Forestieri, Fabbrini e gli altri — Storie di ordinaria Udinese

Crampi Sportivi
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8 min readJan 18, 2017

Ormai da qualche giorno non si sentivano più gli spari nelle vie del centro. Solo la notte un’eco lontana, forse dai monti. Il gruppo si allontanò dalla città e, appena arrivato in periferia, udì le prime sirene. Il caso volle che lì vicino fosse rimasto uno degli ultimi edifici rimasto in piedi, molto probabilmente costruito poco prima della Nube. Solitamente in disparte e in silenzio, un uomo dalla pelle scura prese la guida del gruppo e lo condusse all’interno dello stabile. Doveva esser stato un palazzetto dello sport o al massimo uno stadio, dalla parte di muro crepata si intravedeva un campo da gioco rettangolare.

L’uomo disse di conoscere quel posto: lo disse in esperanto, la lingua dei partigiani, ma un orecchio attento si sarebbe reso conto di una leggera inflessione portoghese, forse era brasiliano. Il più piccolo del gruppo provò istintiva fiducia, scattò in lui una sorta di ammirazione. Certo, la convivenza forzata aiutava, ma in un attimo seppe che per sopravvivere avrebbe dovuto dargli ascolto. E poi quell’uomo che parlava esperanto con accento portoghese era interessante, sembrava avere sulle spalle un fardello che i suoi occhi stanchi non avevano più voglia di portare.

In quello che restava di Udine, le sirene dell’Esercito Europeo risuonavano tra i detriti, rimbalzavano sui corpi a terra e arrivavano fino al gruppo dei partigiani, in viaggio verso la Carinzia per unirsi ai Ribelli. Nel sorprendente tepore dell’impianto che un tempo doveva essere stato uno stadio, il piccolo — verosimilmente nato dopo la Nube, in piena Guerra 3.0, e buon per lui che non aveva visto gli orrori, le purghe e la morte, quella vera — non riusciva a staccare gli occhi di dosso dall’uomo che li aveva portati fin lì. Esaminò il suo volto, scorse in lui qualche ruga, qualche capello bianco. Doveva avere più di cinquant’anni e di sicuro la Nube l’aveva vista. Fu un lampo, come se l’uomo avesse letto nella mente del ragazzino. Gli si fece incontro, lo prese per mano e lo portò fuori da un tunnel, miracolosamente illeso. Lo guardò negli occhi e gli disse: «Io ero qui quando iniziò tutto». Senza aspettare risposta, chiese al bambino se conoscesse il calcio. Sì, ne aveva sentito parlare, ma da anni ormai nessuno ci giocava più. Passarono accanto a una porta divelta sulla quali si poteva ancora leggere “Spogl- Udin-”, poi si fermarono di fronte a un murales. Sicuramente non era stato autorizzato dal Regime, ma l’uomo sorrise nel vedere le figure stagliarsi sul muro. Sotto di esse, i nomi: Fernando, Diego, Christian. I rinnegati di Udine. Il ragazzino chiese chi fossero, l’uomo sembrava non aspettare altro.

E partì con il racconto.

Fernando Forestieri, la scavatrice

Quando il calcio esisteva ancora, all’Udinese transitò senza apparente successo un ragazzo che si chiamava Fernando Martin Forestieri. Arrivò a vent’anni, allo Stadio Friuli non scese mai in campo. Aveva le stimmate del fenomeno, un po’ come tutti quelli che uscivano dal vivaio del Boca Juniors negli anni Duemila. Bastavano le parole bostero e xeneizes per mandare in brodo di giuggiole una folta schiera di appassionati. Doveva essere più forte di Sergio Agüero e secondo molti lo fu davvero, soprattutto sul finire degli anni Dieci. Forestieri era italiano ma non viveva in Italia, era nato in Argentina da genitori siciliani. Venne svezzato al Boca Juniors ma a sgrezzarlo ci pensò il Genoa, che a sedici anni lo mandò in campo a Pescara e lo vide segnare al debutto assoluto. Lui, uno che in patria chiamavano El Topa.

Con la potenza di una scavatrice riuscì a imporsi per qualche minuto di fronte a un imberbe Gasperini, poi iniziò la sua Odissea tra Siena, Vicenza, Malaga e poi Udine. All’Udinese avrebbe dovuto far vedere ci che pasta era fatto, ma non ebbe l’opportunità. Troppo poco appariscente, troppo sfortunato: erano gli anni di Di Natale e Sanchez, di Muriel e del Messi romeno Torje. E se si parla di soprannomi, quando il Messi romeno incontra El Topa, El Topa è un uomo morto. Francesco Guidolin lo notò in ritiro, lo soppesò con lo sguardo e lo bocciò. Troppo poco incisivo, meglio mandarlo in prestito, ha ancora vent’anni. Poteva essere l’inizio della fine. Andò a Empoli, dove il nome Topa assunse ben altro sapore, poi Bari e poi tornò a Udine. Niente da fare, nemmeno quella volta a Udine lo vollero. Fortunatamente però il patron Pozzo gestiva anche il Watford e decise di mandarlo in Championship. Iniziò una nuova carriera, sbocciò letteralmente. Giocò da seconda punta e senza più barcamenarsi sull’esterno o dietro agli attaccanti. Trovò il suo vero io, il suo equilibrio zen. Dal Watford allo Sheffield Wednesday, l’italo-argentino Fernando El Topa Forestieri incantò una platea dietro l’altra. Lo aiutarono una fiducia ritrovata e delle difese un tantino sopravvalutate, ma in Inghilterra riuscì a far vedere tutto il suo talento. E lì divenne come Agüero, anche se non giocò mai da attaccante puro. Tutto questo prima della Nube, da lì in poi cambiò tutto, El Topa si arruolò e il seguito è storia nota.

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A Udine un po’ lo rimpiansero: rinnegato troppo presto e in modo troppo sbrigativo, in un’epoca in cui il calcio italiano non aveva ancora tutta quella mania dei giovani da lanciare.

Diego Fabbrini, l’acceleratore

Non era raro vedere Diego Fabbrini preda delle critiche dei propri tifosi. Era quel tipo di giocatore apparentemente indolente ma dotato di una gran tecnica, che però riusciva a perdersi con niente in un bicchier d’acqua. Esterno d’attacco, trequartista, seconda punta: nessuno riuscì a trovare il suo vero ruolo e in molti iniziarono a pensare che Fabbrini un vero ruolo non lo avesse. Lui doveva giocare come capitava e, in mezzo al caos, riusciva a tirar fuori una perla ogni tanto. Poche però stando alla sua qualità, caratteristica che lo mise in luce a Empoli e lo portò dritto dritto a Udine. E fu lì, all’Udinese, che il gioco di Fabbrini raggiunse il suo zenit prima di un pellegrinaggio nelle nobili decadute del calcio inglese. Watford, Birmingham, Millwall, Middlesbrough e ancora Birmingham, ma dopo la Nube se ne persero le tracce: il resto è leggenda, più che storia.

Era un fenomeno Fabbrini, o almeno doveva esserlo nelle intenzioni, perché palla al piede dava l’idea di poter giocare novanta minuti solo lui. I suoi cambi di passo assomigliavano alla sua maniera di parlare, una cadenza pisana strascicata che godeva talvolta di un’accelerazione improvvisa. Antonio Di Natale, attratto dalla sua empolesità, lo volle come partner nella seconda Udinese da Champions di Guidolin. Fabbrini segnò poco — preferiva far segnare, o forse chissà cosa preferiva — ma fu decisivo nel finale di stagione. L’anno dopo, quello della definitiva consacrazione, lo vide spesso fuori per scelta tecnica e poi mandato a farsi le ossa in uno scalcinato Palermo in cui fece in tempo a segnare un bel gol di testa e a retrocedere. Nessuno lo ha più visto ai livelli sublimi della sua prima stagione in Friuli, quando sembrava se non l’erede perfetto di Sanchez, almeno un surrogato accettabile ma con caratteristiche del tutto differente. Anche lui fu un rinnegato da Udine, che gli preferì uno stuolo di mezze punte sudamericane buone solo per completare l’album dei calciatori.

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Cristian Battocchio, l’Under 21

L’esordio in Serie A di Cristian Battocchio avvenne in Palermo — Udinese 0–7, la miglior partita mai giocata dai friulani. Non poteva esserci miglior battesimo per un ragazzo dal cognome da fenomeno degli anni ’30, anche lui rosarino come Forestieri e anche lui italiano come El Topa. L’Udinese lo prese a 17 anni decisa a farne il futuro del centrocampo, ma fece finire ben presto pure Battocchio nella triste lista dei rinnegati. Di lui non si hanno più notizie da anni, dal Periodo degli Attentati, ed è davvero un peccato. Battocchio era un centrocampista centrale, emerso nel periodo in cui in Italia chi faceva la mezzala non poteva giocare al centro o viceversa, pena la crocifissione in sala stampa del suo allenatore. Aveva le qualità per dettare i tempi e la grinta per spezzare la manovra altrui, non era un tuttocampista — e non lo sarebbe mai stato, visti i tratti fisici — ma lì nel mezzo sapeva coniugare il raziocinio del centrocampista italiano con la verve di quello argentino. Francesco Guidolin, sempre lui, se ne accorse e provò a lanciarlo ma fu inutile.

L’esperienza di Battocchio in prima squadra all’Udinese durò nove partite in due anni e qualche mese. Anche lui sfruttò il legame tra i friulani e il Watford e andò a farsi le ossa nella squadra all’epoca lanciatissima verso la Premier League con Zola in panchina. Vide da vicino quel pazzo finale di playoff col Leicester ma, per la seconda volta tra regular season e spareggi, vide sfumare la promozione all’ultima partita. E l’anno dopo assisté a una sequela di esoneri e dimissioni degna della Lega Pro Girone C. A Watford Battocchio fu uno degli italiani più positivi, tanto che la dirigenza dell’Udinese fu spesso tentata dal riportarlo in Italia. Perché non lo fece e perché gli preferì giocatori molto meno intelligenti tatticamente e dotati tecnicamente rimane ancora un mistero. Finì la sua esperienza londinese, andò all’Entella senza successo e poi finì al Brest in Ligue 2, un campionato che gli stava stretto. Anche in questo caso il resto del racconto si collega a doppio filo con il corso della storia dopo il 2017.

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Di Battocchio oltre a un murales rimane un rimpianto, quello di non aver potuto esprimere al meglio il suo potenziale. O almeno di averlo fatto su palcoscenici “minori” come l’Italia Under 21, l’unica squadra (eccetto il Brest) a dargli veramente continuità. Pochi anni dopo il suo addio a Udine, molti sbavarono dietro a Torreira senza sapere che cosa si erano persi.

***

L’uomo aveva le lacrime agli occhi, si voltò per non farsi vedere dal ragazzino e si interruppe di fronte a quanto restava della Dacia Arena. Un po’ di verde aveva continuato a crescere regolarmente e senza trasformare il campo in una distesa di sterpaglie e detriti. Un enorme cratere sorgeva dove un tempo c’era un’area di rigore, riconobbe in mezzo i resti di una bomba dell’Esercito Europeo. Lui l’Europa aveva provato a combatterla anche prima della Nube, ma a modo suo e con il solo pallone come arma. All’epoca Fabbrini, Battocchio e Forestieri avevano indossato la “sua” maglia, lui li aveva conosciuti. In quell’istante il groppo in gola si fece due volte più grosso e proruppe in un pianto disperato. Si allontanò dal ragazzino correndo, imboccando una scalinata poco lontano dall’ingresso sul terreno di gioco. Il piccolo rimase spiazzato, provò a chiamarlo con il soprannome che tutti gli avevano affibbiato, ma non ottenne risposta. In lontananza, il rumore delle sirene si affievolì. Nell’aria rimase il rimbombo del grido di un bambino, nella pancia della Dacia Arena: «O Mago, dove sei?».

Una distopia di Gianmarco Lotti

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