Finale

Crampi Sportivi
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13 min readJul 13, 2014

Recuperare Messico ‘86

Argentina vs West Germany

A voler fare gli alternativi si potrebbe azzardare che spesso la finale dei Mondiali non sia questo granché. Anzi, forse si tratta della parte narrativamente più povera di tutta la manifestazione, in quanto di fatto il mondo smette di essere protagonista e diventa prevalentemente spettatore.

Ok, TUTTO il mondo lo diventa e questo rende l’evento speciale, c’è anche la tensione dei candidati al titolo per l’importanza storica del passo e le analisi tattiche e via dicendo. In un mondo in cui il tempo non esiste davvero sarebbe però bello poter raccontare i Mondiali partendo dalla fine come in una serie tv, e ricostruirne a ritroso le sottotrame, gli spin off e i momenti salienti senza soluzione di continuità tra piacevoli o spiacevoli, tra nobili e poveri, epici e grotteschi, in un climax che conduca alle aspettative iniziali delle nazionali minori, oltre a dipanare l’esito annunciato della finale.

Il gol di Cahill insieme al morso di Suarez, le parate di Ochoa e i leoni del Camerun che screziano in campo, tutto insieme come in un incrocio tra Guerra e Pace, la Storia Infinita e True Detective. Magari con il mondo reale che bussa fuori dalla porta ogni tanto, sullo sfondo, come nella parte su Cuba del secondo atto del Padrino.

La finale è un po’ il requiem di tutto questo, è appannaggio dei vincitori e degli sfidanti, i quali perderanno ma comunque condivideranno un podio. Certo c’è la possibilità di belle narrazioni: se vincesse Messi si direbbe che finalmente è come Maradona, se perdesse si direbbe che non lo sarà mai, di contro ci sarebbe l’apoteosi della grande Germania trita-avversari allenata dalla Merkel, oppure l’analisi della sconfitta del colosso europeo per mano delle nuove economie sudamericane con-una-mano-davanti-e-l’altra-dietro.

Fatto sta che non è più una storia del mondo, è un dialogo tra vincitori con il mondo come palcoscenico e platea al contempo. E’ la solita storia: tra italia-Germania 4–3 e Brasile-Italia 4–1 si ricorda più la prima, e non certo perché abbiamo perso malamente. Lo stesso vale per Italia-Germania 2–0, a scapito di Italia-Francia vinta ai rigori. Con buona pace della Germania che ci va sempre di mezzo, ma che almeno stavolta ha il 50% delle possibilità di consolarsi.

Il mio primo Mondiale, Messico ’86, non lo ricordo perché avevo un anno e mezzo e mi pare chiedere troppo a un commentatore sportivo, Buffa a parte. Mi ha detto male, perché mi sono perso un grande pezzo di storia del calcio, per giunta con elementi epici e grotteschi insieme, con il gol degli 11 tocchi e la mano de dios. Per il resto ho visto 6 finali, di cui le tracce più profonde rimaste sono i fischi all’inno argentino, la testata di Zidane, il rigore sparato in alto da Baggio e il ciuffo a mezzaluna di Ronaldo, tutti blackout, paragrafi di assenza di calcio di cui rimangono solo i vincitori sugli annali. Poca roba.

Stavolta sarebbe bello assistere a una finale degna della ricca partenza di un mese fa. Il ritmo della pellicola lo richiede anche, dato che l’inizio è stato pirotecnico e il prosieguo deprimente, con tutta quella serie di 0 a 0 decisi ai rigori. Il Brasile, come tutti i padroni di casa messi all’angolo dal senso di responsabilità, ha dovuto inventarsi un modo per ravvivare il party, ora non ci rimane che “Messi and friends vs. la nazionale più forte del mondo al momento”. Prevedibile, no? Perciò, a meno di sorprese, il meglio è già passato.

Smentitemi, fatemi recuperare Messico ’86.

Simone Vacatello

Giocare col senso della Storia

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Anche voi vi sarete sbilanciati sull’esito di questa finale. Avrete detto: “Per me vince la Germania”, se non altro per incassare qualche bigliettone al centro scommesse dietro casa. Se però consideriamo Germania-Argentina un vero e proprio evento storico è necessario trasformare l’intuizione in scienza e applicare certi modelli matematici alle dinamiche storiche per avvicinarci al risultato. Una cosa molto complicata, che un sovietico sovversivo fuggito negli Usa a metà degli Anni Settanta, Peter Turchin, ha chiamato cliodinamica. Non arriveremo a tanto, per carità, ma proviamo a fare alcune, brevi riflessioni.

L’Argentina che ha vinto nel 1986 — oltre ad avere Maradona — stava uscendo dall’incubo della dittatura del generale Videla, era una nazione alla ricerca di un riassetto e di un riscatto, di una primavera democratica. C’è un’immagine che ben racchiude il senso di quel periodo: Maradona che porta la Coppa al presidente Raul Alfonsin, due esponenti di una nuova libertà. Di passione, di espressione. C’era negli argentini un desiderio di successo più forte che nei tedeschi, lo stesso che oggi, sull’orlo del fallimento, potrebbe spingere l’Argentina a mettere le mani sulla Coppa. Nel ’90, invece, è la Germania ad alzarla. Al Mondiale italiano la nazionale tedesca è quella dell’Ovest, ma a livello politico — e di spirito — è di tutti. Sono anni difficili. La gente è impaziente, chiede cambiamenti. Nuove possibilità. La prospettiva di una riunificazione, culminata poi con Gorbacev, era cominciata qualche anno prima, dalla metà degli anni Ottanta, e deve essere stato quel sentimento di unione e forza a contagiare l’euforia della Nazionale di Beckenbauer, che alla fine ha vinto. Oggi la Germania è una potenza, c’è in tutti i tedeschi una grande sicurezza, una consapevolezza spaventosa, e — chissà — magari controproducente.

Coincidenze? Forse. L’influenza della storia c’è, e avrà il suo peso anche nella finale di Rio de Janeiro. C’è poi un altro fattore, psicologico, che potrebbe indirizzare il risultato. Si chiama “coazione a ripetere”, l’ha inventata Freud. E’ un caso che il Brasile abbia organizzato due Mondiali in casa e per due volte abbia subito un trauma? Il Maracanazo del 1950 deve avere evidentemente lasciato una traccia, una traccia a livello inconscio, riemersa fino a quel tragico 7–1 in semifinale, che tutti abbiamo visto. I giocatori dell’Argentina sono nati tra il 1980 e il 1989 (tranne Marcos Rojo, che è del ’90) ed è plausibile credere che abbiano vissuto un’infanzia sportiva condizionata proprio dalla sconfitta a Italia ’90 contro la Germania. Alla nostra generazione era successo a Usa ’94, con i rigori di Baggio e Baresi. Poi, un giorno, arriva una motivazione più forte, un fangoscommesse da ripulire, un Fabio Grosso qualunque. La Storia ripercorre le fila di un qualche passato glorioso. E i blocchi dentro la testa mutano in forze. Fino alla prossima delusione.

Giorgio Burreddu

Sabella, l’antieroe

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Se c’è una cosa che ci ricorderemo molto a lungo di questi mondiali è la “quasi caduta” di Sabella: un gesto situazionista in una partita di calcio, Charlie Chaplin che incontra Lionel Messi. Sabella ha davvero poche possibilità di non diventare “quello scemo nel Vine più divertente (per distacco) del mondiale”. La sua unica via di salvezza è vincere il Mondiale. La vittoria per lui avrebbe un valore non solamente migliorativo, ma addirittura evolutivo. La figura di Sabella, infatti, non possiede assolutamente nessuna delle caratteristiche che definiscono un grande allenatore, un allenatore che va a giocarsi la finale di un mondiale. Sabella è un antieroe ( nel senso che si trova calato in un contesto eroico ma mantenendo un aspetto decisamente reale). Non che sia un personaggio negativo, anzi, fa pensare al buon soldato Sc’vèik, un personaggio assolutamente positivo che però difetta di quel pizzico di hybris che un ruolo come quello del C. T. richiederebbe; quando azzecca una decisione sembra averlo fatto, più che per meriti tattici, per delle non meglio precisate competenze umane.

Dal 1994 al 2009 è stato un vice, quindici anni da Sancho Panza che può togliersi di dosso solo vincendo la settima partita. C’è una scena che spiega bene chi è Sabella: lo si vede in piedi a bordo campo mentre da indicazioni, la partita è Argentina — Nigeria e i suoi stanno vincendo per 3 a 2, quando davanti a lui passa Lavezzi. Ha in mano una borraccia e sta bevendo, guarda dritto davanti a sé come perso nei suoi pensieri, quando a un tratto, senza neanche guardarlo, spruzza un getto d’acqua in direzione della faccia del Sabella concentrato e concitato. Il telecronista ride di cuore, come appunto se fosse una scena di un film slapstick , Sabella compie una sola piccola contrazione del viso come quasi volesse bere l’acqua che gli sta arrivando addosso, Lavezzi invece continua la sua vita come se nulla fosse, come se il suo gesto fosse perfettamente normale, inserito in un contesto di amici al mare.

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Nelle sue scelte troviamo cose buone e meno buone, ma tutto sempre sottotono come quasi del tutto casuale. Seguendo il principio di Antoine-Laurent de Lavoisier per cui nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” il lavoro di Sabella fin qui è sembrato un eterno cucire e scucire una tela che neanche lui ha ben chiaro da dove fosse arrivata.

Ha iniziato con un 3–5–2 che teneva fuori Higuain e lasciava una difesa a tre composta da Fernandez — Garay — Campagnaro, con Zabaleta e Rojo esterni, una cosa che fa paura solo a pensarla. Il primo tempo di quella partita l’ha finito in vantaggio, più per fortuna che per meriti, ma ha subito avuto il coraggio di cambiare, sostituendo Maxi Rodriguez con Higuain e Campagnaro con Gago per costruire un 4–3–3 da palleggio. Ha saputo cambiare dimostrando di non avere quell’arroganza di un certo tipo di allenatore (un tipo vincente a dir la verità) per cui le proprie scelte sono universali e insindacabili. Il 4–3–3 gli ha dato le vittorie, l’infortunio di Aguero e poi quello di Di Maria hanno trasformato il 4–3–3 in una specie di 4–4–2 mobile in cui Lavezzi fa l’esterno di centrocampo da una parte e Enzo Perez dall’altra (entrambi fuori ruolo) per permettere a Messi di agire tranquillamente alle spalle di Higuain senza disturbarsi troppo della realtà che lo circonda. Ha iniziato con Gago, finirà con Biglia. Ha puntato su Fernandez, lo ha portato qui De Michelis. Anche il modo in cui Sabella ha trattato Messi è indicativo: la scelta di tenere a casa Tevez, controparte cattiva di Messi, pare sia stata una sua richiesta. Gli ha dato la fascia da capitano, anche se questi mondiali hanno reso evidente che il capitano dell’Argentina è Mascherano, troppo lo scarto tra i due a livello di leadership, Mascherano è la definizione stessa di capitano: allena in campo, richiama i compagni, è una presenza costante all’interno della gara. Se avesse stretto la mia di testa tra le mani dicendomi “hoy vos te convertís en Héroe” li avrei parati anche io un paio di rigori. Eppure Sabella ha scelto Messi e Mascherano l’ha ripagato giocando da miglior centrocampista del mondiale.

Le sue scelte, dicevamo, sembrano mancare di un ragionamento logico. Sembrano rispondere ad una mitologica “saggezza contadina” dell’arrangiarsi con quello che viene, come se Sabella stesse tirando fuori il meglio da un terreno poco fertile.

C’è un personaggio di Osvaldo Soriano, uno che avrebbe raccontato Sabella divinamente, che gira per la Pampa argentina tentando di vendere una doccia portatile, è un personaggio povero e assolutamente disperato che si porta appresso un progetto evidentemente insensato. Esemplifica l’idea di andare avanti sempre e comunque, oltre il fallimento, ipoteticamente, oltre la Germania.

Marco D’Ottavi

Il mondiale di Leo Messi

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Ciò che rende così intensi e significativi i campionati del mondo è il fatto che si giochino ogni quattro anni. Un calciatore gioca da professionista mediamente quindici anni e, se riesce a mantenersi ad alti livelli, avrà la possibilità di giocare almeno due mondiali. Lionel Messi è già al suo terzo e forse ne giocherà un quarto ma, probabilmente, la fase migliore della sua carriera può dirsi conclusa.

Solitamente i calciatori hanno un solo campionato del mondo da giocare al vertice della propria condizione tecnica e fisica e per Lionel Messi si è trattato del mondiale in Sudafrica del 2010.

L’anno prima, nel 2009, aveva segnato 38 gol in 53 partite, segnandone uno di testa nella finale di Champions League contro il Manchester United. La partita che celebrò il momento zenitale del dominio del Barcellona nel calcio mondiale e nel quale Messi era il sole, il polo gravitazionale imprescindibile.

La stagione successiva, quella che precede il mondiale, si spinge fino alle quasi 50 reti in 53 partite. Ad aprile, nella partita di ritorno dei quarti di Champions League, segna quattro gol all’Arsenal, vincendo la partita da solo.

È in queste condizioni che Messi arriva in Sudafrica: col dieci sulle spalle, uno strapotere tecnico di cui ancora non si conoscono i limiti e l’idea fondata che possa definitivamente sedere alla destra di Diego.

Nel 2010, ai quarti di finale contro la Germania, l’Argentina ci arriva come la squadra che ha segnato il maggior numero di reti: 10 (già due in più di quante ne ha fatte in questo mondiale); ne hanno segnate 4 Higuain, 3 Tevez e una persino Martin Palermo. Messi ha segnato zero gol.

Contro la Germania l’Argentina prenderà gol da Thomas Muller dopo tre minuti. Nel primo tempo Messi ha due occasioni: una punizione da meno di 25 metri che tira sugli stinchi della barriera; un tiro dal limite dell’area che si è guadagnato con un dribbling secco su Schweinsteigger: lo spara alto di almeno dieci metri dalla porta. Subito dopo fa un’espressione di estremo disagio, mentre il pubblico si lascia andare ad uno strano brusio e Maradona (all’epoca ct) a una rabbia che non prova neanche a mascherare.

L’Argentina è una squadra fortissima nelle individualità ma del tutto disunita: prenderà quattro gol da una Germania molto simile a quella che dovrà affrontare stasera.

Da quel momento in poi la dimensione di Messi è sembrata essere legata a doppio filo con la grandezza del Barcellona; come se quel mondiale avesse sancito la sua incapacità di affrancarsi da un ambiente molto chiuso, sicuro e particolare come quello blaugrana. Come se non avesse avuto la capacità di elevarsi fino ad assumersi le responsabilità che la storia gli ha consegnato: portare l’Argentina al trionfo mondiale.

A partire da lì il significato della storia di Lionel Messi, la sua grandezza, ha dovuto rinegoziarsi con questa idea.

Come spiega bene Jonathan Wilson in questo magnifico articolo, Messi non è — anche a causa del suo rapporto con la nazionale — un giocatore così amato in Argentina. Non è el pibe, il giocatore del popolo. Quel posto lo occupa Tevez: “Maybe technically Messi is better, but Tevez …” She patted her heart. “Tevez has spirit, and in the biggest games you need spirit.”, gli ha detto un tassista argentino. Messi è piuttosto un figlio nobile ma ingrato. Che dalla madre argentina ha ricevuto l’elezione, le stigmati delle doti trascendentali del diez senza saperle sopportare. Senza averne le capacità morali, la garra.

Messi, del resto, è una sfinge. È sempre perfettamente piatto e abulico nella comunicazione col mondo esterno: come se vivesse in un universo mentale asfittico e incomprensibile. La cosa è talmente evidente che alcuni hanno iniziato ad insinuare una sua sindrome autistica.

Anche in campo Messi sembra un’entità particolare: si spegne facilmente, non ha guizzi espressivi, fa cose incredibili da un momento all’altro, senza suggerirne mai il segnale. Sembra quasi astratto dallo scorrere degli avvenimenti che lo circondano.

Messi ha un modo veramente personale di esserci-nel-mondo.

Per questo i suoi pianti nella partita contro l’Iran hanno avuto il significato di una rottura, di uno scioglimento rispetto al rapporto con la sua gente. Che è tornata a coccolarlo. Non gli tributa certo i mantra incessanti che si possono apprezzare al Camp Nou, ma ha iniziato a credere seriamente in lui, alla possibilità che possa ripagare il suo debito.

Ma c’è un paradosso in questa storia. Messi è arrivato a giocarsi la finale della coppa del mondo nel momento di maggiore involuzione delle sue capacità.

Non si riesce a capire qual è il piano entro cui leggere questa sua involuzione: se mentale, fisico, motivazionale.

Come ha ben sottolineato qui Valentino Tola, da almeno un anno e mezzo Messi ha perso la capacità di essere incisivo a tutto campo, in quasi tutte le situazioni offensive della propria squadra. Tende a impigrirsi su una mattonella, da dove raramente parte per essere decisivo.

Sembra in difficoltà a rincorrere l’idea di sé stesso. Contro l’Olanda sono bastate delle marcature attente e del pressing ben fatto per tenerlo ingabbiato nella zona di campo dove non può essere decisivo.

Maradona in proposito ha detto: “L’unica paura che ho è che sia un po’ stanco, l’ho visto respirare con molta difficoltà l’altra sera, ma penso in finale non potrà giocare così. Lui lo sa, e comunque glielo ricorderanno Mascherano e il Pocho Lavezzi…”. In qualche modo sottolineando — implicitamente — come Messi non sia del tutto in grado di trovare in sé stesso, da solo, le motivazioni.

Nonostante questo Messi rimane il calciatore che fisicamente ha portato — almeno a livello di gol — l’Argentina in finale: con quattro gol e un assist Leo ha inciso nel 66% dei gol dell’Argentina. Che però sono stati pochi, solo otto.

L’insieme di questi elementi traccia un quadro piuttosto indecifrabile del mondiale di Lionel Messi. È evidente quanto non riesca ad essere davvero Messi, ma allo stesso tempo non smetta di fare cose à la Messi e ad essere decisivo per la propria squadra.

La domanda allora è inevitabilmente questa: come sarà ricordato il mondiale di Lionel Messi nel caso in cui l’Argentina vinca questi campionati del mondo? riuscirà a ritagliarsi nell’immaginario collettivo un posto simile a quello di Diego Maradona?

Maradona è soprattutto Messico ’86. Non è né Spagna ’82 né Italia ’90. Il mondiale in cui Maradona è arrivato al vertice della propria condizione tecnica è stato Messico ’86.

In quel periodo c’erano altri due fenomeni del calcio mondiale: Michel Platini e Zico; nessuno dei due, per motivi diversi, arrivò bene a quei mondiali.

Si erano create le condizioni perché il Messico diventasse un enorme palcoscenico allestito solo per Diego; che dal canto suo si presentò col piglio di uno che voleva mettersi al centro della scena per non uscirne mai più.

Il mondiale di Maradona fu così luminoso che oscurò il resto dell’andamento della competizione. Cosa ricordiamo di quel mondiale? La vittoria dell’Argentina in finale contro la Germania (gol di Valdano, Burruchaga e Brown) o i tre minuti di Argentina Inghilterra nei quali Diego Maradona scrisse un manifesto di arte pallonara?

Cosa comunicò quel mondiale?

Maradona fu talmente grande che fece dimenticare al mondo che il calcio è un gioco di squadra: comunicò la supremazia dell’individuo sul collettivo. Comunicò che la storia — in poche parole — la scrivono gli eroi. Che le partite di Cuciuffo e Ruggeri non le ricorderà nessuno; che il destino di Giusti, pendolino della fascia destra albiceleste, è quello della menzione, non del ricordo.

Il ricordo è solo Maradona che passa luminoso, etereo, imprendibile in mezzo a una sterminata selva di gambe inglesi. Neanche la coppa, ma il gesto.

A Messi quindi non basterà essere decisivo, dovrà essere spettacolare, maestoso. Dovrà offrirci azioni che da sole valgono narrazioni. Non bastano i gol dalla mattonella — quattro, tutti uguali — che ha già segnato.

Servirà un’opera d’arte in grado di segnare il destino di una finale, dovrà riuscire a conciliare la perfezione estetica e la teleologia della vittoria.

Messi non è nelle condizioni fisiche e tecniche per poterlo fare, ma ha novanta minuti per andare oltre sé stesso e farlo: trovare un guizzo, solcare l’immaginario storico, dare un senso regale alla propria parabola calcistica.

Emanuele Atturo

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