Formula Italia

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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11 min readMar 27, 2017

La percezione del tempo che passa è soggettiva e dipende da mille fattori: età della persona, situazione del momento, eventi miliari a cui fare riferimento, solo per fare qualche esempio. La notizia di Antonio Giovinazzi al volante della Sauber in sostituzione di Wehrlein è stata dapprima limitata ai soli test di fine febbraio a Montmelò, ma si è protratta in Australia: di nuovo un pilota italiano in griglia di partenza dopo sei anni di astinenza (Giovinazzi ha detto di aver pensato a uno scherzo, ma intanto si è pure qualificato 16°).

In uno sport come la Formula 1, dove lo scorrere del tempo è misurato in millesimi di secondo, quest’evento ha di fatto aperto il coperchio di un vaso di Pandora che coinvolge tre generazioni della famiglia dell’estensore del presente, in una spirale dove passato e presente si mescolano a ricordi personali, aneddoti di padri e figli. Un po’ come quando si seppe che Nico Rosberg sarebbe approdato in Formula 1 e la prima domanda che mio padre mi fece fu “Ma è il figlio di Keke?”. Tempus fugit, abbiamo visto padri e figli correre in F1 e vincere mondiali, abbiamo visto macchine turbo, pit stop vietati e poi immessi nuovamente, sospensioni attive, deviatori di flusso, gomme scolpite e tutta una infinita serie di innovazioni, passi avanti e passi indietro, sempre sul filo del centesimo, del millesimo e insieme sul flusso degli anni che scorrono e vedono poche, pochissime bandiere tricolori sul gradino più alto del podio. Quattro, nella decade 2000–2010, così come quattro furono negli anni ’90 contro le dieci degli anni ‘80, quando sulle guide dei GP di San Marino imparavo lettere e numeri.

Ed è proprio al tempo che passa inesorabile, che è poi l’essenza stessa di questo sport, che abbiamo pensato di dedicare questa galleria di piloti, dei quali la maggior parte sono sfilati sotto gli occhi di chi scrive, in un’epoca che sembra lontanissima e che magari tornerà presto.

1. The Good ol’ times: Nino Farina e Alberto Ascari

All’alba dei tempi, il dominatore della neonata Formula 1 è stato indubbiamente Juan Manuel Fangio. C’è voluto Michael Schumacher in tutta la sua teutonica freddezza e implacabilità per superare il primato di quello che era conosciuto come “El Chueco” (il gambestorte, grosso modo) diversi anni prima del genoano Gentiletti, che non è dato sapere se sia competitivo anche sulle quattro ruote, ma poco importa.

Eppure gli unici che sono riusciti a metterselo dietro, negli anni di grazia 1950 e 1953 — non nel 1952 perché Don Juan Manuel non partecipò alla pugna — sono stati i due italiani. Per inciso, gli unici due ad aver vinto il Mondiale di Formula 1 ad oggi. Se fossimo negli USA, probabilmente a quest’ora staremmo parlando di The Curse of The Chueco o qualcosa del genere, della quale tuttavia sono stati vittime in pochissimi: Alboreto vice-campione mondiale 1985, staccato di 20 punti da Prost — che col vecchio sistema di punti voleva dire un’enormità — , e Patrese, secondo nel Mondiale 1992 a -52 da Nigel Mansell, quasi doppiato in termini di punteggio. Poi ne riparliamo meglio, comunque.

Per fortuna non siamo negli Stati Uniti, in questo caso, e il tifo automobilistico si è così potuto tranquillamente concentrare sulle rosse di Maranello nella loro veste, ancor oggi universalmente riconosciuta, di rappresentante massima dell’italianità, qualunque cosa ciò voglia dire. Diversamente da quanto accade nelle due ruote, dove si tifano i piloti italiani in sella a moto giapponesi anche quando abbiamo moto italiane in lizza per il mondiale. Questo perché i titoli iridati vinti da piloti italiani nel Motomondiale sono stati 20 nella sola “classe regina” (un tempo 500, oggi MotoGP), mentre in Formula 1 siamo ancora fermi lì, a quota tre. Nino Farina, 1950. Alberto Ascari, 1952 e 1953. In attesa di un altro vessillo tricolore nella lista dei piloti vincitori del titolo iridato, così è se vi pare.

Alberto Ascari e Nino Farina nel 1950; alle loro spalle, la Pirelli già allora campeggia fiera.

2. Non si esce vivi dagli anni ’80: Riccardo Patrese, Michele Alboreto, Elio De Angelis

Negli anni ’80 i piloti facevano ancora una brutta fine, purtroppo. Il decennio che ha visto la definitiva affermazione della Formula 1 come sport di interesse globale si aprì con l’incidente mortale di Patrick Depailler nei test Alfa Romeo a Hockenheim nell’agosto 1980, anche se la decade è stata scossa in modo irreversibile da quanto accadde a Zolder quel maledetto sabato 8 maggio 1982, tanto da far passare quasi in secondo piano la successiva scomparsa di Riccardo Paletti, nel circuito che fu di casa del Piccolo Aviatore. Eppure gli anni ‘80 sono stati la decade più vincente che mi sia capitato di vedere, e questo principalmente grazie a tre moschettieri (più uno, come tradizione romanzesca esige: Alessandro Nannini, che pure vinse un GP a Suzuka nel 1989 e però meriterebbe un pezzo a parte): Elio De Angelis, Riccardo Patrese, Michele Alboreto.

Elio De Angelis, romano, viveva i suoi anni di grazia nel periodo in cui si andava a vedere i GP di Formula 1 a Imola con tribunette di fortuna costruite a ridosso delle reti di protezione, alla chicane delle Acque Minerali, in anni in cui le monoposto facevano un chiasso infernale. I bambini si tappavano le orecchie al passaggio delle monoposto, i genitori si esaltavano ed Elio guidava una delle macchine più belle di tutti i tempi, la Lotus con la livrea nera e oro griffata John Player Special. Tra l’altro, oltre ad essere una macchina bella, era anche discretamente veloce, ed Elio finì sul podio del circuito del Santerno per due anni consecutivi: terzo nel 1984, addirittura primo nel 1985. Cioè, secondo, solo che poi Prost venne trovato con la vettura sotto il peso minimo consentito e quindi i nove punti andarono al pilota romano. In quel biennio, Elio ebbe come compagni di squadra due futuri campioni del mondo: Nigel Mansell e Ayrton Senna. In classifica mondiale, si lasciò alle spalle il primo e finì a pochi punti dal secondo. Oltre alla vittoria già citata di Imola, arrivò sul gradino più alto del podio nel GP d’Austria 1982. È stato — probabilmente — l’ultimo pilota di un’era romantica della Formula 1 che oggi ci appare lontana come i telefoni a gettone con il tasto giallo per la restituzione.

Anche discreto pianista.

Tra i tre alfieri principali del tricolore nella Formula 1, Riccardo Patrese è stato quello dalla carriera più lunga, tanto che al momento del suo ritiro era il recordman per GP disputati (in anni in cui un mondiale aveva mediamente 6–7 gare in meno rispetto a oggi) ed è tuttora il quinto di ogni epoca, in procinto però di venir superato da Kimi Raikkonen. Il suo secondo posto nel Mondiale F1 1992 resta di gran lunga il miglior risultato ottenuto da un pilota tricolore ever since, eppure…

Eppure tra tutti gli italiani al volante di una Formula 1, il pilota veneto è stato forse uno di quelli che ho amato di meno. Colpa mia, lo dico col senno di poi, perché di fatto Patrese, che con i suoi sei gran premi vinti è secondo solo ad Ascari (22) tra i driver italiani, era forte per davvero, ma con un tipo di approccio alla F1 che sarebbe stato forse più adatto ai giorni nostri di quanto non lo fosse agli ultimi singulti di uno sport che viveva di personaggi ancor prima che di campioni del mondo. Patrese, soprattutto nei suoi primi anni nel circus, era considerato un tipo un po’ arrogante, anche se poi anche questa cosa si è smussata molto. Ha dovuto per anni convivere con l’accusa di aver innescato l’incidente che costò la vita a Ronnie Peterson a Monza, per la quale finì anche a processo, venendo comunque assolto — ma non c’era Internet, e detta così sembra una banalità, e invece era un altro mondo per davvero. Però correva quasi sempre con macchine straniere, anzi: con quelle era spesso il primo degli italiani. Era difficile tifare per lui, quando c’era Michele Alboreto al volante della Rossa di Maranello, e questo è un fardello con cui gli appassionati di sport motoristici da sempre convivono.

Già, Michele Alboreto. Che corse con la Ferrari per cinque anni. Vederlo al volante di un’altra macchina mi fece uno strano effetto, all’inizio. Anche se i miei occhi di bambino avevano già trovato un nuovo eroe nelle curve di Jacarepaguà, quel Nigel Mansell che vinse al suo esordio in Ferrari, dove aveva sostituito proprio Alboreto. Ma quanti gran premi passati a tifare per lui, un italiano al volante della Ferrari in lotta per un mondiale, ma in lotta per davvero, come fu il pilota milanese nell’anno di grazia 1985, quando rimase a pari punti con Alain Prost fino ad agosto, salvo poi inanellare cinque zeri (di cui quattro ritiri) consecutivi nelle ultime cinque gare del mondiale, che consegnarono l’iride al pilota francese. Era stato il primo pilota italiano a smuovere qualcosa nelle grazie del Drake Enzo Ferrari da tempo immemorabile, al punto che il patron della rossa era disposto anche a sacrificare il promettente Berger, pur di fargli guidare la Ferrari anche nel 1989, ma così non andò e la carriera di Michele Alboreto visse un declino abbastanza rapido dopo la sua partenza da Maranello, con il podio al GP del Messico 1989 come unico vero acuto. Se ve lo volete segnare, il 4 agosto 1985 è stato l’ultimo italiano a vincere un GP al volante di una Ferrari.

3. Past, present and future tense. Jarno Trulli, Giancarlo Fisichella, Alex Zanardi.

Parlare di uno come Alex Zanardi è talmente difficile, senza scadere nella retorica, che l’unico modo per farlo è attenersi ai suoi anni in F1 facendo finta che dopo non sia successo niente. Concediamoci questo patto narrativo e andiamo avanti.

Zanardi ha guidato, nella sua non lunghissima e non fortunatissima carriera nel circus, quasi sempre macchine molto belle a vedersi. La Jordan 191, con la sua livrea verde irlanda, è stata forse una delle monoposto più famose degli anni ‘90, se non altro per il fatto di aver fatto esordire un certo Michael Schumacher. Poi la Minardi M192, nera, bianca e gialla e capace di portare a casa UN solo punto in una stagione. Quindi la Lotus 107B, coi colori — per ragioni ovviamente di sponsor — della bandiera italiana, con cui Alex portò a casa il suo unico punticino in carriera. Poi il passaggio in Formula CART, le vittorie a ripetizione e un’altra chance in F1, con la Williams FW21 rossa, che non era neanche malaccio, se guidata da Ralf Schumacher, che infatti chiuse il mondiale al sesto posto, ma che vide Alex sempre fuori dalla zona punti. L’unica nota quasi positiva nel weekend di Monza, dove fu quarto in qualifica e in gara giunse ad un’incollatura da Eddie Irvine che chiudeva la zona punti. Perché ne parliamo, allora? Perche Alex Zanardi è indubitabilmente il più bel personaggio di sempre tra i piloti italiani di F1. Ecco, l’ho detto. Via il dente, via il dolore.

Più semplice parlare di Jarno Trulli, che dal 1997 al 2011 è stato praticamente sempre presente in F1. Dopo le prime gare in Minardi, il pilota abruzzese se ne andò alla Prost GP in sostituzione di Olivier Panis, che l’anno precedente visse il suo momento di massimo splendore quando riuscì a vincere il suo primo e unico gran premio a Montecarlo. Forse avrete già capito dove voglio andare a parare, comunque andiamo avanti. Nel corso delle sue 15 annate nel circus, Jarno è andato a podio con la Prost, con la Renault e con la Toyota, sfiorandolo anche con la Jordan e non andandoci neanche lontanamente vicino nei suoi due anni alla Lotus. In totale, per 11 volte ha stappato la bottiglia di champagne che viene consegnata ai primi tre classificati di un gran premio, ma il suo nome è salito alla ribalta delle cronache motoristiche soprattutto in un’occasione, quando nel 2004 centrò l’accoppiata pole position più vittoria in un gran premio, uno dei più prestigiosi della storia di questo sport. Come il suo predecessore Olivier Panis, infatti — ma in modo molto meno rocambolesco — l’unica vittoria di Jarno è stata quella di Montecarlo 2004. Il fatto che sia anche produttore di vini non aggiunge niente al suo valore sportivo, casomai al personaggio.

Meglio di lui ha fatto Giancarlo Fisichella, che di GP ne ha vinti tre (uno con la Jordan e due con la Renault), totalizzando 19 podi. Questo, numeri alla mano, fa di lui il miglior pilota italiano di F1 degli ultimi vent’anni, opinione che sottoscrivo, condivido e della quale sono convinto al di là delle fredde cifre. Io però con Fisico ci vorrei andare una sera a bere un paio di gin tonic e farmi raccontare da lui come cavolo sia stato possibile aver chiuso la sua carriera in F1 in quel modo (Giancarlo, se leggi questo pezzo, l’invito è valido sul serio, eh).

Correva l’anno 2009, in Ferrari c’era Felipe Massa infortunato — l’infortunio più assurdo della storia di questo sport — e a Maranello, dopo aver dato per due gare il volante a Luca Badoer (che non correva un GP da Suzuka 1999!), vedono che Fisichella termina il GP di Spa-Francorchamps alle spalle di Kimi Raikkonen, alla guida di una Force India che fino a quel momento era macchina nota quasi solo agli addetti ai lavori, avendo totalizzato fin lì la bellezza di ZERO punti mondiali in un anno e mezzo abbondante. Ecco, con quella macchina lì Fisichella arriva SECONDO, capite l’enormità della cosa? Se non la capite, immaginate Haryanto l’anno scorso a ridosso di un Bottas. Ok, a quel punto lì in Ferrari decidono di puntare su di lui appiedando Badoer, affidandogli una macchina che non sarà stata mostruosamente veloce, ma che comunque aveva portato Massa sul podio nella gara precedente a quella dello stop forzato, e aveva permesso a Raikkonen di inanellare quattro podi consecutivi tra i quali la già citata vittoria in Belgio. E cosa mi combina Fisichella?

Niente.

Ok i due GP vinti con la Renault, ma il primo non si dimentica mai. Specie se l’hai vinto nell’acquazzone folle di Interlagos, con una Jordan ormai nelle retrovie.

Disastroso in qualifica, mai a punti, un veterano come lui schiacciato dalla pressione di aver finalmente coronato il sogno di ogni bambino che inizi a correre su quattro ruote, guidare una Ferrari. Con l’onta di aver chiuso il suo ultimo GP della carriera dietro a Tonio Liuzzi, che in Force India era stato il suo sostituto. Proprio lui e Trulli erano sulla griglia di partenza di Interlagos nel 2011, ultimi italiani ad aver partecipato ad un gran premio fino a ieri mattina, fino all’esordio quasi a sorpresa di Giovinazzi (12°: complimenti), nonché ultimo italiano ad essere andato a punti (il 24 ottobre 2010 nel GP di Corea), cosa per la quale merita una citazione in questo pezzo.

Adesso io che ho scritto questo excursus ho un figlio di 5 anni e mezzo e Giovinazzi sarà il primo pilota italiano di Formula 1 che lui vedrà correre. Ha l’età che avevo io quando Alboreto correva al volante della Ferrari e De Angelis faceva coppia in Lotus con Ayrton Senna. Spero davvero che gli farà vivere le stesse emozioni che ho vissuto io alla sua età: lo spero per lui, e anche per mio figlio.

Articolo a cura di Roberto Gennari

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