Fedalesimo

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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5 min readFeb 2, 2017

Nei placidi e al contempo febbrili giorni occupati dalle qualificazioni dell’Australian Open e dai sorteggi dei suoi tabelloni — due settimane e mezzo fa, che ora sembrano cinque vite — sentendomi sagace twittavo:

“Metà del mondo parla di The OA, l’altra metà degli AO”.

Ammetto che si trattava delle due metà del mondo con il quale ho a che fare io, quindi non un campione statisticamente molto rilevante, ma attorno a me era così che andava e tanto bastava per fare dell’observational humour spicciolo. Per chi non lo sapesse, The OA è una serie tv che parla di rapimenti, ritorni, racconti, esperienze pre-morte e dimensioni parallele. Soltanto stiracchiando moltissimo le analogie si riuscirebbe a farne un parallelo pop con gli AO, gli Australian Open appunto.

Ma? Ma. Il tweet mi è tornato in mente perché due settimane dopo le due metà del mondo erano diventate una sola, e quella sola aveva spento Netflix e parlava di Federer e di Nadal. Perché — fingo che non lo sappiate, venitemi dietro — Federer e Nadal erano tornati in finale in uno Slam, riportando in vita una rivalità che sembrava ormai destinata ai passati remoti e ai toni seppia. Facendo emozionare davvero chiunque, raccogliendo lungo il percorso parallelo persone che negli ultimi mesi avevano dimenticato o addirittura rinnegato il tennis.

Si mettano l’anima in pace, se non l’hanno già fatto, Djokovic, Murray, i tennisti azzurri e tutti quegli altri ancora che, per quanto forti, interessano quasi soltanto agli addetti ai lavori: Roger e Rafa sono icone, sono fenomeni totali, globali, universali. Sono i due nomi che conosce persino chi non saprebbe distinguere una volée vincente da un doppio fallo, e che infatti domenica un’occhiata al match la ha data pure lui o lei.

Insieme a noi, che il tennis avevamo continuato a guardarlo e a trovarci del bello (c’era davvero) abituandoci però, un match alla volta, ad uno standard differente, probabilmente più basso. La ragione di questa abitudine non sta da nessuna parte se non nella prolungata assenza di quei due signori dai campi.

Il match della Rod Laver Arena di Melbourne è stato il 35° confronto ufficiale tra i due. Il cosiddetto “Fedal” non è la rivalità tennistica più frequente dell’era contemporanea — Djokovic ha affrontato una quindicina di volte in più ognuno dei due, tanto per fare un esempio — e assai difficilmente la diventerà. È però l’unica che verrà tramandata, l’unica che troverà spazio nel libro che parla di Borg e McEnroe, di Agassi e Sampras, questa è l’unica certezza che possiamo avere già “a posteriori”. Per il resto, domenica ci ha insegnato di nuovo quanto, nonostante la mole di dati a disposizione, fare pronostici serva a poco.

In 13 anni, lo svizzero e il maiorchino si sono affrontati su ogni genere di superficie, in ogni condizione metereologica, dando vita a rimonte punto su punto (Wimbledon 2008), ad assalti lampo di cinquantanove minuti (Finals 2007) e a guerre di trincea lunghe oltre cinque ore (Roma 2006). Si sono testati a vicenda in ogni combinazione possibile, con risultati ai quali sarebbe sciocco e ingiusto chiedere la risposta a una domanda altrettanto sciocca e ingiusta come “Chi è il più forte?”

Nadal gode di un vantaggio numerico tuttora schiacciante (23–12), ma foraggiato dalla sproporzione tra i tornei giocati sull’amata terra — una infinità, tra cui i tre Masters 1000 che precedono il Roland Garros — e quelli giocati sulla più ostile erba — pochissimi, e solo un paio in cui i due rischiano di incrociarsi. In generale è un tennista le cui qualità fisiche e tecniche fanno montare le chance di vittoria con l’allungarsi dell’incontro; in particolare ha aggiunto negli anni a queste qualità una forza mentale che persino Federer, o forse soprattutto Federer, a un certo punto della carriera è sembrato soffrire già “in anticipo”.

Lo spagnolo ha, da sempre, anche cinque anni in meno di lui. La risposta che Federer avrebbe dovuto dare a questo scarto negativo era quindi chiara e, per sua fortuna, molto familiare: impostare scambi rapidi, sempre all’attacco, anche con l’aiuto di un campo talmente rapido da far parlare qualcuno di “tappeto indoor anni ‘80” (Verdasco, che nel 1989 aveva sei anni). Stare sulla diagonale del proprio dritto, e lontano da quella del dritto mancino di Nadal. Far durare l’incontro il meno possibile.

Dopo dieci anni questo sapevamo, perciò credevamo di sapere come si sarebbero svolti i fatti. Chi avrebbe fatto cosa, come e quando e quanto e soprattutto perché — del resto erano tra i finalisti Slam più anziani di sempre, e raggiunta una certa età non si cambia più molto. Spiegavamo tutto questo a chi si era seduto accanto a noi, per guardare un match dopo tanti anni o per la primissima volta.

C’è stato un istante preciso e bellissimo di domenica in cui tutti gli appunti, gli articoli, le statistiche, la saccenza sono andati per aria: è stato l’istante in cui la finale è girata, e con lei un decennio di tennis. È stato l’istante in cui il quinto set è diventato il più lungo dell’incontro, un dritto mancino di Nadal è finito fuori dalle righe, lui ha capito che non poteva chiedere la verifica elettronica — perché era l’ultima che aveva, se avesse sbagliato sarebbe rimasto senza — e Federer ha recuperato il break.

E lo ha tenuto e ha vinto, di fisico e di testa contro la sua unica nemesi, che lo superava proprio per il fisico e per la testa. Vincendo uno scambio da quasi trenta colpi all’ultimo set possibile, iniziato perdendo il servizio. Contro Nadal, con ciò in cui Nadal gli era stato sempre superiore. I due piani tattici che avevano portato fin lì, quelli previsti, non contavano ormai più nulla.

Durante il discorso della premiazione Federer ha detto che si sarebbe accontentato anche di un pareggio, in questo sport che i pareggi non li accetta mai e che porta due uomini a giocare potenzialmente all’infinito, pur di stabilire un vincitore e un vinto.

Nadal lo ha guardato e gli ha sorriso rosicando, ma con affetto e rispetto. Un sacco di retorica con un grande fondo di verità ha portato tutti, me per primo, a immaginarli e dipingerli come due inconciliabili. Quando invece sono come due eroi che l’Iliade del tennis ha posto uno da un lato e uno dall’altro, con armi e schieramenti e favori divini così diversi eppure con lo stesso identico scopo. E la certezza che per raggiungerlo dovranno affrontarsi, e stabilire un vincitore e un vinto.

Ci sono tante serie tv e pochi grandi match. L’indoor di Montpellier, la terra rossa di Quito e tutti gli altri tornei delle prossime settimane li guarderanno soltanto quei pochi che li guardavano anche l’anno scorso, perché neppure due rondini, pur così belle, fanno primavera. Ma state certi che stavolta, almeno una volta, qualcuno passerà e domanderà se sta giocando Federer, se sta giocando Nadal.

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