Genealogia del numero 7: le ali del Pallone (pt.2)

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
Published in
10 min readJan 24, 2014

Prosegue la nostra lettura dell’evoluzione del ruolo delle ali, da Garrincha a Cristiano Ronaldo. Dopo il racconto delle origini (qui), oggi vi parliamo del secondo stadio d’evoluzione.

Sacchi e il suo Milan danno una scossa al calcio. Il modo di pensare, di interpretare, di vivere il gioco cambia radicalmente. Entrano sul terreno verde concetti come intensità, pressing e ripartenza. Cambiano anche gli attributi principali da ricercare in un calciatore. Grinta, generosità, predisposizione al sacrificio diventano i nuovi comandamenti. Non si assiste ad una carenza di qualità o a una latitanza di spettacolo, anzi. Il risultato è armonioso, la mentalità delle squadre è sempre offensiva e non spariscono i giocatori tecnici, solo gli si chiede qualcosa in più: tutti devono svolgere entrambe le fasi. Per una sorta di mutazione genetica del calcio, certi tipi di giocatori si dovranno adattare alle nuove disposizioni, reinventandosi e modellando il proprio gioco in funzione del nuovo credo. Le ali vengono costrette a dire addio a quel fantastico angolo di campo che li conteneva e a migrare o sulla linea dei centrocampisti, arretrando il baricentro, o su quella delle punte, limitando il loro campo d’azione. Di fatto, sparisce l’ala, e il suo numero sette cade spesso sulle spalle di corridori dai piedi rivedibili. Ma alcuni giocatori, che crescono quasi a macchia di leopardo in Europa, riescono a conservare sotto gli abiti da pendolini, quella classe e quell’estro dei funamboli di un tempo. Sono calciatori atipici, fuoriclasse, gente a cui il dieci da seconda punta starebbe pure bene, ma preferisce defilarsi e farsi inseguire sulle fasce.

Coloro che porteranno il magico ruolo dell’ala fino ai giorni nostri, gli apostoli della parola di Garrincha: Ryan Giggs, David Beckham, Luìs Figo e Pavel Nedved.

giggs-1991

È il 4 maggio 1991. Danny Welbeck e David de Gea non hanno che pochi mesi. Ryan Joseph Giggs, diciassettenne, segna il suo primo gol con la maglia dello United proprio agli avversari di sempre: i Citizens. Qualche anno prima il talento di Cardiff era stato vicino alla firma proprio con gli eterni rivali, dopo che un loro scout lo aveva allenato a Salford, nord di Manchester, dove si era trasferito con la famiglia. Ma quando il giorno del suo quattordicesimo compleanno Alex Ferguson in persona si presenta a casa sua dopo averlo visto in un provino, per Giggs — che ai tempi si chiamava ancora Wilson, cognome paterno — diventa impossibile rifiutare i Red Devils. I primi anni del gallese con lo United sono da assoluto crack. Si ritaglia subito un posto da titolare e vince due volte di fila il PFA Young Player of the Year, primo giocatore di sempre a riuscirci. Da left winger nello scacchiere di Ferguson conquista tutto quello che si può conquistare. In ventuno edizioni della Premier League, prima di quella in corso, segna sempre almeno un gol (record), vincendo il titolo tredici volte (record), senza finire mai sotto il terzo posto in classifica. Ma il suo anno migliore, indimenticabile per tifosi del Manchester, è il 1999, quello del treble. In campionato i Red Devils hanno la meglio di un punto sull’Arsenal di Bergkamp e di un giovane Anelka. In FA Cup battono in finale il Newcastle, dopo una semifinale al cardiopalma — ancora contro i Gunners — decisa al repeat proprio da Ryan Giggs, con un gol pazzesco (minuto 1.17 nel video). La finale di Barcellona del 26 maggio, una delle più belle finali di Champions mai disputate, con l’uno-due inflitto al Bayern Monaco nei minuti di recupero, consegna il terzo trofeo allo United. La storia è servita. La bacheca dell’uomo da Cardiff è qualcosa di imbarazzante, considerando che i lavori sono ancora in corso. Giggs ha da poco compiuto quarant’anni e sembra non voler smettere di correre su quella fascia sinistra. La sua classe, la sua falcata inarrestabile, la sua intelligenza calcistica che gli hanno permesso di interpretare quel ruolo come pochi altri, lo rendono un giocatore immenso, un professionista esemplare, un icona del calcio mondiale.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=9ZcJnWVKDks]

Giggs non ha e non ha mai avuto il numero sette sulle spalle. Quel numero, specialmente nel Manchester United, identifica qualcosa di più di un grande giocatore (attualmente, infatti, non è utilizzata). Chi indossa la maglia che fu del Belfast boy, ha l’obbligo incondizionato di farsi amare in maniera folle dai suoi tifosi. Ed è dalla Fergie’s Fledglings — la cantera dei Red Devils allevati da Ferguson — che uscirà il numero sette sicuramente più amato… dalle teen-agers.

David Beckham

David Beckham è, più o meno, il Justin Bieber della mia generazione, con la differenza che l’inglese il suo lavoro lo ha sempre fatto molto bene. Su David Joseph Robert — il suo nome per intero — se ne sono dette e scritte tantissime. Ha riempito copertine e manifesti pubblicitari, ha guadagnato vagonate di soldi, ha sfilato per i brand più lussuosi, ma in campo è sempre stato uno spettacolo. Con lui il ruolo dell’ala — o del centrocampista laterale — assume un’altra morfologia. Beckham non ha il dinamismo di molti colleghi suoi contemporanei, non ha lo scatto bruciante né il dribbling in velocità. Ma quando gli arriva il pallone nei piedi, lo spice boy può fare veramente di tutto. I suoi primi anni coi Red Devils sono da predestinato. Nella stagione ’96-‘97 viene lanciato subito titolare insieme ad altri ragazzini interessanti come Paul Scholes, Nicky Butt e Gary Neville. I tifosi si aspettano grossi rinforzi dopo la chiusura di un ciclo vincente e la partenza di grandi nomi(Ince, Huges, Kanchelskis), e infatti qualcuno inizialmente rimane deluso. Ma i ragazzini di Ferguson, sotto l’ala di un grande Eric Cantona — il numero sette del momento — vanno oltre le aspettative e dopo aver vinto il titolo all’ultima giornata con un 3–0 al Middlesbrough, si aggiudicano anche la finale di FA Cup. Il passaggio di consegne avviene nella stagione ’97-’98: il francese si ritira e Beckham è già un idolo; la maglia della storia è sua. Nel ’99, dopo aver centrato il treble con i Red Devils, è secondo dietro Rivaldo nella classifica per il Pallone d’oro e il FIFA World Player of the year. È l’estate del 2003 quando — diventato ormai personaggio dello spettacolo e icona calcistica globale — causa lo scarso feeling con Ferguson, approda al Real Madrid. Dopo quattro anni coi Blancos, nei quali conquista una Liga e una coppa di Spagna, la sua carriera calcistica inizierà la sua curva discendente con il passaggio ai LA Galaxy. Nonostante questo, le parentesi al Milan dal 2008 al 2010 sono da giocatore tutt’altro che finito e Becks lascerà ai tifosi rossoneri un piacevole ricordo di sé. Beckham è riconosciuto come uno dei più grandi tiratori da palla inattiva di sempre: sui 114 gol da lui realizzati dal 1993 al 2013 — anno del suo ritiro — ben 65 sono arrivati su punizione.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=bF1L52-kVKc]

Lo stile di Beckham, specialmente nei primi anni della sua carriera — quelli da esterno di centrocampo — rappresentano un modo inedito di sfruttare le corsie laterali. L’abilità nel far correre la palla, nell’accelerare la manovra offensiva con passaggi a lunga gittata e cross dalla trequarti, creerà una nuova identikit del numero sette. Un altro giocatore che in questi anni interpreterà in modo innovativo il gioco sugli esterni, nasce ad Almada, in Portogallo, il 4 Novembre 1972.

Luis Figo of Portugal is pursued by Pablo Mastroeni

È lo Sporting Lisbona a lanciare Luìs Figo nel calcio europeo, facendolo esordire nella stagione ‘89-‘90. Il ragazzo ha 17 anni e proviene calcisticamente dall’Os Pastilhas, squadra del suo municipio. Le sue prime magie Figo le mostra con la maglia della Selecção: nel 1991 conquista il Mondiale under 20 battendo in finale il Brasile di Roberto Carlos, suo futuro compagno al Real Madrid. Dopo due fantastiche stagioni nella lega portoghese viene notato da diversi grandi club europei. Nell’estate del ’95 passa al Barcellona, dopo essere stato a un passo dalla Juventus. Nei blaugrana trova Johan Cruijff, allenatore che gli cuce addosso una posizione in campo, quella di esterno offensivo, che riamarrà sua per il resto della carriera. Figo, che col Barça vincerà due volte la Liga, una Coppa delle Coppe e tre coppe nazionali, è un’ala anomala. Concilia tecnica, visione di gioco e rapidità con una grande forza fisica. È un giocatore quadrato, dal baricentro basso, molto agile e fantasioso, col vizio dell’assist e il dribbling facile. Nel campionato Europeo del 2000 trascina letteralmente i suoi fino alla semifinale, persa ai supplementari con la Francia che andrà a vincere il torneo. Quell’estate il Real Madrid mette sul piatto 10miliardi di pesetas(60milioni di euro) per portarlo al Bernabeu, strappandolo — non senza polemiche — ai tifosi culés, di cui era diventato un idolo. Le sue grandi prestazioni di questa stagione gli valgono il Pallone d’oro. In cinque anni con i Galàcticos centra due volte il successo in campionato e conquista una Champions League — quella del 2001/’02 — da assoluto protagonista. Nel 2004, con la maglia della nazionale, accarezza il sogno di una vittoria nell’europeo casalingo, ma si scontra con la Grecia dei miracoli in una finale al Da Luz di Lisbona dai toni drammatici. Nell’estate del 2005, con un grande colpo di mercato, l’Inter lo ingaggia a parametro zero. Anche in Italia il talento di Almada vince titoli e si conquista l’amore dei tifosi nerazzuri, che il 16 maggio 2009, in occasione della sua ultima partita in carriera, gli regalano un saluto spettacolare e commovente in un Meazza gremito.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=6bccT9TehrQ]

Le qualità del gioiello portoghese sono un altro tassello nella costruzione dell’ala del futuro. In un calcio che diventa sempre più muscolare i giocatori devono lavorare tanto sulla parte fisica per poter fare la differenza. La tecnica di per sé non serve più, se non abbinata a una mole che consenta di ammortizzare il contatto fisico e gli innumerevoli contrasti, dovuti alla vocazione del calcio “moderno” al pressing e al raddoppio. Nei campionati europei del 1994 si mette in mostra un altro giocatore dalle qualità atletiche fuori dal comune. Gioca nella squadra-rivelazione del torneo, quella Repubblica Ceca che si arrenderà ai campioni della Germania solo ai tempi supplementari di una finale combattutissima.

nedved241111

Il giocatore in questione, che ha già 24 anni e gioca nello Sparta Praga, si chiama Pavel Nedved. La Lazio di Cragnotti decide di scommetterci portandolo a Roma quella stessa estate. Il biondissimo centrocampista ceco ha un impatto devastante con la serie A. Nelle prime due stagioni gioca 81 partite segnando 25 gol tra campionato, coppa UEFA e coppe nazionali. Pavel gioca da centrocampista sinistro o da trequartista e fin da subito vengono fuori la sua resistenza alla fatica, la sua progressione devastante e la sua capacità nel tiro in porta con entrambi i piedi. Il suo modo di concludere a rete è unico: quando calcia in corsa, prevalentemente col collo del piede destro, il pallone non gira, non prende strane traiettorie, nessun effetto “foglia morta”. Semplicemente la sfera diventa un missile terra-aria che segue un tragitto lineare ed esplode, spesso, all’incrocio dei pali (come si può vedere al minuto 3.00 nel video). Nella stagione ’98-’99 conquista l’ultima edizione della Coppa delle Coppe, segnando il gol decisivo nella finale contro il Mallorca. Il campionato successivo passa alla storia: la Lazio di Eriksson supera all’ultima giornata la Juventus e si aggiudica il secondo scudetto della sua storia, con Nedved che gioca 28 partite segnando 5 gol. Due anni più tardi i bianconeri versano 70miliardi di Lire nelle casse della Lazio per portarlo a Torino. È l’inizio della storia d’amore tra la furia ceca e i tifosi della Signora. Alla Juventus indossa la maglia numero 11 e gioca praticamente tutte le partite da esterno sinistro in una mediana a quattro. In otto anni con i bianconeri, tra serie A, serie B, coppe nazionali e Champions League gioca 327 partite segnando 65 gol. Nel 2003, dopo una stagione fantastica, nella quale vince lo scudetto e arriva in finale di Champions League — finale vinta dal Milan e che il ceco non giocherà a causa di una squalifica — gli viene assegnato il Pallone d’oro. Nedved giocherà ad alti livelli fino al suo ritiro, che avviene il 31 maggio 2009 — proprio in occasione di una gara contro la Lazio — dopo un campionato da 32 presenze e 7 gol.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=8dF0elhZ4qY]

La furia ceca ha 37 anni quando smette di giocare a calcio e secondo molti il suo fisico avrebbe retto ancora per qualche anno con buoni risultati. Ma come possono certi atleti che — sia per ruolo che per attitudine — fondano le loro prestazioni sulla corsa e l’atletismo, riuscire a portare avanti carriere ventennali? Di certo dietro quelle incredibili di calciatori come Giggs e lo stesso Nedved, unite a una grandissima professionalità, c’è un’importante predisposizione fisica. Predisposizione fisica che è diventata un elemento sempre più importante nel calcio odierno, dove se non si ha la capacità di evolvere assieme al proprio gioco, il proprio corpo, si rimane indietro, se non addirittura ai blocchi di partenza. È così che molti giocatori vengono “modellati” a seconda delle esigenze: rinforzati, gonfiati, appesantiti per far fronte a una tendenza che esclude i fisicamente normodotati. Le ali di “terza generazione” — i fenomeni che vediamo oggi — sono quelli che in una disciplina da superuomini, non rappresentano il rapporto tra agilità e potenza, tra tecnica e fisicità, tra talento e predisposizione, ma sono il prodotto mostruoso della totalità di questi fattori. [continua]

--

--