Finché morte non ci separi

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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7 min readAug 25, 2016

C’è una fotografia che appartiene più che a chiunque altro allo storia di Roberto Duran. Si tratta di un’immagine che varca le dimensioni del tempo e dello spazio e rende partecipe una folta umanità di un episodio di sport che va oltre sé stesso. Un abbraccio che rimanda ai lamenti dei toreri, che ha fatto il giro del mondo, ma la cui storia è stata poco raccontata in Europa finora. Chi era quell’uomo sul letto di morte che Duran abbracciava come un fratello?

Esteban de Jesus era un pugile portoricano. Non era forse il migliore di tutto Porto Rico, ma il mondo della boxe lo rispettava e a casa era molto amato. Si allenava in palestra con Wilfred Benitez, che aveva qualche anno meno di lui e che presto il mondo avrebbe conosciuto come il Radar. Un giorno De Jesus divenne famoso oltre le possibilità che il proprio talento gli offriva.

Roberto Duran era un pugile panamense. Nel 1972 aveva strappato a Ken Buchanan la corona WBA di campione dei pesi leggeri. Aveva occhi cattivi, parlava come un cattivo e picchiava come un cattivo. Per via del cemento che portava nei guantoni presto divenne per tutti Manos de Piedra. In 32 incontri non aveva mai perso e, come un novello Alessandro Magno della boxe, leggende cominciavano a diffondersi sulla sua imbattibilità.

Un giorno qualunque dello stesso anno, per un incontro fuori peso non valido per la corona, i destini dei pugili latinoamericani si incrociano e rimangono legati per sempre fino alla morte di uno dei due. Al Madison Square Garden, l’Olimpo della Boxe, un portoricano senza coscienza infila un dritto mancino in faccia all’invitto Mani di Pietra, e Duran finisce col culo a terra dopo un minuto. Ride, si alza, ride ancora e sembra non aver capito, il suo sorriso brechtiano un po’ straniato sembra voler dire al mondo: davvero esiste un essere umano che può mettermi al tappeto?

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L’incontro è iniziato ma il panamense è tra le nuvole, non ha mai perso in vita sua ma quella sera ha la mobilità di un cadavere, è lento, tira pugni all’etere e non incide mai, De Jesus lo infila spesso e anche se lui incassa con dignità è irriconoscibile, qualcuno dice che è fuori forma e questo è innegabile, ha un gomito che non funziona, Mani di Pietra non combatte così, ma questa volta qualcuno nel mondo si è accorto che non sta boxando con un tipo qualunque, e questo negro di 164 cm che porta i baffetti alla Errol Flynn mostra una tecnica brillante. Il verdetto è poco dibattuto e Duran perde la sua invulnerabilità.

Una storia normale di un qualunque sport finirebbe con questo effetto sorpresa, con questa jacquerie. Oppure cavalcherebbe l’onda di una rivincita stanca e spettacolarizzata, una rivincita come tante. Ma boxare non è uno sport come gli altri e Duran non sarebbe oggi una leggenda vivente se non avesse cominciato a desiderare qualcosa che somigliasse a una vendetta più che a una rivincita, a una faida più che una vendetta.

Può andare anche così, tra i latini: l’odio passionale può forgiare una forma d’amore più forte dell’amore stesso, un amplesso indissolubile e non facilmente definibile.

Non esistevano motivazioni sociali e storiche, nessun senso pregresso di civiltà portò quei due pugili ad odiarsi. Non era uno il Robin Hood dell’altro, non c’era alcun significato dietro il loro boxare. Si odiavano semplicemente perché erano avversari provenienti da paesi rivali di terre che si assomigliavano, e perché uno dei due aveva osato battere un invincibile.

Per Duran divenne una questione d’onore e insieme un tormento lirico alla maniera dell’epica greca.

Mi sveglio con De Jesus, faccio colazione con De Jesus, pranzo con De Jesus, vado a dormire con lui.

Solo a chi non ha mai sentito parlare di Duran potrebbe sembrare sproporzionata una reazione del genere; una vendetta ha senso solo se è frutto di un’ossessione. E il giorno della vendetta arrivò.

Nella rivincita, questa volta valida per il titolo, Duran ancora non parte bene e fino al terzo round non pare a nessuno che quella rabbia cumulata nel tempo stia diventando realtà, anzi nel primo round rischia un rovinoso deja vu del primo incontro perchè, incredibile a dirsi, il portoricano lo manda a terra ancora col sinistro.

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Pur combattendo in guardia normale ma il gancio della mano mancina era diventato un topos classico dei suoi attenti combattimenti. Il leone di Panama allora prende otto secondi per tornare sulla terra, tira un sospiro stoico e comincia a boxare seriamente nel terzo round, quando rende manifesto al suo rivale e al mondo che non ha più voglia di farsi mettere in ridicolo da nessuno.

Giunto al settimo round l’uomo che aveva osato sfidare Duran intravede i fantasmi di una vendetta subita e pagata a prezzo carissimo e per un attimo sembra dire ai suoi secondi che non è in grado di tornare sul ring. Ma il pugilato esige un patto durissimo che ogni protagonista stringe con sé stesso e il mondo che lo circonda, un patto che assume la sacralitas di un giuramento: perdere un incontro non è un disonore, ma tirarsi indietro sì. De Jesus torna perciò sul ring tentando di stare in piedi come meglio può e Duran lo sfinisce per Ko tecnico all’undicesimo round.

Uno a uno, mancava la bella. Il terzo incontro si svolge a sei anni di distanza dal primo, colorito da una bella rissa latinoamericana in cui vengono coinvolti gli staff dei pugilatori e nondimeno qualche parente. Era il modo di vivere le sfide in certi ambienti dove le persone nascevano e crescevano nella convinzione che mandarsele a dire non basta. Folclore a parte, i coetanei se le danno di santa ragione in un scontro bellissimo che condensa per ritmo e tecnica l’apice della grande boxe dei pesi leggeri degli anni Settanta e che collima con la maturità sportiva di entrambi. I due si massacrarono di botte finché il più forte non porta a compimento l’unico destino che spetta a tutti gli Achille che popolano il mondo.

Ancora una volta De Jesus non era riuscito ad arrivare al termine del dodicesimo round e intronato oltre la soglia del dolore aveva pagato molto una certa attitudine già mostrata nel secondo episodio a durare meno del suo avversario. Nella trilogia che si era conclusa aveva causato dolori e problemi a Duran in continuazione, forse più di qualunque altro pugile nella sua carriera.

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Una grande storia di sport a lieto fine avrebbe voluto che l’odio tra i due decantasse come era nella natura delle cose, e che i pugilatori anni dopo si ritrovassero a ridere del ricordo della loro faida come sempre accade quando la maturità prende il sopravvento sulla passione degli anni ruggenti. Così era stato per Frazier e Alì. Benvenuti e Griffith divennero amici. Lo stesso Duran appare oggi più di una volta in fotografie che lo ritraggono sorridente accanto a Sugar Leonard per il quale, a differenza di De Jesus, ai tempi della rivalità non ebbe ammirazione né rispetto. Ma il destino scelse per lo sconfitto di questa storia una sconfitta ancora più amara di quella che il ring gli aveva decretato.

De Jesus cominciò a fare uso di droghe, cocaina combinata a eroina. Erano anni in cui la consapevolezza e l’informazione non ti aspettavano nell’angolo per ricucirti, se eri un atleta finivi per gettare la spugna per te stesso. Le sostanze tolsero infatti a quella piccola dinamo i grandi talenti sportivi prima e il senno poi. Nel 1980 il pugile portoricano appese i guantoni al chiodo. Fu un peccato perché aveva solo ventinove anni. Pur non eccellendo sotto un aspetto tecnico particolare era stato un attendista modello e un pugile di grande tempismo, un gioiello raro nella storia della Nobile Arte. Il suo viaggio all’inferno era soltanto all’inizio. L’anno successivo al ritiro, per un alterco di poco conto sparò a un ragazzo, uccidendolo. Fu ergastolo, e la tragedia era appena cominciata. Nel 1985 morì il fratello Enrique, di Aids. Il resto è intuibile. I due si erano scambiati gli aghi ed Esteban contrasse la malattia più temuta del secolo.

Quando fu pronto a lavare l’onta del primo insuccesso e allo stesso modo in cui aveva combattuto tutta la vita, l’uomo più odiato di tutta Porto Rico si precipitò nel lazzaretto dei morituri in cui De Jesus era stato internato, varcando i confini dell’idiosincrasia geografica. Quasi certo è che non fu una decisione razionale, maturata da una riflessione. Semplicemente accadde. Duran visitò il letto di morte del suo rivale.

Nel 1989 l’Aids era ancora qualcosa di misteriosamente tragico, c’era tanta disinformazione e si pensava che il contatto fisico potesse bastare per trasmettere la falciatrice. Forse lo pensava anche Duran, ma era un uomo d’istinto. Picchiatore selvaggio senza scrupoli né tatticismi, affrontava la vita come gli avversari: a muso duro. Sul ring avrebbe rotto il naso a sua madre, ma adesso era un’altra storia.

Quando lo vide, pianse le stesse lacrime amare di Scipione Emiliano davanti alle rovine di Cartagine, perché il portoricano che lo aveva battuto e sfidato, uomo muscoloso e orgoglioso e ragazzo della sua stessa età era adesso ridotto pelle e ossa. Si chinò sul corpo martoriato del rivale e lo avvolse in un abbraccio. Nessuno aveva osato tanto. Non mi importa di cosa fosse malato. Era solo un grande uomo ridotto male. In quell’abbraccio, di pietas virgiliana che sfidava la morte, Duràn riconosceva in un gesto estremo senza pari al suo più grande rivale il coraggio di tutta un’esistenza ormai bruciata che stava per spegnersi come una candela. Dopo averlo odiato e umiliato sul ring il panamense pagò un tributo d’onore all’unico che lo aveva battuto durante gli anni Settanta e nei primi 72 incontri della sua vita.

Brillante pugilatore, tossicodipendente e assassino, De Jesus moriva consumato dall’Aids poco prima di compiere 38 anni. Mise due volte a terra il più grande peso leggero della storia, fu il primo a batterlo, e lo restò fino al celebre incontro del No Mas contro Leonard. A differenza di quanto è accaduto per Duran, su di lui nessuno girerà un film.

Articolo a cura di Luigi Luca Borrelli

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