Eternal Sunshine of the Spotless Messi

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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6 min readAug 10, 2016

Poteva accadere solo nel New Jersey, come l’inizio di un film di Kevin Smith, magari con Jason Mewes che interpreta Caniggia, sperduto all’esterno di un mall a fare da contro-coscienza parallela al protagonista. E invece è stato tutto così lineare che già qualcuno l’aveva previsto, da Demichelis al portiere del mio palazzo.

L’errore, la sconfitta, la disperazione, l’addio, il mito tragico che prende forma, la narrazione mondiale che scomoda la malinconia di un tango, lo spettro amletico di Maradona e delle sue vittorie con nazionali meno ricche di compagni campioni, il tentativo di non parlarne, parlandone, il tutto che prende forma dal poco, perché è fresco, e il conseguente tentativo di metterlo in uno spazioso scaffale di storia.

E la cornice “reale” è stata appunto quella, disorientante, di una finale di Copa América giocata in New Jersey, con tutto l’immaginario tropicale che i due lemmi ‘Copa’ e ‘América’ vicino avrebbero il potere di far tornare alla mente, contrapposti a uno sfondo da videoclip dei Journey. Complice anche questo tipo di straniamento, quando Messi si è sfogato dicendo «è la terza finale consecutiva che perdo, evidentemente non fa per me», ha restituito al mondo in diretta un disagio da jet lag dello spirito.

Ha accompagnato con un sorriso amaro la sua personale resa, come se l’Argentina avesse qualche speranza di vincere in futuro senza di lui, come se la delusione e il dolore dei suoi tifosi fossero secondari alla sua personale sconfitta.

Ci ha poi ripensato, ma la delusione rimane. Forte.

E poi, solo un mesetto dopo, questo. Una foto in mutande sul divano con l’ossigenatura e la canotta da verandina agostana. Il sorriso di chi ha riscoperto sé stesso solo alla fine di una relazione tormentatissima, dopo anni di bombardamento da parte degli amici, armati dei loro “ma come fai a dire che questo è amore”.

Quali amici, però. Maradona ha detto che è stato lasciato da solo. Non mi piace mai essere in disaccordo con Maradona, è come essere appassionati di cucina ma in disaccordo con il gusto, eppure non credo che Messi possa essere mai lasciato da solo finché si trova su un campo da calcio, e ha un pallone tra i piedi.

Souvenir quadrimensionali

Ritenere che quella foto di Messi-Colpi-di-Sole sul divano, finalmente libero dalla sua relazione complicata con l’Albiceleste, sia “soltanto una foto”, è sottostimare l’effetto che le nostre decisioni hanno sul tessuto della realtà. Per capire la portata di quanto accaduto tra l’annuncio del suo addio e il momento in cui quell’immagine viene scattata e diffusa occorre fare uno sforzo immaginativo.

Ad esempio, immaginiamo la maglia numero 10 della nazionale argentina come se ogni striscia verticale albi e celeste rappresentasse una linea temporale parallela con un inizio (l’orlo basso) e una fine (il collo). Immaginiamo quindi che tutto lo spazio nero occupato dal numero ‘10’ e dalla scritta ‘Messi’ su ogni striscia corrisponda all’incidenza del soggetto interdimensionale Lionel Messi sulla storia calcistica della Selecciòn nella data linea temporale. Osserviamo dunque come in alcune linee temporali l’impatto di Messi è breve e in ritardo quanto un primo accenno del numero uno, in un’altra è continuo, stabile e lineare quanto la linea verticale dell’uno stesso, in altre è assente, in altre ancora ha una curva a destra, in un’altra a sinistra.

Bene, ora abbiamo una maglia di Messi che trascende sé stessa e diventa un oggetto quadrimensionale. Da questo momento in poi il fatto che la Pulga si sia ritirato dopo aver perso quattro finali con la maglia della sua nazionale non è più solo la storia, ma una delle storie possibili, il che non consolerà i tifosi argentini della nostra linea temporale ma li aiuterà a rimettere tutto in prospettiva.

Data appunto l’incidenza grafica di Messi su più di una striscia parallela, se ammettiamo che sono molte le linee temporali in cui è lui il miglior calciatore al mondo, possiamo immaginare anche che peso abbiano sulla realtà circostante le parole amare e di rinuncia pronunziate al termine della seconda in Copa América.

Gli effetti collaterali

Nel momento della sua resa, da qualche parte nel multiverso, un bambino di 11 anni, bravo in tutte le materie tranne in educazione fisica ha giurato a sé stesso «mai più in tuta il lunedì alla quarta ora», «da adesso in poi per me niente più esercizio fisico, solo libri e snack ipercalorici». Nella sua linea temporale retta, quel bambino viaggia a suon di merendine verso il suo futuro brillante da Stephen Hawking in sovrappeso. Non ballerà mai un tango malinconico, né verrà mai paragonato ad Achille con un suo tallone, o a Superman con una sua kryptonite, è solo un bambino che non accetta l’insuccesso, per quanto parziale in una vita “destinata” al raggiungimento dei propri obiettivi.

Da qualche parte negli anni ’60 di una dimensione parallela John Fitzgerald Kennedy ha detto: «Non chiederti cosa può fare il tuo Paese per te, ma se proprio vedi che a 29 anni ancora non hai vinto un titolo con la maglia del tuo Paese, beh, magari non fa proprio per te». In questa linea temporale Kennedy probabilmente è ancora vivo nel 2016, e ha vinto tutto al Barcellona, battendo peraltro qualsiasi record di gol.

E tutto questo per una foto in mutande sul divano, dettata dall’esigenza di esibire una serenità solo apparente, e invece densa di ritorsione emotiva nei confronti di una ex ingombrante.

Il concetto di cui ci siamo serviti per illustrare questa tesi si chiama ipertempo, ed è una suggestione secondo cui tutte le storie immaginabili e immaginate contano e sono reali, poiché strutturano affreschi quadrimensionali che, per chi se la sente di afferrarli, aiutano a elaborare l’indigesta monodimensione della nostra linea temporale. Quindi sì, ipertempo è un concetto immaginario per storie immaginarie, ma finché è il nostro singolo pensiero a tenerle unite e a dargli forma, chi può dire che non lo siano tutte.

Come evitare danni ulteriori al tessuto di realtà

Nella nostra realtà sportiva invece, quella oggi legittimamente scossa, la responsabilità di un giocatore come Messi, dei numeri che ha prodotto, di cosa ha rappresentato, rappresenta e rappresenterà per il calcio, probabilmente non è quella di risparmiarsi altri episodi da perdente, ma di garantirsi la possibilità di essere battuto e, in alcuni campi sconfitto. Lo deve allo sport e ai sogni argentini di un’intera generazione, quella che vince con Messi solo quando indossa la maglia dell’albiceleste, e non necessariamente quando solleva trofei in blaugrana.

Ogni volta che mi è capitato di immaginare come sarebbe stato essere lui, con quella significativa quota di lustrini e paillettes cinematografici in meno rispetto alla vita pubblica di un Cristiano Ronaldo, mi sono tornati alla mente quei lunghissimi pomeriggi da preadolescente in cui si portavano avanti partite interminabili alla console calcistica di turno, fatti di vittorie su vittorie e trofei su trofei. Mio padre passava di lì, dava un’occhiata ai numeri e ai risultati e mi diceva: «Ma questo che calcio è? Non è possibile, non è verosimile». Perché non aveva ancora visto Messi.

Ne consegue che ritirarsi dalla Nazionale dopo quattro finali perse è una cosa che avrei potuto permettermi io nella mia identità virtuale di preadolescente. Ancora meglio, ritirarsi dalla Nazionale dopo quattro finali perse è un gesto che probabilmente, quando il futuro sarà arrivato e i campioni saranno tutti superuomini secondo gli standard fisici e di talento che lo stesso Messi ha contribuito a reimpostare, porterà giocatori e narratori a guardarsi indietro e domandarsi, in una condizione atemporale, come era possibile che un campione vincesse qualcosa se era pronto a lasciare dopo soli quattro tentativi andati male.

Un grande editorialista quale era Yoda diceva che è difficile prevedere il futuro perché «sempre in movimento è», ne consegue dunque che per cambiare qualcosa in costante movimento come il futuro, Messi ha solo un’opzione: cambiare idea. Lo deve a un ragazzino di 11 anni che in questo modo diventerebbe uno dei primi, e più in forma, scienziati atleti della storia.

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