Erede di Hokuto

Crampi Sportivi
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5 min readOct 18, 2016

Di fronte ad una difficoltà, la mente umana reagisce per schemi fissi. L’ostacolo viene infatti alternativamente aggredito, ignorato, contrastato in maniera regressiva (autoinganno) oppure costruttiva. Solo in quest’ultima ipotesi si potrebbe dire che l’individuo stia reagendo proattivamente, mobilitando le proprie risorse per superare l’impedimento in modo equilibrato e coerente rispetto ai suoi legami con la realtà.

Tuttavia, superare e risolvere una situazione complicata significa anche decidere, scientemente, di arricchire il nostro bagaglio culturale e spirituale, di modo tale che lo stesso ostacolo venga percepito piuttosto come un’enorme opportunità di cambiamento. Così, smarrita la sua carica negativa, l’ostacolo stesso non è più tale; quindi non esiste.

Disorientati? È comprensibile, ma meglio abituarsi subito perché questa è la storia di un difensore che pensa come un attaccante, di uno che da bambino era tifoso laziale ed è cresciuto calcisticamente nella Roma, di un giocatore il cui talento annulla la dimensione spaziotemporale delle sue gesta in campo. Stiamo parlando di Alessio Romagnoli, l’ultimo dei Mohicani, il legittimo erede della Divina Scuola di Hokuto, ove per Mohicani e per Hokuto si intende la scuola dei grandi difensori italiani, quella che si è preoccupata di produrre, per decenni, i peggiori incubi dei più grandi attaccanti mondiali.

Nella testa di un attaccante

Alessio nasce ad Anzio nel gennaio 1995, quasi cinquantun anni dopo l’Operazione Overlord, tredici anni dopo la pubblicazione del singolo When the tigers broke free da parte dei Pink Floyd.

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Inizia a capire come si calcia un pallone forse prima ancora di imparare a pronunciarne il nome correttamente. A circa quattro anni indossa infatti già la numero 10 nel San Giacomo, società in cui gioca ben quattro anni sotto età facendo ammattire ragazzini ben più grandi di lui. Come una sorta di imprinting Alessio memorizza i movimenti delle punte e dei trequartisti, ma al tempo stesso interiorizza le contromisure difensive predisposte a neutralizzarli. Il piccolo Romagnoli non si contrappone semplicemente all’avversario, piuttosto ci si specchia per trovarvi il riflesso vincente al fine di anticiparlo. Per lui, l’ostacolo semplicemente non esiste.

Su quel talento lampante arriva per primo Bruno Conti, che lo porta alla Roma per inserirlo nel settore giovanile. Qui conoscerà Stramaccioni e Montella (suo attuale tecnico al Milan), ma il suo vero pigmalione sarà Sandro Tovalieri detto il Cobra, bomber girovago degli anni ’80-’90, che per primo intravede il suo futuro da difensore e nel 2004 (a nove anni) lo schiera al centro della difesa.

L’ascesa di Alessio è segnata: nel 2011, nemmeno diciassettenne esordisce con la Primavera in un derby contro la Lazio (finito 3–3 proprio per uno suo svarione); l’anno successivo la chiamata in prima squadra di Zdenek Zeman, che prima lo lancia nella mischia dall’inizio in Coppa Italia contro l’Atalanta, poi gli regala l’esordio in A contro il Milan a gara in corso, ed infine lo fa partire titolare contro il Genoa all’Olimpico dal primo minuto. Lui, oltre al suo dovere di difensore, segna pure.

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Il miglior Romagnoli però si vede a Genova, sponda blucerchiata, dove nel 2014 con Mihajlovic dà prova di essere ben più di una promessa, segnando anche due reti in 30 partite.

Forte fisicamente, dotato di un formidabile senso della posizione, domina nettamente nel gioco aereo. Ma anche palla a terra ci sa fare. Sebbene non sia un velocista, finendo talvolta per pagare dazio nelle ripartenze in campo aperto, compensa con una rapidità di pensiero che lo proietta di un tempo di gioco avanti al proprio diretto avversario.

L’anticipo per Romagnoli è un esercizio di stile: non si limita ad eseguire l’intervento, lui si reinventa ogni volta sforzandosi di leggere la situazione di gioco e prevedere dove finirà la palla o quale movimento adotterà l’attaccante per involarsi verso la porta. In questo gioca molto anche il suo carattere spavaldo, guascone ma accorto, elegante e sfrontato al tempo stesso (a questo punto cosa cambia tra un paradosso in più e uno in meno).

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Vederlo in azione durante la marcatura è come ascoltare una ritmica jazz ipnoticamente compassata e sobbalzare al momento della nota sincopata: l’intervento risolutore ci sarà, è solo questione di tempo. Il pallone che entra nel campo gravitazionale della sua aura difensiva non ne uscirà che ai suoi piedi, e spesso agli attaccanti non è dato nemmeno modo di accorgersi del furto subito che già Alessio lo ha consegnato con nonchalance al compagno meglio piazzato. Fa invidia la qualità profusa anche nei momenti più critici, dove tutto pare essere sotto il suo stretto controllo.

Da questo punto di vista, sarebbe il difensore ideale per un allenatore come Simeone o Klopp, che prediligono dai propri defender pragmatismo, efficacia, pulizia dell’intervento intuito nella lettura delle situazioni di gioco, e pretendono l’immediata verticalizzazione per il regista, trequartista o prima punta-pivot.

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Fin qui, per superarlo pare ci sia un solo modo: circumnavigarlo, stargli da presso per smarcarsi dal suo campo gravitazionale cercando di non essere visto, e partirgli poi alle spalle. Questo, finora, il grande limite di Romagnoli, che viene messo in mezzo più facilmente quando si tratta di seguire con lo sguardo la traiettoria del pallone e, parallelamente, con l’istinto i movimenti dell’attaccante. Fortuna che i calciatori capaci di tali movimenti si contino sulle dita di una mano In questo senso la sua nemesi sono i giocatori come Callejòn.

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Basta un dato per comprendere l’impatto di Alessio sul rendimento delle difese di cui prende il controllo: con lui la Samp ha subito solo 42 gol, che salgono a 62 e 61 nei due anni ante e post Romagnoli; il Milan è invece passato dai 52 della stagione 2014/2015 ai 43 dello scorso anno.

Per questo la sua cessione ai rossoneri, al netto delle mai nascoste simpatie biancocelesti, risulta comunque uno dei punti oscuri della direzione tecnica di Sabatini alla Roma. La cifra era irrinunciabile, d’accordo, ma considerata la successiva spasmodica ricerca di un centrale all’altezza, da parte della società capitolina, c’è da supporre che Romagnoli avrebbe potuto rappresentare qualcosa di più di un tesoretto da preservare e valorizzare. D’altro canto il suo passaggio al Milan, nella squadra che è stata dei Maldini, dei Baresi e dei Nesta, aggiunge al profilo di del giocatore quella narrazione dinastica dalla quale un erede designato, soprattutto se in cerca di conferme, difficilmente riesce ad esimersi.

Articolo a cura di Armando Fico

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