Giovane a chi?

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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9 min readOct 10, 2016

Copertina di Andrea D’Elia

Quale gioventù?

La versione italiana del monologo tratto dal film ‘The big Kahuna’ conta 1 milione e 180mila visualizzazioni su youtube, e 4mila notifiche di gradimento da parte degli utenti. Il monologo, incentrato sulla gioventù e indirizzato a un uditorio di giovani, si avvale di un incipit di sicuro effetto, impudentemente leopardiano (“Goditi potere e bellezza della tua gioventù”) e prosegue poi con una lunga serie di consigli vaghi e al contempo vagamente buonisti, elargiti dalla prospettiva di un senior bonario, empatico, comprensivo nei confronti di una generazione più giovane. Tuttavia, nella visione assolutamente parziale di chi vi scrive, si tratta anche di uno dei monologhi più fuorvianti sul concetto di gioventù e, in generale, sui gradi di separazione che esistono tra una generazione e un’altra. Vediamolo nel dettaglio, intervallandolo con alcune considerazioni.

Non ci pensare. (Non sia mai) Il potere di bellezza e gioventù lo capirai solo una volta appassite (adesso sei ancora troppo poco intelligente, purtroppo, ma tranquillo: quando non lo sarai più, il meglio sarà finito) Ma credimi tra vent’anni guarderai quelle tue vecchie foto (sei condannato a ripetere le mie stesse esperienze, sei un clone di uno che scrive monologhi così) E in un modo che non puoi immaginare adesso (perché, come dicevo prima, purtroppo ora sei stupido).

Non preoccuparti del futuro. (È presto, devo ancora finire il mio monologo sul futuro) Oppure preoccupati ma sapendo che questo ti aiuta quanto masticare un chewing-gum per risolvere un’equazione algebrica. (Quando sarai intelligente come me farai metafore e similitudini di merda come questa). I veri problemi della vita saranno sicuramente cose che non ti erano mai passate per la mente, di quelle che ti pigliano di sorpresa alle quattro di un pigro martedì pomeriggio. (Orario e giorno esatti in cui ho deciso di scrivere questo monologo).

Fa’ una cosa ogni giorno che sei spaventato: canta! (che ti passa). Non essere crudele col cuore degli altri. Non tollerare la gente che è crudele col tuo. (Cioè esercita la tolleranza solo nei confronti di te stesso). […] Ricorda i complimenti che ricevi, scordati gli insulti. (Memoria selettiva: conserva solo ciò che ha titillato il tuo ego, non sia mai che impari qualcosa su te stesso).

Non sentirti in colpa se non sai cosa vuoi fare della tua vita. (Non c’è fretta, possono sempre decidere gli altri per te). Le persone più interessanti che conosco a ventidue anni non sapevano che fare della loro vita. (Se lo facevano dire dagli altri cosa fare della loro vita). I quarantenni più interessanti che conosco ancora non lo sanno. (‘Interessanti’ è un lemma praticissimo quando devi esprimere un giudizio su qualcuno che il tuo ego vorace ritiene inoffensivo). Forse ti sposerai o forse no. Forse avrai figli o forse no. (Forse piove, in caso vestiti a cipolla).

[…] Sii cauto nell’accettare consigli, ma sii paziente con chi li dispensa. […] Ma accetta il consiglio… per questa volta. (Non prendere questo monologo come oro colato, fallo solo se te lo chiedo gentilmente).

In sostanza, il ritratto di gioventù che questo monologo fornisce è quello di una fase vaga e fumosa della vita, in cui il tratto dominante risulta essere l’incoscienza, nel senso lato e improprio dell’assenza di consapevolezza, di comprensione limitata del mondo esterno. Un periodo in cui non si riesce a fare tesoro delle esperienze avute fino al raggiungimento di quell’età precisa. Tutto questo perché esiste una legge non scritta, generale e generica, per cui da giovani o non si è abbastanza intelligenti o non si è abbastanza consapevoli per avere la giusta autonomia di pensiero e azione, diversamente da quando invece si raggiunge l’età del parlante; un mondo in cui due schieramenti opposti agiscono solo sulla base della reciproca contrapposizione e in cui ogni dialogo è subordinato alla presunta superiorità, a tutto campo, dell’esperienza.

D’altronde qualsiasi generalizzazione è dannosa quando si ignorano, caso per caso, le diversità delle esperienze e dei percorsi di ognuno; possono esistere giovani consapevoli e inconsapevoli, ed è probabilmente più facile averne di consapevoli se chi è maturo si preoccupa di fornire strumenti che garantiscano autonomia di riflessione e, soprattutto, di determinazione della propria esistenza. Strumenti quali la formazione e la cultura, ma anche l’affidamento di responsabilità, lo spazio creativo, pratico e lavorativo in cui i giovani possono esprimere sé stessi scoprendosi parte di un gruppo di persone, una comunità, di una società estesa. Ma, soprattutto, perché un individuo sia in grado di determinare sé stesso è necessario che questo sia ascoltato. Qualcosa che un monologo, ontologicamente, non può garantire.

Inoltre ci si preoccupa di mettere l’ego al centro della questione, travisando un linguaggio carico di riferimenti emotivi che riguardano solo la sfera personale dell’individuo, come se questi fosse completamente scisso dal resto delle persone che lo circondano. Un individuo unico nell’interpretazione delle problematiche relative alla propria esistenza, eppure totalmente identico agli altri. Una contraddizione gigantesca, un equivoco deprimente che oltretutto ha il demerito di dare implicitamente a un giovane dell’imbecille incapace di autodeterminarsi, giudicabile solo in base all’incompletezza del proprio sentire.

Si deprime il giovane censurandone le possibilità intellettive e psicologiche e poi lo si assolve, dicendo che in realtà è tutto ok, è tutto normale. È un loop in cui siamo dentro tutti, non ci pensare, vieni qua da me, io ti voglio bene, segui passo dopo passo i miei consigli su come convivere con questo deficit fino a che non sarà troppo tardi, a quel punto potrai prendere il mio posto nel censurare altri, con amore. Perché io e te siamo uguali ma tu sei un po’ più stupido, perché hai meno esperienza.

Ne consegue che quello che un giovane fa, o ha fatto fino a quel momento nella sua vita, conta relativamente: è comunque ascrivibile a una categoria più ampia di esperienze parziali, incomplete, per colpa della sua carta d’identità. In questo modo non esistono territori di confine tra il giovane e il vecchio: sei sempre giovane finché hai qualcuno che ti insegna come vivere e ti giudica in base alla differenza di età e prospettive, non concentrandosi su quello che fai ma, più banalmente, su quello che sei.

E adesso vediamo cosa c’entra questo col pallone.

Verratti a chiedere del nostro amore

In sostanza, la questione dei giovani rimane sempre la stessa in qualsiasi ambito la si affronti perché i punti di vista sono solo due: quello di qua e quello di là, cioè quello di chi giudica e quello di chi viene giudicato. Quello che cambia sono gli interpreti, i giudicati speciali, quelli condannati al disorientamento finché, da un giorno all’altro, non ci si trova dall’altra parte del bancone, a propria insaputa. Nel pallone, tuttavia, la questione è ancora più speciosa, dato che si tratta di un’attività in cui pochi individui riescono a toccare la soglia dei vent’anni di carriera. In sostanza un calciatore è giovanissimo a 16, 17 anni, è giovane fino ai 20 ma già dieci anni più tardi, alla soglia dei trenta, diventa un vecchio, un investimento a rischio: il prezzo si abbassa, il blasone delle squadre che si contendono il calciatore diventa minore e ci si incammina verso un crepuscolo più o meno pacifico della propria esperienza atletica. Ne consegue che parlare di giovani nel calcio è una questione ancora più velleitaria, se possibile ancora più soggettiva.

Giampiero Ventura è un allenatore maturo, con tanti anni d’esperienza e la fama di essere molto bravo nel valorizzare i giovani. Dopo un paio d’anni di gestione da parte di Antonio Conte, che si affidava apertamente a giocatori più esperti, la sua nomina da parte della Federazione lasciava presagire un periodo in cui si sarebbe dato maggiore spazio a giocatori che fino a quel momento non avevano trovato la continuità per esprimersi, messi in secondo piano dalla scelta di atleti più maturi. Atleti che tra l’altro, a detta non solo del bar sport ma anche di molti altri addetti ai lavori, non avevano la qualità e il talento delle generazioni che li avevano preceduti.

La trasferta in Macedonia, pur conclusasi con una vittoria, ha evidenziato molte criticità relative al nuovo assetto della squadra; lo stesso Ventura a fine partita ha parlato ai microfoni Rai di necessità di pazienza, in alcuni casi, quando si ha a che fare con ragazzi, giocatori inesperti a livello internazionale.

Andiamo a vedere nel dettaglio le età dei ragazzi convocati da Ventura, in particolare di quelli scesi in campo dal primo minuto:

Alessio Romagnoli- 12 gennaio 1995 (21 anni)










Federico Bernardeschi- 16 febbraio 1994 (22 anni)










Mattia De Sciglio- 20 ottobre 1992 (23 anni)










Marco Verratti- 5 novembre 1992 (23 anni)










Andrea Belotti- 20 dicembre 1993 (22 anni)










Ciro Immobile- 20 febbraio 1990 (26 anni)
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Sei titolari su cinque possono essere considerati giovani, mentre ci assumiamo la responsabilità di aver impropriamente incluso nella lista Ciro Immobile, che ha più di venticinque anni d’età e già un Mondiale e un Europeo alle spalle. poiché nelle sue precedenti esperienze raramente è partito titolare, e quindi a livello inconscio viene ancora considerato inesperto. Tutti gli altri giocatori in campo avevano più di ventisei anni, c’erano diversi ventisettenni e un paio di ultratrentenni.

Marco Verratti, all’indomani di una prestazione poco convincente, viene indicato come il giovane che deve prendere le redini del centrocampo ma, appunto, se ancora non convince è perché è giovane, deve maturare esperienza anagrafica in quel ruolo. Marco Verratti, che peraltro compirà 24 anni il prossimo mese, è alla sesta stagione nel PSG, squadra con cui ha totalizzato finora 111 presenze e ha vinto 4 titoli nazionali e altre 9 coppe di lega. Verratti avrà giocato male, ma difficilmente può essere considerato un giovane tout court, a livello internazionale.

Insomma, quando si tratta della Nazionale italiana di calcio, è un problema quando non ci sono abbastanza giovani, come si considerava di tanto in tanto con Conte quando le cose andavano male, ma parimenti è un problema anche quando ci sono dei giovani in campo, perché devono raccogliere le redini pesanti di Pirlo, di Albertini, di Antognoni e così via. Non stiamo parlando neanche di un esordiente come Federico Bernardeschi, alla sesta convocazione, ma di un giocatore che, se non fosse stato infortunato all’epoca dell’ultimo Europeo, avrebbe collezionato più delle 18 presenze che può vantare sin qui.

Ne consegue che Marco Verratti, campione consacrato a soli 23 anni, non può permettersi di giocare male una partita senza che si punti il dito sul suo status anagrafico di giovane, scaricando su di lui non tanto una pressione relativa al peso della maglia, ma un giudizio implicito sulle sue capacità di comprensione del ruolo e delle difficoltà che questo comporta. Una censura, insomma. Il centrocampista non ha sbagliato una partita perché era in serata storta, perché deve acquisire i meccanismi, perché non aveva portatori d’acqua all’altezza, per qualsiasi altro motivo: no, l’ha sbagliata perché ancora è giovane. Qualcosa di cui non verrebbero mai accusati i trentenni Marchisio e De Rossi. Allo stesso modo sarebbe altrettanto superficiale decidere che Buffon ha sbagliato l’uscita contro la Spagna, che ha portato al gol degli iberici, perché è vecchio.

Le contraddizioni sollevate da questo ragionamento hanno la stessa origine di quelle evidenziate analizzando il monologo di ‘The big Kahuna’: la dicotomia giovane/esperto porta a generalizzazioni gratuite, superficiali, fuorvianti. Se l’Italia avesse giocato bene, staremmo qui a commentare lo splendido futuro dei suoi giovani, invece ci troviamo a commentare le prestazioni di un gruppo di atleti sulla base della carta d’identità di alcuni. Trascurando oltretutto il fatto che si tratta di giocatori che hanno avuto finora non solo poche occasioni di scendere in campo insieme, ma che soprattutto hanno difficoltà a imporsi nei loro stessi club, si guardi il caso di Gabbiadini (in panchina contro la Macedonia) e Bernardeschi.

Il dibattito, più che calcistico, dovrebbe essere culturale e linguistico. Il termine giovane è un refugium peccatorum, una sintesi ideale per lodare o censurare un comportamento, per dire tutto e il contrario di tutto, in base alle necessità di chi sale in cattedra e che, ovviamente, è l’unico in grado di comprendere le dimensioni esatte del problema, perché ha più esperienza.

Si tratta di un discorso che chiaramente potrebbe essere esteso a più di un contesto, specie se immerso nella società in cui viviamo, e che abusa della parola giovane per fare della retorica sicura, tranquillamente ribaltabile a seconda delle occasioni (quante volte avete sentito o letto “i giovani sono il futuro del nostro Paese” e, con la stessa facilità “i giovani non hanno voglia di lavorare nei campi, altrimenti il lavoro ci sarebbe”). Personalmente ho sempre avvertito forte disorientamento nell’essere accostato a una categoria giovane: lo avvertivo a diciotto anni, quando subodoravo una specie di trappola nell’essere accostato a chi aveva dieci anni più di me e lo avverto oggi, superati i trent’anni, quando onestamente non mi sento giovane per niente, semmai la risultante delle mie esperienze pregresse, del rapporto tra la fiducia e le risorse ricevute da giovane e le mie scelte personali.

A maggior ragione nel calcio il paradosso è quello di sconsigliare a ventiseienni quali Immobile, Insigne e Florenzi di buttarsi a mare dopo pranzo perché gli farà male il pancino; con il rischio poi che il giorno in cui si sveglieranno trentenni non avranno avuto né il tempo, né la fiducia, per sbagliare una prestazione da atleti e non da ragazzi.

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