Finalmente il Sei Nazioni

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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6 min readFeb 4, 2017

“Gli inglesi giocano a rugby perché l’hanno inventato, gli scozzesi lo fanno perché odiano gli inglesi, i francesi lo fanno perché vogliono imitarli e gli irlandesi perché amano le risse. Ma i gallesi no, i gallesi giocano a rugby perché su un campo sono nati oppure sono stati concepiti”.

E l’Italia? Nessuno è riuscito a trovarle una collocazione, ma quella che resta il miglior tentativo per spiegare l’amore che la seconda terra mondiale del Dragone (il Galles, non la Cina) prova per la palla ovale è anche la citazione che per un secolo ha delineato il folklore del torneo di rugby più conosciuto del mondo.

Il Sei Nazioni non è infatti soltanto la manifestazione che mette opposte le nazionali più forti dell’emisfero nord, ma è anche l’appuntamento più conosciuto e atteso anche da parte di chi non mastica rugby per il resto dell’anno. Nonostante un giro di affari di 500 milioni a edizione, e un indotto di 50 milioni per ognuna delle sei capitali che ospitano ogni anno da un minimo di due partite a un massimo di tre, sono pochi i tornei mondiali che hanno conservato lo stesso fascino e la stessa tradizione da quando, nel 1887, si giocò per la prima volta quello che assunse il nome di Home Championship.

All’epoca partecipavano soltanto le quattro nazionali del Regno Unito, compresa l’Irlanda, quando non aveva ancora dato il via alla rivolta per l’indipendenza e quando, sessant’anni prima, uno studente ribelle della Rugby School, durante una partita di calcio, afferrò il pallone con le mani e lo portò oltre la linea di fondo del campo. Si chiamava William Webb Ellis, la Coppa del Mondo porta il suo nome e oggi la sua figura è avvolta in un alone di mistero e leggenda. Da alcune ricerche condotte nell’ateneo inglese sembra che questo Webb Ellis non sia mai esistito, ma gli appassionati della palla ovale non vogliono crederlo, e non passa giorno in cui non venga ringraziato per il suo gesto di ribellione durante quel match di football. Oggi, anche se ha chiuso definitivamente ogni vincolo con la Corona, l’Irlanda del rugby continua nella sua unicità.

In una terra di divisione politica come l’Isola di San Patrizio, la federazione e la nazionale di rugby è unica e rappresenta entrambi i territori; si tratta di un esempio unico nel suo genere. Di acqua sotto i ponti ne è passata da quel 1887, quando le partite non erano altro che esibizioni e a stilare classifiche di rendimento pensavano i giornali. Un primo tentativo di regolamentare il torneo fu fatto nel 1910, quando l’ingresso della Francia portò la denominazione di Cinque Nazioni: identità mantenuta fino al 2000.

L’arrivo dei Galletti coincise però con uno dei più grandi grattacapi del rugby della prima metà del Novecento, cioè la lotta al professionismo. Quando il board scoprì che i Blues avevano con loro giocatori pagati, votò per l’esclusione dell’ultima arrivata. Per origine la palla ovale doveva essere praticata per passione, non per denaro. Un grande problema che causò non pochi problemi anche in Inghilterra. Di stampo collegiale, il rugby era la disciplina dell’aristocrazia e della classe borghese, e quando questo si affacciò al proletariato (soprattutto quello del nord), questi volevano essere retribuiti per la perdita di un giorno di lavoro per la disputa della partita.

La loro richiesta non venne accolta, e così proprio dal nord arrivò la più grande scissione di questo sport, con la nascita del rugby a XIII: un formato che si giocano chiaramente con due uomini in meno ma che presenta peculiarità molto più vicine al football americano piuttosto che al rugby, a differenza di quanto tanti pensino. In ogni caso, dal 1940 al 1947 il giocò si fermò per la Seconda guerra mondiale salvo poi riprendere nel 1948. Il resto è storia, con 37 affermazioni dell’Inghilterra, 37 di Inghilterra e Galles, 25 della Francia, 22 dell’Irlanda e 21 della Scozia, che però non sale sul gradino più alto del podio dal 1999.

L’Italia ha fatto il suo ingresso nel 2000, quando due storici successi su Irlanda e Francia convinsero gli organizzatori del torneo ad allargare la partecipazione agli Azzurri. L’ingresso del professionismo e un fatturato che si faceva sempre più gola fu il vero escamotage per lo sbarco del Sei Nazioni sul suolo italiano; serviva una sesta squadra per non lasciare ogni week-end una nazionale ferma ai box, e quello italiano era un mercato troppo ghiotto per lasciare da parte quei ricavi.

Dal canto nostro, non è che in Italia la palla ovale fosse una scienza misteriosa. Arrivata negli anni ’20, il primo promotore per la sua diffusione fu Benito Mussolini, che vide nel rugby uno sport di combattimento per forgiare cameratismo e spirito del balilla. Gli italiani di ritorno dal Regno Unito fecero poi la loro parte, esportando nella Penisola quel gioco che al di là della Manica praticavano soprattutto nei college.

Come da costume, alla prima sconfitta nel Sei Nazioni 2017 ci si interrogherà sul perché l’Italia non riesca a essere competitiva e sul fatto se valga la pena o no la sua partecipazione al torneo. I praticanti dal 2000 a oggi sono aumentati di oltre il 200%, raggiungendo la quota di 100mila. Il fatturato della Federazione, se pur lontano dai 190 milioni di euro di quella inglese e dai 107 di quella francese, produce almeno 40 milioni ad esercizio, poco meno rispetto alla Scozia e la metà dell’Irlanda. Quali sono allora i problemi che attanagliano il rugby italiano?

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La differenza con le big, europee e meno, è la mancanza di diffusione delle scuole e l’assenza di società trainanti nei grandi centri urbani. Nel Regno Unito e in Francia il rugby vive la sua massima diffusione negli istituti scolastici, attraverso i quali allo studente è garantita la pratica oltre allo studio. In Italia non solo siamo ancora lontani da questo formato, ma nei nostri istituti si fa ancora la guerra tra i libri e la pratica sportiva, e dopo i 16 anni lo studente è messo davanti al bivio: proseguire la carriera scolastica o quella sportiva, come se queste non potessero coincidere.

Un altro grande problema riguarda la diffusione del rugby nei centri urbani. Fatta eccezione per città come Parma e Treviso, che oggi ospitano club professionistici e competono in un campionato internazionale con società gallesi, scozzesi e irlandesi, il campionato italiano — lontano dall’interesse delle televisioni e dagli investimenti dei grandi sponsor — i centri di massima diffusione della pratica, sviluppati a macchia di leopardo, ha in comuni come Calvisano, Rovigo, Viadana e Mogliano il suo epicentro. Si tratta cioè di un solo capoluogo di provincia (da 50mila abitanti tra l’altro), e di piccoli paesi da non più di 10mila unità. Difficile fare guerra a capitali come Cardiff, Dublino, Londra, Parigi ed Edimburgo quando tra bacini d’utenza non c’è storia.

Negli ultimi anni, nazionali progredite come Romania e Georgia hanno iniziato a bussare alla porta del board del Sei Nazioni per chiedere una chance per dimostrare il proprio valore, e di questa se ne sta discutendo parecchio. Quale sarà dunque il torneo del futuro? Otto nazionali, formato sempre da sei con una retrocessione della Nazionale che arriva ultima l’anno precedente? Difficile dirlo, ma per un’esclusione dell’Italia servirebbe un voto unanime da parte del governo centrale del torneo.

Difficile dunque vedere un’autoesclusione azzurra. E un altro motivo per il quale difficilmente perderemo la permanenza lo ha chiarito due anni fa l’Irish Examiner, e riguarda gli sponsor. “Roma non è Bucarest e nemmeno Tbilisi”, sottolineando come la volontà della RBS, main-sponsor del torneo, sia quello di continuare a sfruttare a pieno le capacità del mercato italiano, che non è sicuramente quello georgiano e romeno. I partner azzurri sono oggi Adidas, Peugeot, Peroni, Cariparma, Edison e Reale Mutua: difficile pensare che marchi come questi permettano l’esclusione dell’Italia.

In questi giorni il mantra che ha accompagnato la preparazione dell’Italia è stato “questa volta andrà in modo diverso”. Merito di un nuovo corso tecnico capace di riportare ottimismo e fiducia. Il volto nuovo del rugby azzurro è il ct Conor O’Shea: irlandese di nascita e reduce da una lunga esperienza in Inghilterra, O’Shea è sbarcato in Italia con uno staff tecnico di tutto rispetto e con una grande esperienza internazionale. L’impressione, dopo anni di delusioni, è che finalmente la nostra Nazionale potrà rendersi davvero protagonista di un Sei Nazioni diverso rispetto a quello visto in questi anni. Per riflettere cosa accadrà c’è tempo, ora l’Europa del rugby si ferma per assegnare la 123° edizione di uno dei tornei più antichi del mondo.

Articolo a cura di Andrea Dimasi Imbardelli

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