti è un’altra squadra. Non è parente di quella vista nel girone, soprattutto nelle prime tre partite. Di fronte ai quarti di finale c’è Porto Rico, che ha umiliato gli Stati Uniti nel gruppo B (vittoria di +19!): ha un paio di giocatori NBA (Arroyo e Santiago), nonché l’iconico capitano e centro José Ortiz. Eppure il finale 83–70 è il giusto risultato. E ora?
Ora ci tocca la Lituania campione d’Europa, che ha vinto tutte le partite giocate sin qui. Sembra una montagna insormontabile. Superare questo scoglio e raggiungere la finale olimpica a 24 anni da Mosca 1980 sarebbe fantastico, anche perché all’epoca gli Stati Uniti non c’erano. Stavolta sì.
All’inizio, tutto va come copione. La Lituania sembra volar via, finché Recalcati non decide di coinvolgere un po’ di più Pozzecco. Riacciuffiamo la Lituania e all’intervallo siamo in vantaggio. Anzi, alla fine del terzo quarto siamo addirittura a +10, se non fosse che il destino ha deciso di porci di nuovo davanti a una serata di sofferenze emotive.
Ci vuole nuovamente il chakra di Basile e l’esperienza di Galanda — nonché una scarica di triple letali — per lo strappo decisivo negli ultimi due minuti e mezzo.
Siamo troppo ebbri per capire che quest’Olimpiade è una follia assoluta. Eppure l’altra semifinale l’ha già confermato: gli Stati Uniti non hanno compreso la lezione di cui parlava Brown in quella serata di Colonia. Così il mondo rimane attonito di fronte al presunto Dream Team sconfitto dall’Argentina. Un 89–81 senza scampo dove LeBron gioca appena tre minuti e Carmelo Anthony non entra nemmeno sul parquet.
Atto finale
Ci rivediamo, quindi. Di nuovo Italia-Argentina. Di nuovo una gara che avevamo già giocato per decidere il traguardo più importante, proprio come contro la Francia l’anno precedente. In cuor nostro, speriamo che il risultato ci sorrida di nuovo.
Quella sera capisco già quello che avevo intuito qualche mese prima durante una serata portoghese con i greci, ma nel calcio: non conta giocare sui palcoscenici più importanti, bensì essere in forma e uniti al momento giusto.
Se il concetto è valso per l’Italia, altrettanto si può dire per gli argentini. Hanno solo Ginobili già presente in NBA, il coach Rubén Magnano non ha fatto carriera in Europa e in generale si potrebbe dire che le successive squadre argentine hanno avuto più talento. Eppure l’oro lo portano a casa in scioltezza.
Nel pitturato ci ammazzano, così come in contropiede. Forse siamo troppo stanchi dopo l’estenuante semifinale contro i lituani: torniamo in parità a metà del terzo quarto, ma il finale dice 84–69 in favore degli argentini, che a Sydney 2000 nemmeno c’erano.
Non era serata per l’Italia: Basile segna 9 punti, Galanda 7. Facciamo girare poco la palla (appena quattro assist) e il 52% dal campo degli argentini è una sentenza. Per una squadra che ha avuto nel tiro da tre la chiave del successo (40.8%, i migliori dopo la Lituania), non è la serata giusta.
Quella notte rimane un pezzo di storia italiana alle Olimpiadi. Un argento sorprendente, ma meritato. Una sconfitta che fa male, ma che ha tenuto sette milioni di italiani davanti alla tivù (46,9% di share!), il che testimonia la voglia di basket potenziale che c’era, che forse ci sarebbe ancora oggi, alle condizioni giuste.
Ripensando a quella serata, viene da dire che eravamo belli e felici, eravamo quelli sul podio di Atene, davanti persino agli Stati Uniti e sconfitti solo da una squadra che più quadrata non si poteva. A 12 anni di distanza, nonostante tre giocatori NBA e una stella dell’EuroLega, ci è toccato passare per il pre-olimpico. E accettare che sia andata come è andata.
Articolo a cura di Gabriele Anello