Genealogia del numero 7: le ali del Pallone (pt. I)

Crampi Sportivi
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10 min readDec 13, 2013

Funamboli sulla linea del fallo laterale. Sfruttatori di praterie di contropiede. Consumatori di suole. Artigiani del cross. Scavatori di tunnel. Illusionisti.

Il compito dell’ala si è dovuto — gioco-forza — adattare all’evoluzione del calcio. In un’era dove i pantaloncini erano troppo corti e le maglie non avevano gli sponsor, l’ala era la svolta dalla dura realtà del centrocampo, fatta di calci e scivolate, verso la fantasia della finta e del tunnel, tra la bandierina e il lato corto dell’area. Artisti e folli col sette sulle spalle su un campo in bianco e nero, in un calcio dove valeva la sola legge dell’uno contro uno: del centravanti contro lo stopper, del trequartista contro il mediano, dell’ala contro il terzino. Poi cambia la storia. Tra gli anni ottanta e novanta, prendendo spunto da una banda di olandesi capelloni, un rappresentante di scarpe di Parma si inventa un nuovo modo di giocare a pallone, basato sulla difesa a zona: è l’inizio di un calcio nuovo.

Provano a farla scomparire, l’ala, a sostituirla con infaticabili pendolini consumati dalla trascendenza del difendere. Ma lei riemerge, si trasforma, si adatta, fino a rivelarsi di nuovo indispensabile. Riporta la gioia nel campo a suon di tiri a giro e galoppate inarrestabili, dribbling secchi e traversoni taglienti.

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Oggi il calcio è un altro ancora. Una sorta di sintesi artificiale dei due stili precedenti, in cui gli ortodossi del quattroduetreuno hanno reso le ali giocatori totali, quasi robot. Super-uomini capaci di correre fino allo sfinimento per difendere, come di convergere per cercare la porta. Corpi rubati all’atletica e riempiti di tecnica e potenza, che sanno fare (e anche bene) qualsiasi cosa: tirare con entrambi i piedi, saltare l’uomo, cercare l’assist, colpire di testa, battere il calcio di punizione, il rigore, l’angolo, il rinvio dal fondo, il ferro finche è caldo, etc.

La tendenza impostasi sembra portare a calciatori-cyborg in grado di effettuare un cross dalla fascia e andare a ribadirlo in rete in mezzo all’area nella stessa azione. Gli sviluppi del calcio assumono sempre più caratteri tecnologici e futuristici, allontanandosi da quella poesia che l’ala regalava a uno sport vuoto di schemi e progetti complicati. Nonostante ciò, questo ruolo continuerà ad avvicinare il calcio all’arte, ad essere quell’undicesimo di squadra addetto a voltare le spalle alla tribuna mostrando chiaro il numero di maglia, insignito della facoltà di danzare ai margini del campo per fare male al cuore dell’area, autorizzato a trascinare ingenui terzini all’umiliazione, a fintare e contro-fintare. A volare e far volare.

Le leggende di Julinho, Manè Garrincha, George Best, Bruno Conti.

L’essere ala nasce in un calcio istintivo, sensoriale, d’astuzia. Sono brasiliani i due giocatori che per primi, nel secondo dopo-guerra, hanno reso affascinante e mistica la figura dell’ala. Personaggi ancor prima che giocatori. Simboli di libertà e freschezza, movimento, estro e atletismo. Protagonisti di un calcio remoto, lontano dal professionismo e dalla competitività di quello moderno, un gioco in cui chi aveva il dono di saper usare la palla un po’ meglio degli altri diventava un dio.

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Il volto teatrale, il baffetto curato e la postura retta e sprezzante di “Julinho” Botelho, lo rassomigliano più a una star holliwoodiana che a un esterno di fascia paulista. Il suo fisico appare slanciato, ma la sua figura longilinea è spezzata da due gambe sproporzionatamente muscolose, stonanti col suo busto gracile e le sue spalle strette. Nato in una famiglia abbastanza agiata di San Paolo, non ebbe bisogno della strada e della smania del successo per amplificare le sue doti tecniche. Nella Portuguesa, squadra in cui milita dal 1955 al ’58, mostra la sue capacità realizzative (101 gol in 109 partite) e una grande correttezza, tale da non prendere nemmeno un ammonizione in tre anni trascorsi nei rossoverdi. Possiede di suo una grande corsa, una squisita eleganza, ma soprattutto un’ innata propensione per la finta di corpo e l’assist. Partendo accanto alla riga laterale, è solito servire la punta in area con rasoiate tese a pelo d’erba, dopo aver disorientato il terzino e non disdegna il tiro in porta.

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Dalle sue immagini in bianco e nero sembra di vedere in campo un essere superiore rispetto a tutto ciò che ha intorno: Julinho appare più alto, più potente, più veloce di tutti. Una sorta di supereroe ottenuto sommando zorro e superman.

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Approdato in Italia, vincerà lo scudetto 1955-‘56, lasciando nei ricordi dei tifosi di quel calcio lontano, l’immagine di un campione silenzioso e nostalgico, tra le prime di una serie infinita di vittime della fatidica saudade. Decide di tornare in Brasile dopo la morte del padre, e di militare nel Palmerias, con cui segnerà 81 gol in 269 incontri. Il giorno del ritiro di Julinho, all’ Estadio Palestra Itàlia di San Paolo non la prendono bene: sostituito al trentesimo minuto da Alberto Gallardo (ex del Cagliari), i tifosi accompagnano ogni pallone perso dal povero peruviano urlando in coro “Torna, Julinho!”.

Si può partire da lui, da Julinho, per parlare dell’ala, in quanto primo grandissimo interprete del ruolo. Ma il concetto di completa alienazione dalla consuetudine del gioco che verrà affibbiato a chi porta un sette sulle spalle, probabilmente lo esprime meglio un altro ineguagliabile campione.

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Maledettamente diverso — non solo da Julinho — Manuel Dos Santos, detto Garrincha, nasce nel 1933 a Pau Grande, un distretto periferico di Rio de Janeiro. Ha una gamba più lunga dell’altra di sei centimetri, le ginocchia montate male, ha la scoliosi. La sua situazione famigliare è più o meno come il suo fisico: eufemisticamente complessa. Garrincha, quindicenne, già fumatore incallito e assiduo bevitore, viene notato e ingaggiato dal Botafogo e inizia la sua scalata verso le vette del pianeta calcistico. Manè è la personificazione del futebol moleque, del gioco della strada fondato sull’improvvisazione, il trucco, il dribbling volto a umiliare l’avversario, non a superarlo. La sua azione preferita è celebre, sempre la stessa, ma nessuno dei suoi contemporanei riuscirà mai a trovarvi un rimedio efficace: partendo da destra, dopo aver ricevuto palla, Manè si ferma, punta il terzino, effettua un breve scatto laterale e si ferma ancora; lo fa più e più volte, anche aspettando il ritorno dell’avversario, fin quando quello, distrutto, prova ad anticiparne il movimento finendo irrimediabilmente gambe all’aria.

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Al nome di Garrincha sono legate diverse leggende, come quella secondo la quale il grido olè! durante una partita di calcio si udì per la prima volta nel 1958 in Messico, in occasione del maltrattamento di un povero difensore del River Plate da parte sua. Le sue straordinarie prestazioni nel Botafogo, non accompagnate da un altrettanto luminosa vita extra-sportiva, lo porteranno a vincere più volte i campionati Carioca e di Rio-San Paolo, ma soprattutto a guadagnarsi la maglia della nazionale, con la quale, al fianco di Pelè, conquisterà due coppe del mondo: in Svezia nel ’58 e in Cile nel ’62. Il 19 dicembre 1973, al Maracanã di Rio de Janeiro, in occasione della partita di addio di Manuel dos Santos, erano presenti centotrentamila tifosi.

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Quest’anno sono stati celebrati i trent’anni dalla scomparsa del passerotto di Pau Grande, ricordato da molti colleghi come uno dei giocatori più forti e sfortunati di sempre, dal Brasile come “A Alegria do Povu” — l’allegria del popolo- , dagli atri semplicemente come l’Ala destra per eccellenza, ancora oggi insuperabile.

Dall’altra parte del mondo, il calcio si vive in modo diverso: in Gran Bretagna, lì dove è stato generato da una costola del Rugby, la fisicità prevale sulla tecnica, la corsa sul tocco di palla, il tackle sul dribbling. Negli anni sessanta il football inglese, in particolare, non primeggia affatto in Europa, dove a farla da padrone sono le squadre iberiche e in particolare il Real Madrid e il Benfica delle leggende Di Stefano ed Eusebio.

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Il 17 settembre del terzo anno di quella decade impazzita, all’Old Trafford di Manchester appare tra i titolari della formazione di casa uno sconosciuto diciassettenne nord-irlandese dal cognome irriverente. E’ l’inizio dell’era George Best. The Belfast Boy rievoca il concetto Garrinchesco dell’umiliazione dell’avversario in un calcio estremamente più evoluto e fisico di quello brasiliano. Per farlo, Best combina la velocità, il ritmo e il dribbling sullo stretto all’abilità di calciare con entrambi i piedi oltre che di pensare giocate inarrivabili per l’avversario medio. In un calcio basato sulla marcatura a uomo, in cui il raddoppio era ancora considerato una sorta di rischio, il terzino si vedeva costretto a concedergli quanto meno di crossare, perché portargli via il pallone dai piedi voleva dire essere oggetto del suo show.

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Con quelle basettone da rock star sembra sempre voler sfottere: irritante, beffardo, provocatore e imprendibile, classico figlio di… una generazione di giovani che sembrano dire «faccio quello che voglio, prova a fermarmi!». Il talento di Belfast si cala alla perfezione in quella fantastica band completata da Denis Law e Bobby Charlton, colonne indimenticate e indimenticabili della storia dei Reds. La stagione 1967–68 passa alla storia: con 28 gol e 11 assist, Best porta il Manchester United a conquistare la prima Coppa dei Campioni per una squadra inglese, battendo in semifinale il Real Madrid e in finale proprio quel Benfica di Eusebio, che negli anni precedenti aveva dominato l’Europa. Al termine di questa incredibile annata gli viene assegnato il Pallone d’oro. Dopo un inizio di carriera come ala destra, viste le sue doti realizzative e la sua imprevedibilità a ridosso dell’area, viene spesso avanzato a seconda punta, incrementando uno score che al suo addio al Manchester United dirà 181 gol in 473 partite.

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Giocatore dal talento cristallino e personaggio immensamente carismatico, di lui quasi rimangono impressi più storici aforismi che grandi gol. Quello che fu il “quinto Beatle” fuori dal campo resta tra l’epico e il drammatico, tra il leggendario e il decadente, come un po’ tutto quel decennio del Rock&Roll.

Lontano, ma neanche troppo, dal calderone dei sixties in U.K., scopriamo un modo diverso di vivere il football. Il calcio italiano, tra gli anni sessanta e settanta, gode di grande rispetto e considerazione grazie alle imprese europee di Inter e Milan e alla classe dei campioni che prendono parte al suo campionato: da Mazzola a Rivera, da Altafini a Suarez, fino a Facchetti per citarne solo alcuni.

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A Nettuno, una sessantina di chilometri a sud di Roma, nasce il 13 Marzo del 1955 quella che verrà ricordata come l’ala più forte del calcio italiano mai esistita: Bruno Conti. Come quasi tutti coloro che sono diventati fenomeni in qualsiasi sport, anche Bruno era considerato inadatto, troppo basso e leggero per poter giocare a calcio. Così, dopo aver rischiato di diventare un professionista del baseball (una squadra californiana aveva provato ad ingaggiarlo), grazie alla lungimiranza di tale Nils Liedholm passò dall’Anzio alla Roma, con cui esordì il 10 febbraio 1974 e disputò ben diciassette stagioni. Il gioco espresso da Conti è qualcosa di innovativo nel panorama calcistico italiano: un folletto dallo scatto bruciante, il mancino chirurgico, la finta inebriante e testarda. Insomma, un giocatore diverso, un alieno, se non fosse che all’estro e alla libertà creativa tipica del futbol moleque, Maràzico, come viene soprannominato dalla curva giallo-rossa, abbina una propensione alla corsa, al ripiegamento, al sacrificio tipicamente di stampo bel paesano. Anche la sua immagine è insolita: stazza tipica del fantino, capelli lunghi e sempre perfetti (i compagni lo ricordano per la sua mania del look), nasone ingombrante, tipo pulcinella. La zazzera impazzita del numero sette di Nettuno non rimarrà solo un simbolo italiano, ma valicherà i confini e diventerà fenomeno globale dopo i vittoriosi Mondiali di Spagna ’82, manifestazione di cui viene nominato miglior giocatore, nonostante la concorrenza di gente come Rummenigge, Boniek, Zico, Falcao, Platini e di un, seppur giovane, Diego Armando Maradona.

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Il mondiale spagnolo rappresenta solo l’inizio di un biennio fantastico per il talento di Nettuno, che riesce a ricucire lo scudetto sulle maglie della Roma nel 1983, dopo oltre quarant’anni, insieme a bomber Pruzzo, Paulo Roberto Falcao e capitan Di Bartolomei. Nella stagione successiva Conti sfiora addirittura la vittoria in Coppa dei Campioni, arrendendosi solo ai calci di rigore, al termine di una drammatica finale persa in casa, contro il Liverpool.Può essere definito lui l’ultima ala destra eccellente di quel calcio improvvisato, di quel gioco poetico in cui c’era chi attaccava, chi difendeva e chi, per l’appunto, faceva l’ala.

Conti dà il suo addio al calcio giocato il 23 maggio 1991. Sono passati quattro anni da quando Arrigo Sacchi e il 4–4–2 del suo Milan hanno imposto una rivoluzione al calcio italiano ed europeo. Una rivoluzione che riguarda non già l’approccio alla partita o il modulo in sé, ma l’idea alla base, per la quale ogni movimento, ogni situazione, ogni azione che si manifesta in campo è frutto dello studio, della preparazione e della simulazione in allenamento. Tutti si comportano in campo seguendo un copione preciso e un modello pre-ordinato. Nel nuovo schieramento, gli esterni del centrocampo hanno più responsabilità difensive, più compiti di contenimento e devono garantire alla squadra grande corsa e presenza lungo tutta la fascia. Per qualche tempo, nell’evoluzione di questa strategia, le grandi ali del passato vengono sostituite da fondisti inesauribili, atleti tutto cuore e polmoni, importantissimi nell’economia del gioco, ma senza dubbio privi di quella metafisica che i numeri sette del passato davano allo spettacolo del pallone. E’ l’era dei Donadoni, dei Di livio, dei Serginho, professionisti e fieri combattenti subordinati all’ordine e alla precisione di quel calcio compassato e studiato a tavolino, in cui la bacchetta magica dell’imprevedibilità è affidata all’egemonia del Dieci e a nessun’altro. [continua]

Matteo Serra è un ex centrale difensivo con responsabilità d’impostazione, scarsamente nostalgico dei campi ghiacciati del centro Sardegna, vittima del fuorisedismo romano e dei giochi di calcio manageriali. Fiducioso nel futuro, come tutti gli scienziati della comunicazione, sogna un mondo con più Giaccherini e meno guerre.

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