Goodbye, minnows (o “La ballata di Mazzacane”)

Gabriele Anello
Crampi Sportivi
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14 min readMar 19, 2017

La nuova stagione di Formula 1 è pronta a partire, con cambiamenti nei regolamenti, possibili sconvolgimenti (o forse no: la Ferrari sembra lì, ma è presto per dar morto il dominio Mercedes) e nuove facce all’inizio dell’annata che verrà. Tuttavia, qualcuno mancherà all’appello.

Già, perché la Manor non ce l’ha fatta: il punto conquistato da Pascal Wehrlein in Austria nel giugno scorso è stato sopravanzato dall’incredibile nono posto di Felipe Nasr sotto l’acquazzone di Interlagos (con un commovente team radio alla fine della gara). Così, la Sauber — già salva grazie all’intervento di una finanziaria — si è portata a casa i 35 milioni del decimo posto, mentre la Manor ha aspettato la fine in un’agonia senza nuovi proprietari disposti a farsi avanti.

Beffa della beffa? La Sauber ha appiedato l’uomo che le ha permesso di incassare quei soldi per sostituirlo proprio con Wehrlein, prima pronosticato nella rosa dei successori di Nico Rosberg, poi alla Force India, alla Williams, salvo ritrovarsi in quella che sarà — con larga probabilità — la macchina più lenta del circus nel 2017 (con un motore del 2016 che era tutt’altro che un fulmine, quello Ferrari).

Ad aggiungere tristezza alla vicenda della Manor, c’è il fatto che la macchina del 2017 era già pronta.

Il fallimento della Manor ha lasciato tante scorie: oltre ai tanti licenziamenti, è un peccato perché la griglia avrebbe bisogno di nuovi volti e costruttori. Inoltre, la Manor ha fatto dei seri progressi nel 2016: già il fatto di esser andati a punti è un miracolo e rappresenta i progressi fatti dall’ex team con base a Banbury. E se ripensiamo a dove quest’avventura era partita — dalla Virgin Racing, la macchina senza galleria del vento e Richard Branson, diventata poi Marussia — di strada se n’era fatta parecchia.

Un problema che la nuova proprietà della F1 — quella americana di Liberty Media — dovrà risolvere è quella dei piccoli team, che stanno scomparendo a causa di costi troppo alti. Eppure proprio loro fanno da contorno e sono il sale della F1 con alcune storie pazzesche, da underdogs puri. Non per nulla, Ken Tyrrell diceva che i piccoli team esistono perché qualcuno deve pur arrivare ultimo.

Ripensando a questo passaggio, abbiamo voluto fare un omaggio alle piccole scuderie che hanno popolato la F1 negli ultimi vent’anni. E se invece di colpi all’ultimo chilometro e di massime velocità, il circus fosse stato composto da duelli ruota a ruota tra i peggiori team della recente storia in questa categoria? Li abbiamo raccolti, con i loro componenti più bizzarri e le vetture meno scintillanti, per ricordare al meglio cosa ci stiamo perdendo.

Marussia (2015) — Max Chilton (GBR), Will Stevens (GBR)

Al di là dei progressi dell’ultimo anno, l’avventura della Manor sarà ricordata per gli svarioni raccolti nelle sei stagioni precedenti. Se escludiamo il 2016 (con l’aiuto di Mercedes e Williams) e il 2014 (Bianchi 9° a Montecarlo), le annate in F1 sono state piene di delusioni e piloti non presentabili.

Come macchina, scegliamo quella del 2015, perché la Marussia già nel 2014 rischiava la dissoluzione. Il team ritorna in pista dopo il tragico incidente di Bianchi a Suzuka, con il francese ancora in coma, ma la macchina è montata in fretta e furia, passando i crash test a due settimane dal GP d’Australia e venendo completata solo ad agosto. Il risultato sarà ben chiaro nel prosieguo della stagione: la Marussia è una «chicane mobile» (cit. Carlo Vanzini) e persino doppiarli diventa pericoloso.

Tra i piloti, c’è quel Will Stevens che si è attratto subito le simpatie di Fernando Alonso alla sua prima gara (con la Caterham ad Abu Dhabi, nel 2014). Accanto a lui, un altro inglese, un genio incompreso come Max Chilton: zero punti in due stagioni di F1, ma 25 gare consecutivamente al traguardo e una MEME star per un salto in un pre-season test.

Caterham (2014) — Charles Pic (FRA), Giedo van der Garde (NED)

Se la Marussia non ha riso, in Caterham c’era da piangere. Erede della Lotus — rientrata prima con una propria scuderia malese, poi riappropriatasi del team Renault e della livrea nera degli anni ’80 — il team guidato da Tony Fernandes ha vinto la “guerra dei poveri” contro HRT e Marussia nel biennio 2010–11, ma senza conquistare punti. Quando diventa Caterham, è l’inizio della fine: via gli esperti Trulli e Kovalainen (forse stanchi di correre a tre secondi dal resto del gruppo), dentro Pic e van der Garde.

Scegliamo proprio il francese e l’olandese per la coppia storica del team, perché entrambi hanno collezionato insieme 58 gare in F1 senza mai fare punti. Pic si è diviso tra Marussia e Caterham, mentre van der Garde si è reso protagonista del famoso SauberGate al GP d’Australia 2015, quando la scuderia elvetica per poco non deve togliere un sedile per far posto all’olandese, sulla base di un contratto precedente.

La macchina-modello è senza dubbio quella del 2014, in lotta con la Marussia, ma senza far punti. Vale per tutte le gare il commento di Kamui Kobayashi nei test pre-stagionali: «Una GP2 andrebbe più veloce».

HRT (2012) — Sakon Yamamoto (JPN), Karun Chandhok (IND)

Parlavamo di “guerra dei poveri” negli anni tra il 2010 e il 2012: sì, perché c’è quello che a mio avviso è il numero perfetto di macchine in pista (24, 12 scuderie), ma le ultime tre vanno nettamente più lente. Tra queste, la più disastrata è certamente la HRT, tragicomico acronimo di Hispania Racing Team, la scuderia iberica che all’inizio si ritrova tra gli azionisti gente come Pau Gasol e Jorge Garbajosa, salvo finire nei guai ancor prima di entrare in galleria del vento.

Nel 2010, l’avventura inizia solo dopo aver trovare un altro compratore: sono tre anni difficili, con tanti piloti cambiati e nessun punto conquistato, nonché tante figuracce. E se tra le fila della HRT c’è stato persino Daniel Ricciardo per qualche mese, la nostra preferenza va per la coppia formata da Sakon Yamamoto e Karun Chandhok. Lo so: qualcuno avrebbe preferito Narain Karthikeyan, ma l’ex Jordan ha fatto almeno cinque punti in F1, seppur nella stramba gara di Indianapolis 2005.

Il giapponese ha corso 21 GP tra Super Aguri, Spyker e proprio HRT, mentre l’indiano è stato in F1 solo per 11 corse, di cui 10 per la scuderia spagnola, prima di esser sostituito da Bruno Senna. Di certo, la monoposto peggiore è quella del 2012, con cui gli iberici non riuscirono a spostarsi dall’ultimo posto.

Già nel 2006 Yamamoto faceva incazzare Heidfeld in griglia.

Midland (2006) — Tiago Monteiro (POR), Christijan Albers (NED)

Erede della grande e morente tradizione della Jordan, la Midland è la conseguenza di quando prolunghi qualcosa che andrebbe anticipatamente concluso. La magnifica scuderia e la sua livrea gialla non se la stavano passando bene, visto che nel 2004–05 la Jordan ottiene solo sei piazzamenti nei punti, tra cui un podio e un quarto posto, che però sono figlie dell’incredibile GP a Indianapolis, con solo sei macchine sulla griglia.

La Midland acquista la Jordan già nel 2005, ma l’avventura è un’anticipazione di quanto accade alla HRT, con gli ingegneri scontenti anche prima della partenza della stagione e la squadra quasi accquistata da Eddie Irvine. E neanche Max Biaggi a testare la Midland è servito. Tra l’altro, la scuderia è teoricamente russa, nonostante la factory fosse situata a Silverstone (dove un giovane James Key iniziava il suo primo ruolo da direttore tecnico). Capace di usare sei differenti piloti per le prove libere (tra cui Adrian Sutil), l’unica stagione della Midland in F1 sarà un disastro.

In un duello con la Super Aguri, la Midland non riesce a cogliere nemmeno un punto, anche a causa dei tanti incidenti in partenza, nonostante i miglioramenti (dai quattro secondi di distanza a fine 2005 si passerà ai due alla fine del 2006). Il team poi andrà in vendita alla Spyker Cars e la nostra scelta per la coppia di piloti andrà necessariamente all’unica disponibile, quella composta da Tiago Monteiro e Christijan Albers.

La carriera dell’olandese è stata modesta; quella di Monteiro, invece, si è riempita di gloria, con un podio in F1 e buoni risultati in altre categorie.

Super Aguri (2006) — Yuji Ide (JPN), Franck Montagny (FRA)

Prendete il 2015 della McLaren-Honda; toglieteci il prestigio della casa di Woking; metteteci dentro una confusione dovuta a un’entrata tardiva (già rimandata di un anno) e avrete le magiche due stagioni e mezzo della Super Aguri.

L’impianto della scuderia — per telaio e fabbrica — si reggeva sulla vecchia Arrows (fallita nel 2002) e ci è voluto tempo perché la Super Aguri, spinta dai motori Honda, potesse in qualche maniera esser rilevante. Anzi, ci è voluta un’intera stagione, quella 2006, spesa sul fondo della classifica e impressionando solo nel finale di quell’annata, quando la casa giapponese si avvicinò alla Midland.

Il 2007 è stato comunque un anno positivo, con la Super Aguri andò a punti due volte e per poco non superò la casa madre Honda nella classifica costruttori (con Sato che sorpassa il campione del Mondo uscente Fernando Alonso in Canada). Purtroppo, ben diverso fu l’approccio dell’ultimo scorcio della propria avventura in F1.

Infatti, ai test di Barcellona del 2008, l’atteso lancio della macchina non c’è, visto che il Magma Group — che si è fatto avanti per l’acquisto del team — ci ha ripensato. L’agonia della scuderia di Aguri Suzuki finisce nel maggio 2008, dopo quattro GP. Ancora oggi, la proprietà intellettuale della casa giapponese è in mano alla Formtech Composites.

Per la coppia da scegliere, siamo andati obbligatoriamente sulla più facile: Takuma Sato non meritava quest’inclusione, così come Anthony Davidson. Yamamoto è già altrove in questo strano campionato, quindi tocca a Franck Montagny fare da sparring partner alla vera stella, l’assoluto protagonista: Yuji Ide.

Forse uno dei rookie più anziani della storia della F1, a 31 anni il giapponese fa il suo esordio nella categoria: Aguri Suzuki ci teneva ad avere una scuderia tutta nipponica, sia nella macchina che nei due piloti. Tuttavia, la mancanza di un inglese adeguato è già un programma e le difficoltà si assommeranno nel corso della breve esperienza. Alla prima gara in Bahrain, Ide prende quasi tre secondi dal compagno di squadra nelle qualifiche, che diventano quattro (!) in Australia.

Ma il meglio deve ancora arrivare: a San Marino — quarto appuntamento del Mondiale e ultima edizione del GP d’Imola — Ide prende in pieno l’olandese Albers, causando un’uscita spettacolare. Se il pilota della Midland non le manda a dire, Suzuki lascia tutti sbigottiti: «Non abbiamo potuto fare troppi test prima dell’inizio della stagione: la mia squadra è nuova e lui (Ide, ndr) non capisce come funzioni la macchina. Lo vorrei ancora con noi, ma non spetta solo a me».

Ci vuole l’intervento della FIA, che prima costringe Ide al ruolo di test driver e poi gli toglie la super licenza. Qualcuno l’ha nominato il peggior pilota visto in F1, ma lui non ha mai mollato il mondo delle corse e continua a correre nelle categorie locali.

Minardi (2003) — Tarso Marques (BRA), Esteban Tuero (ARG)

Di tutte queste scuderie, la Minardi forse è qui ingiustamente. In fondo, la casa italiana ha fatto parte di questo mondo per vent’anni anni, prima di cedere la struttura alla Red Bull, che l’ha poi trasformata in Toro Rosso. Oltretutto, Giancarlo Minardi ha avuto un fiuto per diversi piloti: Zanardi, Fisichella, Trulli, Alonso, Webber. Tuttavia, per l’emersione di un giovane, bisognava pagare il prezzo di un pilota pagante, qualcuno con una valigia. Verso la fine, è diventato quasi un obbligo agire così.

La peggior stagione è forse l’ultima senza punti in F1, quel 2003 che vede la Minardi arrancare e non trovare neanche lo spiraglio per un piazzamento da qualche parte. Ad alternarsi il compianto Justin Wilson, Verstappen senior e un giovane, ma inesperto Nicolas Kiesa. Tuttavia, nessuno di questi merita un sedile in questa speciale categoria: ci sono candidati ben più forti.

Difficile lasciar fuori gente come Alex Yoong o Robert Doornbos, ma la nostra coppia dei sogni è un’altra. Da una parte Tarso Marques, tre stagioni in F1 e nessuna di esse completata: due gare nel ’96, nove l’anno successivo e 14 nel 2001, con diverse chicche all’attivo. Si gioca il posto con Trulli, Fisichella e Lamy, ma tutti e tre sembrano più adeguati di lui. Va ancora peggio nel 2001, quando gli sponsor abbandonano il brasiliano e lui è costretto a misurarsi contro un giovane e rampante Fernando Alonso.

Anche Estaban Tuero è un caso particolare: nato a Buenos Aires e cresciuto vicino al circuito Oscar Gálvez, l’argentino esordisce in F1 a soli 19 anni. Nel 1998, però, Minardi decide di metterlo al volante della sua macchina. Martin Brundle ricorda così Tuero prima dell’esordio: «Non ho mai visto piloti con così poca esperienza al volante. Anche se non si qualificasse, sarebbe d’intralcio. E se si qualificasse, sarebbe comunque lontanissimo».

Brundle verrà parzialmente smentito: Tuero sta davanti al compagno di squadra Nakano in Australia, ma nelle 16 corse disputate non lascerà nessun ricordo. Anzi, alla gara finale di Suzuka, mentre Hakkinen e Schumacher si giocano il Mondiale, lui si ritira dopo aver preso la Tyrrell di Takagi in pieno. Motivo? Aveva spinto il pedale dell’acceleratore invece del freno.

Dai detriti di quell’incidente, Schumacher ricaverà una foratura che gli costerà il Mondiale, mentre Tuero rimedierà diverse lesioni alle vertebre del collo. La Minardi vorrebbe tenerlo per il ’99, ma l’argentino ci ripensa e sparisce misteriosamente: niente più corse, tutto finito in F1 a vent’anni.

Lola (1997) — Vincenzo Sospiri (ITA), Ricardo Rosset (BRA)

Quando un unicum vale mille emozioni: la Lola avrebbe voluto entrare in F1 da tempo, ma per soddisfare questo desiderio avrebbe dovuto attendere il 1998. Invece, il management ignora l’uso della galleria del vento, fa pochi test e decide comunque di entrare nel circus nel ’97 a causa delle pressioni della MasterCard, cromaticamente e aziendalmente associata alla Lola.

Equipaggiata da un motore Ford della stagione precedente, la Lola assume Vincenzo Sospiri e Ricardo Rosset: l’italiano è stato il test driver della Benetton, mentre il brasiliano ha già disputato all’epoca 16 gare di F1 e l’anno successivo correrà con la Tyrrell. Tuttavia, la vera storia non sta nei piloti, quanto nella macchina. La fretta è cattiva consigliera (e non è solo un proverbio).

A Melbourne ci sono due nuove scuderie. La Stewart fa una discreta figura, mentre le qualifiche sono un incubo per la Lola: Sospiri è a 11.5 secondi dalla pole di Villeneuve, Rosset a 12.7. Le due macchine non sono dentro la regola del 107% (bisogna compiere un giro nelle qualifiche che rientri al massimo nel 107% del tempo della pole position) e praticamente non correranno mai. Lo staff, già trasferitosi a Interlagos per il secondo appuntamento del Mondiale, viene rimandato a casa; l’avventura finisce e lascia un debito di sei milioni di sterline.

Forti (1996) — Luca Badoer (ITA), Andrea Montermini (ITA)

Dopo una vita passata nelle categorie inferiori, la Forti decide di tentare il grande salto nel ’95: motivo? Abílio Diniz, business brasiliano e padrone della Companhia Brasileira de Distribuição, ha voglia di far correre il figlio Pedro in F1. Visto che non c’è la possibilità di trovargli posto nei costruttori, Diniz costruisce il suo team con l’aiuto di Guido Forti. La collaborazione dura un anno, ma il ’96 va di gran lunga peggio.

Nella complicata costruzione della macchina — lenta, ma affidabile — la situazione non migliora nell’annata successiva, visto che Diniz si trasferisce alla Ligier, portando con sé le sue risorse. Forti punta allora su due piloti italiani, protagonisti di questo speciale campionato: Luca Badoer lo conosciamo anche in tempi più recenti, mentre Andrea Montermini ha corso per tre costruttori, tutti ritiratisi in breve tempo.

Molti sono concordi nel dire che la Forti sarebbe potuta andare più lontano grazie al budget a disposizione soprattutto nel primo anno, magari unito alla macchina del secondo anno, che si era dotata di un motore più evoluto. Invece, è solo una delle tante storie dimenticate.

Simtek (1995) — Taki Inoue (JPN), Domenico Schiattarella (ITA)

Due partnership di lusso (MTV e Ford), tanti buoni propositi e Max Mosley come uno dei due fondatori: teoricamente la Simtek non avrebbe potuto chiedere di più. Lanciata nel ’93, la scuderia con sede a Banbury — guarda un po’, la stessa della Manor! — vedeva Mosley diventare presidente FIA e lasciare spazio a Jack Brabham, ormai rimasto senza un team a suo nome.

Al di là della tragica vicenda riguardante la morte di Roland Ratzebnerger (che precederà di 24 ore la scomparsa di Ayrton Senna, sempre nella terribile domenica del GP di San Marino), la Simtek è sembrata abbandonata a sé stessa, come molti team a metà anni ’90, vogliosi di entrare in F1 senza capirne veramente i rischi. Quando i finanziamenti e gli sponsor si riducono nel ’95, l’avventura si chiude dopo il GP di Monaco, con un fallimento auto-dichiarato e l’addio al circus.

La scelta dei piloti ricade su Domenico Schiattarella (sei corse in F1) e Taki Inoue, un idolo pari non solo per nazionalità, ma per epica a Yuji Ide. Partecipa solo a una corsa per la Simtek nel ’94, mentre il resto delle 17 gare le corre con la Footwork, dove diventa un protagonista suo malgrado per due episodi. Il primo è un incidente nelle libere di Montecarlo, mentre il secondo è avvenuto in Ungheria: nel tentativo di spegnere il fuoco proveniente dalla sua macchina, il pilota viene centrato da un commissario in macchina.

Lui nel frattempo si è ritirato da tempo, visto che nel ’96 non riesce a portare a termine gli accordi con Tyrrell e Minardi: oggi Inoue gestisce la procura di alcuni piloti giapponesi ed è una star di Twitter nell’ambiente.

Si è persino candidato per il posto lasciato vacante in Mercedes da Rosberg.

Pacific (1994) — Paul Belmondo (FRA). Giovanni Lavaggi (ITA)

Last, but not least: la Pacific ritarda il suo ingresso in F1 di un anno, ma nel ’94 una macchina non sottoposta alla galleria del vento e dai pochi test tenta un’avventura semi-impossibile. Persino il motore è sotto-potenziato per quella stagione, tanto che le due macchine non raccolgono UN arrivo al traguardo in 16 GP. Anzi, in 25 occasioni su 32 non si qualificano neanche per la gara.

Nel ’95 la macchina è migliore, ma ciò non toglie che un anno perso è comunque pesante nel mondo della F1. Nonostante la fusione con la Lotus, lo zero in classifica non ha avuto modo di migliorare e alla fine il team decide di lasciare la categoria. Tra i piloti, giusto orientarsi sulla coppia italo-francese formata da Paul Belmondo (27 gare tra March e Pacific) e Giovanni Lavaggi (quattro ritiri di fila in altrettante gare). L’italiano, in particolare, ha attaccata sulle spalle l’etichetta di Johnny Carwash — traduzione letterale del suo nome in inglese — e ha corso nonostante suo padre fosse contro il suo desiderio. Di lui rimarrà il party organizzato dal suo sponsor — Air Sicilia — nelle libere di Monza.

Viene da chiedersi che tipo di campionato avremmo visto. Forse un duello Marussia-Forti avrebbe incendiato le strade del GP di Lussemburgo o Baku avrebbe visto una corsa ruota a ruota tra Sospiri e van der Garde. In ogni caso, il contributo di questi piccoli team — magari costruiti con progetti seri, anche se minori — rimane fondamentale per questa categoria, costruendo storie che poi rimangono negli annali. La nuova proprietà americana dovrà aprire le maglie di questi seri (e rigidi) controlli per permettere la nascita di altre storie come queste.

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Gabriele Anello
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