Fenomenologia del braccino

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
Published in
18 min readSep 5, 2016

È difficile trovarne una definizione autorevole di ciò che viene definito “braccino del tennista”, tant’è che mentre scartabello su Internet scopro che una delle persone più autorevoli che ne abbia mai parlato sono io stesso, per quanto sotto pseudonimo [Fabio Farini, Keep calm e difenditi dagli stronzi, Newton Compton, Roma 2016, pp. 234–237].

L’aneddoto di cui si racconta è prettamente autobiografico, ma vale la pena riportarlo, perché il braccino del tennista è un fenomeno universale. È necessario infatti specificare che quando si parla braccino non c’è differenza tra le gesta di un tennis-tavolista da parrocchia e il rigore sbagliato di Messi con la maglia della Selecciòn.

[embed]https://www.youtube.com/watch?v=Lg8pMnv9tdY[/embed]

Per quanto mi riguarda l’unico sport a cui io abbia mai giocato con una certa assiduità è il tennis-tavolo in cui, nonostante gli sforzi profusi, sono sempre rimasto a livelli che potremmo definire con un blando eufemismo “indecorosi per la disciplina nel suo complesso, fonte di imbarazzo per la Federazione Italiana Tennis Tavolo e deplorevoli in toto per la specie umana”. Uno degli amici più spesso affrontati era tale Mario il cui livello era leggermente superiore al mio. Diciamo che in un mondo ideale, in cui sia che lui avessimo giocato al meglio delle nostre capacità, lui avrebbe vinto 60 partite e io ne avrei vinte 40. Nel mondo reale, tuttavia, lui vinceva 95 partite su 100.

Ma vediamo alcuni esempi diretti, nel mondo del professionismo.

Il “secondismo”

L’Associazione Sportiva Roma è stata fondata nel 1927. Da allora conta 84 partecipazioni nella massima serie, con 3 vittorie e ben 12 secondi posti. La Juventus, per fare un esempio, è arrivata seconda 18 volte, ma ha vinto 32 scudetti.

Il conto è presto fatto. La Roma è arrivata seconda nell’80% dei casi in cui si è contesa il primo posto, fallendo ben 4 match point su 5; la Juventus, al contrario, solo nel 36% dei casi, fallendo poco più di un match point su 3.

Se assumiamo, per amore di argomentazione, che le squadre che si contendono il primo e il secondo posto abbiamo ciascuna (all’incirca) il 50% di probabilità di vincere ci rendiamo conto dell’enormità del distacco. La Roma vince solo nel 20% dei casi (molto al di sotto della media attesa) la Juve nel 64% (decisamente al di sopra). Se vogliamo farla breve, e riscoprire l’acqua calda, possiamo dire che la Juventus ha una mentalità vincente mentre la Roma no.

Se pensate che la fascinazione per il secondo posto sia un fenomeno antico, e in via di superamento, dovrete ricredervi. La tendenza, al contrario, è persino peggiorata negli ultimi tempi, come dimostra la stagione 2013–2014, anno in cui la Roma ha raggiunto il sesto secondo posto in dieci anni.

Nessuno in Europa vanta un numero così alto di medaglie d’argento nell’ultimo decennio. Marsiglia, Psv e Chelsea sono a 4, Barça, United, Milan e Benfica a 3. Sei stagioni di rincorse sfumate e vantaggi sprecati che non hanno portato il 4° scudetto sulla sponda giallorossa della Capitale. La prima, nel 2004 alle spalle del Milan, fu con Capello in panchina che già due anni prima era arrivato a un punto dalla Juve. Poi ci fu la prima era Spalletti con tre argenti di fila: quello a tavolino post-Calciopoli nel 2005/2006 e quelli nelle due stagioni successive dietro l’Inter. Clamorosa l’annata 2007/2008, quando la Roma raggiunse il record di punti (82, infranto poi da Garcia un paio di anni fa) ma finì a 3 punti dai neroazzurri recriminando per qualche errore arbitrale. Doloroso quello della Roma di Ranieri nel 2009/2010: una rimonta sull’Inter di Mourinho porta i giallorossi al primo posto a 4 giornate dal termine, ma la sconfitta in casa con la Samp assegna il tricolore di nuovo a Milano. Una beffa che certifica la fine di un ciclo.

Dei dodici secondi posti conquistati dalla Roma nella sua storia, pertanto, ben sette sono arrivati negli ultimi dodici anni, perché dal 2014 il record citato è stato addirittura perfezionato. La Roma, complice la prodezza nel derby di Yanga-Mbiwa, è arrivata seconda anche nel secondo anno dell’era Garcia (2015), ed ha rischiato di ripetersi anche nel primo dello Spalletti bis (2016), dovendosi arrendere, nel finale, solo alle furie dall’Atalanta (D’Alessandro e doppio Borriello), che l’hanno privata di quello che sarebbe stato il tredicesimo secondo posto della sua storia.

Il terzo posto, d’altro canto, altro non è che un secondo posto alla seconda. La Roma l’anno scorso, e a ben vedere, si sarebbe quindi persino superata, arrivando seconda anche nella rincorsa al secondo posto.

Case study: Atalanta-Roma 3–3, l’Etica Nicomachea e il fattore Hybris

Sia la partita con l’Atalanta che la recente doppia sfida con il Porto sono una summa perfetta del magnetismo subito dalla Roma per tutto ciò che sa di “non vittoria” e meriterebbero quindi un’analisi più approfondita.

Atalanta-Roma, disputata il 17 aprile 2016 allo stadio Azzurri d’Italia di Bergamo, non è una partita che non conti niente, tutt’altro. È decisiva per l’ingresso in Champions e i tre punti, che a fine stagione avrebbero portato il secondo posto, hanno un valore che oscilla tra i 30 e i 50 milioni di euro. La Roma, pur consapevole dell’importanza della partita, o più probabilmente a causa di ciò, riesce, ciononostante, a dilapidare un capitale iniziale di ben 2 gol.

Il primo è di Digne, il secondo di Nainggolan. Seguono 3 gol dell’ex, uno di Marco D’Alessandro (che in seria A ne ha segnati 3 in 50 partite) e due di Marco Borriello (10 gol tra Carpi, Atalanta e Cagliari, di cui il 40% alla Roma).

[embed]https://www.youtube.com/watch?v=Ct2UTV4TpwI[/embed]

Mentre Borriello tenta un inedito poker dell’ex per portare l’Atalanta sul 5–2, la sua controparte bosniaca gioca una partita ineffettiva. Per quanto riguarda infatti la sua prima stagione in Italia, Edin Džeko è il giocatore che del braccino del tennista più che simbolo è sponsor. Chi provato a fare della statistica sulle sue occasioni sprecate nella stagione 2015/2016 è arrivato alla conclusione secondo la quale avrebbe realizzato solo il 9,68% dei suoi tiri, senza considerare quelli bloccati da difensori.

Anche in Atalanta-Roma, a questo riguardo, Edin è protagonista assoluto: nel primo tempo prima al 41esimo sul risultato di 2–2 («senza più avversari calcia clamorosamente alto», poi al 44esimo («destro di Dzeko e Sportiello che devia in angolo»

L’Atalanta fa 3–2 ma Edin, di approcciarsi alla porta, non ne vuole proprio sapere: nel secondo tempo sbaglia ancora al 25esimo («fuori un colpo di testa da centro area» e al 27esimo («sbaglia la girata e manda alto da ottima posizione» prima del grande exploit finale (di cui diremo).

Luciano Spalletti è obbligato a guardare chi c’è in panchina e si ricorda di un giovanotto di nome Francesco Totti, uno che il braccino del tennista apparentemente non sa cosa sia. Più sono importanti le occasioni e più lui la butta dentro. Tra Atalanta-Roma a Roma-Chievo giocherà 4 partite, per un totale di 56 minuti, in cui segnerà 4 gol (1 ogni 14, una media che ricorda quelle di Messi nelle giovanili del Grandoli).

Il primo della serie è all’86esimo di Atalanta-Roma («destro di fil di palo»). Poi prova a mandare in porta il centravanti titolare. Edin Džeko, tuttavia, non riluce e fa cinquina: «si fa spazio in area ma non riesce a tirare solo davanti a Sportiello». Spalletti non la prende bene: «si infuria e si fa buttare fuori».

Quello che, del post-partita, viene riportato dai giornali, entra negli annali. Da una parte la leggenda, quello che sarebbe successo negli spogliatoi, dall’altro la cronaca, quello che Spalletti dice nelle interviste. Riguarda al primo punto, che è quello che qui ci interessa, non sapremo mai le parole esatte perché non vi erano cronisti accreditati nei paraggi ma solo intangibili “fonti”.

L’ipotetico incipit di Spalletti, tuttavia, sarebbe stato degno di nota: «Ma non vi siete stancati di fare queste figure di merda? Sono dieci anni che non vincete niente».

È in questo preciso istante che la Roma secondo Spalletti (e chi scrive) palesa la cronica mancanza di mentalità vincente. Dopo il gol del 3 a 3, a giudicare da quanto si indugia sull’esultanza, la squadra sembra più felice per il pareggio del Capitano che smaniosa di chiudere una partita, che potrebbe essere finita molti minuti prima, e precisamente con il gol di Nainggolan al 27esimo del primo tempo.

Il punto non è che Spalletti abbia pronunciato quelle parole o no, il punto è che, se lo avesse fatto, avrebbe ragione. La Roma non vince da 10 anni per dei motivi ben precisi, che in questa partita si sono visti tutti, quasi fosse una videolezione: sullo 0–2 si compiace (crede di aver già vinto), sul 3–2 si deprime (crede di aver già perso), sbaglia tutti i match point per chiudere la partita (cinque occasioni per il solo Edin Džeko), tira un sospiro di sollievo il deus ex machina gli leva le castagne dal fuoco (sul 3–3 festeggia, perché temeva la sconfitta più di quanto non desiderasse la vittoria).

Ogni critica fondata, d’altro canto, ti mette davanti a un bivio: puoi scegliere di ignorarla, preservare la tua autostima e passare il resto della tua vita in un diabolico perseverare. Oppure puoi scegliere di soffrire — le critiche, specie se centrate, non fanno mai piacere — e andare a osservare per bene i tuoi scheletri nell’armadio o cosa hai nascosto per anni sotto il tappeto. Lo spettacolo può essere raccapricciante o disgustoso ma superato lo shock iniziale puoi rimboccarti le maniche e iniziare a rassettare.

Hybris è quella parola greca che esprime la tracotanza, di chi si crede superiore agli dei e al fato: «un tratto di personalità che indica orgoglio estremo o insensato o una pericolosa ed eccessiva sicurezza nei propri mezzi e nelle proprie possibilità».

Potrebbe sembrare che la Hybris con il braccino c’entri poco e niente ma a ben vedere ma sono due facce della stessa medaglia. Gli eterni secondi oscillano ciclicamente tra sentimenti di grandeur (quando le cose vanno bene) e il catastrofismo (quando vanno male). Per tirarsi fuori dalla depressione, ne sa qualcosa Garcia, possono persino virare al polo opposto, in una sorta di viraggio maniacale.

[embed]https://www.youtube.com/watch?v=8qo4cKRNooY[/embed]

Il 17 ottobre 2014, dopo un discusso 3–2 con la Juve, Rudi Garcia, che oramai del romano aveva tutti i vizi, aveva dichiarato: «Vinceremo lo scudetto, ne sono sicuro». Lo scudetto però, nonostante le sicurezze di Garcia, lo vincerà la Juve, che raramente (e non è un caso) si abbandona a proclami del genere, che sono lo stigma dell’eterno secondo: anche quando, come quest’anno, ha una rosa il cui valore stimato è di 428 milioni di euro: «per vincere il sesto scudetto si deve lavorare molto e prepararsi al meglio perché avremo concorrenti molto agguerrite».

D’altro canto già Aristotele, nell’Etica Nicomachea, scritta tra il 335 e il 322 a.C., sosteneva che la virtù è la via di mezzo tra due vizi opposti: la superbia è il vizio contrario alla pusillanimità e la virtù corrispondente è la magnanimità.

Magnanimo è colui che si ritiene degno di onori e fama perché ne è veramente degno, senza ricadere nella micropsichia, la svalutazione di sé stessi, di chi non si ritiene degno di onori e di fama, o nella in quella della chaymotes, la presunzione, di chi aspira ad onori e fama senza esserne degno.

Per dirla altrimenti, il superbo si sovrastima, il pusillanime si sottostima e il magnanimo ha una stima di sé adeguata: sa quali sono i suoi limiti e le sue risorse, a quali traguardi ambire e a quali rinunciare.

Chi è affetto dalla sindrome dell’eterno secondo, anche se Aristotele non lo dice, oscilla pericolosamente tra pusillanimità e superbia. Pregusta la vittoria finale in Coppa Campioni perché la gioca in casa, come se tutto facesse parte del compimento di un destino di vittoria, ma poi nel momento in cui sarebbe alla sua portata sbaglia due rigori, per la paura di fallire. Suona familiare?

Col senno di poi dare a Conti e Graziani dei pusillanimi sarebbe eccessivo, anche perché, come vedremo a breve, il problema non riguarda solo l’As Roma e non riguarda soltanto il calcio. Però ora sappiamo che in quell’occasione Bruce Groobelaar non fu superbo, ma persino magnanimo: sapeva quali erano le sue risorse e le ha sfruttate al massimo.

[embed]https://www.youtube.com/watch?v=qMUZxYayjhE[/embed]

Niccolò Campriani e Matthew Emmons: la nikefobia e le sue cause

La paura di vincere ha un nome, nikefobia, che non a caso viene definita la malattia dell’eterno secondo. Dalla sindrome è stato affetto Niccolò Campriani, che sulla paura di vincere ha poi scritto un libro: Ricordati di dimenticare la paura: cosa fa di un atleta un uomo felice (Mondadori 2013).

La sua storia ha inizio nel 2008 alle Olimpiadi di Pechino, quando Niccolò scopre, anche lui, di avere braccino. Ed è un problema, perché a lui il braccio serve, visto che il suo mestiere è il tiro a segno, e quella che tiene in braccio è una carabina:

«Questa è la pedana. Questo è il mirino. Quello è il bersaglio e questo frastuono è il rumore del mio cuore impazzito. […] Funziona così: dapprima lo senti appena il battito. […] Poi la gara va avanti e la pressione sale. E più il colpo che stai per sparare è importante, più il battito aumenta d’intensità, ritmo, volume, e la sensazione, piano, piano, da liquida si fa acustica, sonora. Di solito più ci fai caso più ti preoccupi. Il petto si trasforma in un tamburo e ti ritrovi incastrato nel bel mezzo di un cortocircuito, con quel battito che fa paura e la paura che fa pulsare il cuore ancora più veloce. Una sorta di ricatto. Dove però non si capisce chi sia il ricattatore e chi il ricattato. A volte tutto questo diventa insopportabile e di solito è il segno che stai per perdere. Ma oggi non andrà così.

E invece è così che va. Dopo 59 centri Niccolò fallisce il sessantesimo colpo. Per la bellezza di 3,34 millimetri. Per noi non sono niente, per lui è il dodicesimo posto, e l’addio al podio.

Ma se Niccolò nella specialità del “braccino della carabina” è appena agli esordi c’è chi, nel suo stesso campo, può considerarsi già un veterano.

Nel 2004, ad Atene, Matthew Emmons, vince l’oro nella carabina 50 metri a terra. Ma il suo vero obiettivo è l’oro nella carabina a 3 posizioni, «la specialità regina», in cui si sparano 120 colpi, 40 in piedi, 40 sdraiato, 40 in ginocchio. Se vi sembrano pochi sappiate che stiamo parlando delle qualificazioni, perché in finale se ne sparano altri 10, tutti dalla posizione in piedi.

Emmons però ha un problema, e cioè che l’oro, secondo gli esperti, l’avrebbe già vinto a tavolino, tanto è schiacciante e manifesta la sua superiorità nei confronti degli avversari.

Ma se c’è una cosa che abbiamo imparato da Boskov è che è rigore solo quando arbitro fischia.Il successo annunciato è sempre un tonfo clamoroso. Non è solo una questione di scaramanzia, è che crea aspettative e quindi pressione, fa montare l’ansia per la sconfitta e l’ansia per la vittoria.

L’ansia della sconfitta è l’ansia dei favoriti, non delle lepri, perché nessuno prova ansia quando rincorre. È l’ansia che ti viene quando hai paura di mancare un obiettivo che è facilmente alla tua portata, ed è preceduta da un pensiero nefando, ma nondimeno reale: «Cosa succederebbe se ora buttassi tutto all’aria? Non sarebbe un clamoroso spreco? Eppure basterebbe così poco». Immaginare la sconfitta vuol dire renderla possibile, reale. «Fare o non fare, non c’è provare», direbbe il maestro Yoda. Chi calcia un rigore deve immaginare il pallone nella rete. Perché se lo immagini fuori il pallone va fuori.

L’ansia per la vittoria è l’ansia del parvenu, di chi ce l’ha fatta ­– o ce la sta per fare — ma non si sente all’altezza. È preceduta da pensieri altrettanto nefandi: «Se vincessi cosa penserebbe la gente di me? Siamo sicuri che io me lo meriti? Sono quel tipo di persona che ne ha diritto?».

È un’ansia intrisa di senso di colpa per il successo, è manifesta paura di rivelarsi un bluff. «Se ora vinco la gente mi tratterà come un vincente, si aspetterà che io vinca ancora, ma sarà in grado di farlo di nuovo?». Vincere comporta un cambiamento di status, crea nuove aspettative, e di conseguenza la possibilità di deluderle.

Ma l’ansia per la vittoria può essere motivata anche dal senso di colpa nei confronti degli altri, di chi non ce l’ha fatta o di chi, proprio a causa nostra, non ce la farà. Per vincere dobbiamo essere disposti guardare in faccia il nostro avversario e tollerare il suo dolore, il suo cocente senso di sconfitta, che potrebbe essere il nostro.

Molte squadre sul 4–0 smettono di giocare, per non umiliare l’avversario mentre altre continuano fino al 7–1, per una questione di “mentalità”. Lo scopo è desensibilizzarsi a quel sentimento che più di ogni altri nuoce a chi vuole vincere sempre, “senza guardare in faccia a nessuno”: l’empatia. Vincere, per chi è particolarmente empatico, per chi simpatizza con i perdenti ­– magari perché “sa bene come ci si sente” — può essere un processo doloroso.

Quando pensiamo a chi ha fatto del fallimento una missione dobbiamo pensare a quali vantaggi ne ricavi, perché anche chi perde sistematicamente segue il principio del piacere. Il masochismo puro non esiste, e la nevrosi di destino non sfugge al principio a cui soggiacciono tutte le nevrosi: il desiderio di minimizzare il dolore. Chi ama fallire può aver associato il successo a qualcosa di sgradevole e aver trovato nel fallimento la sua comfort zone. Magari se avesse successo ora non succederebbe più niente di male, ma perché rischiare?

Nella predilezione sistematica per il fiasco — quel tipo di problema, per dire, che può avere Adriano Leite Ribeiro ma non Cristiano Ronaldo — ci può essere anche la coazione a ripetere ovvero la «tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate». Una delle spiegazioni di questo fenomeno è il tentativo di mettersi volontariamente nelle stesse situazioni penose che in passato siamo stati costretti a subire. È quindi un modo, almeno a livello fantastico, per riacquistare il controllo in situazioni che erano fuori dalla nostra portata.

È quello che succede ad esempio, quando si cerca e si provoca il rifiuto altrui, pur di non sperimentare le conseguenze di un vero rifiuto. Quando si prova davvero a ottenere ciò che si desidera, e non lo si ottiene, si prova delusione. Se provi sollievo lo stai facendo sbagliato.

Decidere di fallire, quindi, può essere un modo per ridurre l’ansia legata all’incertezza. Se gioco per vincere potrei anche perdere, ma se gioco per perdere, quanto meno, so come andrà a finire e non ci rimarrò male.

Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che gli esseri umani sono soggetti, come topi e piccioni, ai principi del condizionamento classico e operante.

Gli esperimenti di Pavlov ci dicono che tanto più facciamo qualcosa, una cosa qualsiasi, tanto maggiori saranno le probabilità che la faremo anche in futuro. Si tratta, semplicemente, di abitudine. Se la cosa che facciamo più spesso è vincere continueremo a farlo, perché è questo che facciamo noi altri, vinciamo. Se invece siamo abituati a perdere, continueremo a farlo lo stesso, per tradizione, così come ci sono persone che a Natale fanno il presepe o iniziano la giornata con un’abbondante colazione.

Gli esperimenti di Skinner, in maniera complementare, ci dicono che tanto più che quello che facciamo viene premiato (nell’accezione più vaga che riuscite a immaginare) tanto maggiori saranno le probabilità che continueremo a tirare la leva della slot machine.

Di norma i premi vengono elargiti per le vittorie e, pertanto, da questo punto di vista, il contributo di Skinner può apparire superfluo. Ma come abbiamo visto è possibile ottenere ricompense di vario genere anche si perde (riduzione dell’ansia, dello stress, delle aspettative, del senso di colpa, della sensazione di essere un bluff; per non tacere dagli effetti relazionali, tra cui la riduzione dell’altrui invidia, ma anche accudimento, compassione e empatia). Tutti i vantaggi secondari di cui abbiamo parlato sin qui possono agire da rinforzi positivi. Se otteniamo dei vantaggi da una sconfitta, la prossima volta, statene certi, ci faremo un pensiero.

Non sappiamo quale di questi meccanismi era all’opera nella testa di Matthew Emmonds ma sappiamo che ad Atene, nel 2004, fece qualcosa di clamoroso:

Matthew era arrivato all’ultimo colpo della sua finale senza nemmeno dare il tempo di respirare. Gli bastava tirare il grilletto ancora una volta. Un colpo e avrebbe vinto il suo oro. Gli sarebbe bastato un punteggio mediocre, un 7. Quello stesso 8 che ho fatto ieri io, quando ho sbagliato, a lui sarebbe stato sufficiente per entrare dalla porta principale nella storia del tiro.

Ma qualcosa va storto anche per Matthew. La carabina fa venire il braccino anche a lui, e anche in questo caso Matthew sente un aumento del battito cardiaco.

Era in pedana, ha mirato una prima volta, poi ha abbassato la carabina, Il cuore era andato e aveva deciso di non rischiare. Nella finale c’è il tempo per mirare due volte. Così ha provato ad abbassare il battito respirando più lentamente, a recuperare la concentrazione. Il cuore sembrava avergli obbedito, si era calmato. Ha puntato di nuovo. Ha inchiodato il bersaglio al centro della sua diottra e ha sparato. Dieci. Tiro perfetto. Solo che invece dell’applauso automatico che il tiratore sente esplodere dagli spalti dopo un 10 che vale il biglietto per la storia, Emmons non ha sentito nulla. Un silenzio perfetto. Come se il poligono si fosse trasformato in una chiesa e il trionfo in un funerale. Il suo.

Aveva fatto 10, ma nel bersaglio della corsia vicina. La tensione gli aveva mandato il cervello in pappa e non si era accorto che stava mirando al bersaglio sbagliato. Zero punti. Dal primo era precipitato all’ottavo posto. Addio medaglia, addio storia.

Finora abbiamo raccontato delle storie che potrebbero avere spiegazioni molteplici, e ipotizzato cause che potrebbero essere plausibili, come non esserlo. Ma è difficile non chiamare in causa la psicologia quando hai un atleta olimpico che ha passato milioni di minuti della sua vita con una carabina in mano che centra il bersaglio di una corsia vicina. È l’equivalente di Usain Bolt che inizia a correre all’incontrario, di Michael Phelps che in una finale olimpica si mette a fare il morto a galla. Ed è per questo che la spiegazione di Campriani dice tutto quello che c’è da dire al riguardo: cervello in pappa.

In una ipotetica scala di 10 alle Olimpiadi, il suo è agli antipodi di quello di Nadia Comăneci che nel 1976, a soli quattordici diventa la prima ginnasta ai Giochi Olimpici a ricevere il massimo punteggio alle parallele asimmetriche. Le foto d’epoca dimostrano che al posto del 10 il display mostrò 1,00 perché i computer erano programmati per registrare votazioni fino al 9,99. Nadia ha soli 14 anni e non si rende conto dell’enormità di quello che ha fatto: «non avevo idea che fosse il punteggio più alto mai preso alle Olimpiadi, sapevo solo che era il punteggio più alto che si potesse prendere. Ero molto contenta, come quando a scuola prendi un 10 in matematica».

Ed è questo che fa la differenza tra Nadia Elena Comăneci e Matthew Emmons.

[embed]https://www.youtube.com/watch?v=57U7g9o6GEg[/embed]

Non solo e non tanto il fatto che nel 1976, nella Romania di Nicolae Ceaușescu, non vi fosse un equivalente semantico o concettuale di “braccino del tennista” o “ansia di vincere” o che negli Stati Uniti, come in tutte le democrazie liberali, l’unica cosa che conta è la responsabilità individuale, e ciascuno è chiamato a render conto a Dio e a se stesso dei propri fallimenti e dei propri successi.

Quello che conta è che la quattordicenne Nadia Elena Comăneci, alla sua prima Olimpiade, è del tutto inconsapevole di quello che sta facendo ed è quindi perfettamente concentrata sul come lo sta facendo. È, per usare una parola di gran moda, in uno stato di mindfulness, o per dirla con Mihály Csíkszentmihályi, di flow (flusso), perfettamente calata nell’hic et nunc.

[embed]https://www.youtube.com/watch?v=I3MWOO_HsZE[/embed]

Matthew Emmons, al contrario, nella nostra storia, è il millepiedi di cui parla Paul Watzlawick «al quale uno scarafaggio in tutta innocenza chiese come facesse a muovere le sue numerose zampette con tanta eleganza e fluida armonia: il millepiedi cominciò a pensarci e da quel momento non seppe più camminare» (Di bene in peggio. Istruzioni per un successo catastrofico, Feltrinelli, 1998).

La sua occasione per tornare a muovere le sue numerose zampette sono le Olimpiadi del 2008. E secondo Campriani, Emmons è tornato a camminare:

Le qualificazioni sono andate come tutti sapevamo sarebbero andate. Io sono uscito subito. Mentre Emmons ha cominciato a martellare il centro del bersaglio e si è ritrovato in finale rapidamente. Nessuno si è stupito, nemmeno gli avversari.

Anche la finale è andata in maniera prevedibile. Nove colpi fantastici che lo hanno proiettato nella situazione che tutti, e lui per primo, aspettavamo da quattro anni: un colpo solo, l’ultimo, a separarlo dall’oro e, dietro due avversari a un passo.

Matthew Emmons è ancora una volta davanti a una sliding door, una porta girevole, di quelle che se non stai attento ti ritrovi esattamente al punto di partenza. Campriani dice che il suo è uno sport particolare: «l’unico in cui più bravo è quello che usa di meno i muscoli, che li rilassa meglio […] dal punto di vista psicologico somiglia al tennis, ma nel tiro si rischia di impazzire molto più rapidamente: del resto è comprensibile, se in tre millimetri c’è la distanza tra un trionfo e un fallimento». I muscoli di Emmons, tuttavia, non sembrano molto rilassati e visti i precedenti, sarebbe strano il contrario.

Si vede dagli spalti che è teso. Si vede da come tiene la carabina, da come cerca di allentare il morso dei muscoli cervicali, con uno scatto isterico della testa, come a scacciare una mosca che torna per sempre […] I giudici danno il via al turno di tiro, ogni atleta deve sparare un colpo, l’ultimo. Il pubblico cinese ammutolisce. Un atleta di casa è secondo e un errore di Emmons varrebbe un oro per la Cina. Ma Matthew non ha intensione di fare regali stavolta. […] All’improvviso, uno sparo riempie il poligono. Pum. Come se qualcuno avesse sbattuto una porta. Emmons abbassa il fucile di colpo e si guarda intorno come a cercare chi abbia sparato al posto suo. Ma la risposta è: nessuno. È stato lui a sparare mentre prendeva la mira. Per errore.

Matthew Emmons non prende 10 come Nadia Comaneci, prende 4. Ed è per questo il suo nome nei risultati finali della XXIX Olimpiade, si trova solo in quarta posizione, fuori dal podio, mentre al primo posto, quello che vale l’oro, campeggia il nome di Qiu Jian, un atleta che in carriera ha partecipato a una sola Olimpiade, e ha vinto un unico oro. Un eroe per caso.

Non sappiamo come Matthew Emmons abbia potuto sopravvivere psicologicamente a tutto questo, ma a quanto pare ce l’ha fatta. Se cercate i risultati di Londra 2012, carabina 50 metri a tre posizioni, sul podio trovate due nomi che già conosciamo. Due atleti che, alla fine, hanno avuto la meglio non solo nel tiro a volo, ma anche in un’altra disciplina (non olimpica): la lotta al braccino. Matthew Emmons in quell’Olimpiade conquisterà finalmente il bronzo, e Niccolò Campriani il suo primo oro.

Forse stavolta è davvero la fine, ma con i braccini non si può mai dire.

Articolo a cura di Francesco Rende

--

--