Fermata Maracanã. Ricordi di Rio, città spirituale

Crampi Sportivi
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7 min readJun 13, 2014

Che cos’è il Brasile che apre le porte al mondo e ai Mondiali? Dopo il calcio d’inizio la vera gara è il descrivere questa nazione per noi esotica, avvolgente di musica e colori, straziante e affascinante al tempo stesso. Nessun articolo manca di definire il Brasile “paese di grandi contraddizioni”; nessuno tace che puoi trovare lusso e ricchezza a pochi passi da zone di squallida povertà. Anzi, a volte negli stessi passi. I passi di chi camminava per strada, quella mattina del 24 luglio 2013, quando atterrai a Rio de Janeiro. Ci sono stato solo una settimana, in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù. E ho vissuto solo Rio: nessuna pretesa di conoscere il Brasile. Però qualche scatto l’ho portato a casa, e soprattutto dentro.

Torniamo al 24 luglio. Mattina presto. Freddo. Sì, freddo. A Rio è inverno: non proprio rigido, appena spunta il sole si sta bene e le spiagge si riempiono come Mondello a Ferragosto. Ma se è coperto, tieni vicino il giubbotto. Quella mattina ci sono 8 gradi, mi diranno che è il giorno più freddo dell’anno. Le tv mandano solo due servizi: il Papa che arriva in città su una macchina d’ordinanza, e resta imbottigliato nel traffico (una scena che è diventata subito un manifesto ideologico); e la neve che cade nelle regioni del sud, dove molti non l’avevano mai neanche immaginata. Cammino per strada e lo spettacolo è strano, straniante. Ci metto un po’ a capire. Ci sono signori con cappotti, signore impettite con stivali e pure qualche pelliccia; ma camminano fianco a fianco, incrociano i passi con bambini, uomini e donne in calzoncini e infradito. Realizzo: chi se lo può permettere sfoggia capi invernali, ma tanti preferiscono (o devono) sopportare il freddo. Appena spunta il sole sono 25° e non vale la pena comprarsi le scarpe chiuse, per usarle due settimane l’anno.

Le “grandi contraddizioni” di Rio, del Brasile intero, sono queste. Sono la spiaggia di Ipanema, un paradiso, solo alberghi cinque stelle e sabbia fine fine, e laggiù, al termine della spiaggia, appena la terra si alza in un promontorio, una favela appollaiata.

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Le favelas sono tutte così: macchie di colore, come un quadro degli impressionisti, solo che l’impressione è tagliente, acida, ingiusta.

Lo stesso pomeriggio di quel 24 luglio, la Festa degli Italiani è al Maracanazinho: il palazzetto di fianco al grande, storico, unico Maracanà. Farfalle nella pancia quando il metrò si arresta alla fermata dedicata: Maracanã. Lo stadio è sulla sinistra, ma non si vede subito. Si scende dalla metro dal lato destro, in un tratto scoperto. Alzando gli occhi questo è lo scenario.

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Una grande favela poggiata sulla montagna. Una delle tante, come quella di Ipanema, come quelle che spesso sbucano dietro un palazzo, in fondo a una strada, sul fianco di uno dei mille rilievi che affollano Rio. Poi ti volti a sinistra, e lo scenario è immediatamente questo.

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Eccolo il Maracanã, lo stadio che gronda leggenda, la Finale del ’50 e chissà quante pagine di storia del futebol carioca. Oggi è un impianto modernissimo da quasi 100.000 posti. Intorno vie pulite, un quartiere “bene”. Senti come uno stridore di freni nelle orecchie, anche se il treno è già partito da un pezzo. Da una parte la comodità, l’agiatezza e la gioia, dall’altra quel mosaico casuale e disordinato di case che comunicano solo la difficoltà della vita. E sono lì, a poche centinaia di metri l’una dall’altra, divise solo da un treno che passa.

Sono scatti di un anno fa. Magari intanto (dubito, se hanno fatto appena in tempo a ultimare la costruzione degli stadi) la favela è stata rimossa. Ce lo dirà, forse, chi è là. Intanto le immagini dicono tutto da sole. Volendo fare un ragionamento, la pancia suggerisce che i soldi spesi a sinistra, per quel tempio della passione e del divertimento, potevano essere destinati a destra, come sembrerebbe logico, come viene voglia di urlare con rabbia. Ma sarebbe riduttivo. Grandi eventi richiedono grandi investimenti, ma di solito portano maggiori ricavi. E per risolvere il problema delle favelas non bastano soldi una tantum. Servono istruzione, servizi, investimenti a lungo termine. La speranza, la richiesta, la preghiera è che grazie anche ai Mondiali (e alle Olimpiadi, che invaderanno Rio tra due inverni) tanti uomini e donne delle favelas possano trovare occupazione, un salario degno, possano avere la possibilità di costruire per sé e per i propri figli quell’insieme di benessere e cultura che serve per abbandonare la miseria.

Ma la sensazione dei brasiliani è che tutto questo non succederà. Per questo scendono in piazza e protestano. Me lo ha spiegato, una mattina di sole, una ragazza che girava un video. Invitava i pellegrini della Giornata Mondiale, due milioni da tutto il globo, a dire ciascuno nella propria lingua «Vem pra rua», ovvero «Venite nelle strade». Un invito ai brasiliani a manifestare, perché gli eventi sportivi di questi anni, argomentava, sono e saranno un immenso spreco di risorse; e intanto la popolazione manca dei servizi minimi. «Cosa ci facciamo di uno stadio come quello di Manaus (dove esordirà l’Italia, ndr), un impianto da 44.000 posti in una città che non ha squadre professioniste? Servirà per fare bella figura al Mondiale, poi rimarrà inutilizzato». Spese ingenti, mentre sul versante assistenziale la situazione dei brasiliani è complessa: sempre l’amica mi racconta che «istruzione e sanità sono il vero, grande problema. Quasi tutte private. Se vuoi curarti, devi pagare. Se vuoi avere una formazione dignitosa, non puoi rivolgerti a una struttura statale. I soldi per potenziare questi servizi essenziali non ci sono, ma per costruire stadi dove non servono, si trovano». Una sola fonte non è mai certezza di verità, né sette giorni soli in una città, come detto all’inizio, possono valere come pretesa di conoscenza. Ma ogni volta che leggevo di manifestazioni e proteste, durante quest’anno premondiale, ripensavo agli 8° di quel 24 luglio e alle infradito che camminavano insieme alle pellicce. Ripensavo alla fermata Maracanã: se un brasiliano sale su quella banchina, guarda a destra e poi a sinistra, come può non sentire il disagio? E come possiamo noi, che ci godremo un Mondiale spettacolare dai comodi divani, non essere con loro?

Un’ultima istantanea di Rio de Janeiro. La città dall’alto, dal Cristo Redentore sul Corcovado. Balotelli, quel mattacchione, la vede (o si augura di vederla) così:

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Io, invece, l’ho vista così alle 8 della mia ultima mattina a Rio.

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A destra, la spiaggia di Copacabana. Quel golfo lì davanti è Botafogo, il quartiere dove abitava Seedorf (Clarence, ma chi te l’ha fatto fare di tornare nella nebbia?). In mezzo alla baia il Pan di Zucchero, l’isolotto caratteristico. Nel mezzo la città, labirinto calviniano e inestricabile di strade e vicoli, case basse e grattacieli, insenature e rilievi.

Il Maracanã è sulla sinistra, nella metà di metropoli che non compare nella foto sopra. Lo intravedete qui sotto, con a fianco il Maracanazinho. Alle spalle la foresta, che sembra far colazione in questa immensa ciotola.

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Una settimana a Rio mi è servita per capire che in questa città dovevo liberarmi dei miei schemi mentali di cittadino europeo, e adattarmi a un’altra idea di città, di vita, di mondo. Dove non c’è tensione se sei in coda al chiosco dei panini, perché tranquillo, uno per uno serviamo tutti, e se metti fretta fai solo confusione. Dove appena ti fermi a un incrocio, insicuro della strada, a guardare la cartina, arriva qualcuno che ti sorride e ti chiede se hai bisogno di una mano. Dove la povertà non si nasconde, non puoi vivere nell’agiatezza senza essere colpito dalla miseria e dal degrado.

Il panorama dal Corcovado è pazzesco, lo spettacolo più incredibile che abbia visto nella mia limitatissima esperienza. Ma è anche l’unico punto di vista da cui si può comprendere Rio. È una città spirituale e per capirla bisogna elevarsi. Da lassù, nude e finalmente svelate, stanno davanti tutte le bellezze, tutte le contraddizioni. Da terra non si capisce nulla, un groviglio misterioso. Dall’alto si gode Rio nella sua inordinabile armonia.

Gioele Anni, da piccolo sognava di fare il calciatore per andare ai Mondiali. Ora sogna di fare il giornalista per andare ai Mondiali. Quasi milanese e tutto milanista, mancino incompiuto attualmente in trasferta a Roma: l’unico giallorosso è quello dell’Amatori Hockey di Lodi. @gioeleanni

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