Giro d’Italia 2014: il riscatto della Colombia e la promessa Sarda

Crampi Sportivi
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5 min readJun 3, 2014

Erano in due lo scorso anno sul Mont Ventoux: Nairo Quintana e il futuro vincitore del Tour de France Chris Froome. Il volto del colombiano come quello di una maschera senza tempo mentre dominava i terribili tornanti francesi, schivo e impenetrabile. All’arrivo le gocce di sangue che sgorgavano dalle narici del suo naso erano l’emblema esatto dello sforzo, dell’impresa, del dolore, nascosto sotto il volto enigmatico e incapace di esprimere qualsiasi sentimento umano.

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Nairo Quintana sfinito all’arrivo sul Mont Ventoux[/caption]

Quest’anno Nairo Quintana ha vinto la 97 edizione del Giro d’Italia, e le ho fatto da solo, circondato spesso dall’invidia e dalle polemiche di chi non ha saputo riconoscere il dominio del più forte. Un Giro d’Italia partito in sordina, privo di nomi di spessore — tutti al Tour De France — ma che ha saputo regalare momenti difficilmente dimenticabili.

A differenza dello scorso anno, quando Vincenzo Nibali ha continuato ad attaccare senza indugi, nonostante la maglia rosa sulle spalle, Nairo Quintana si è gestito, ha controllato (forse fin troppo) ma alla fine ha vinto. Una vittoria che resterà storica soprattutto per quello che rappresenta per il suo paese: la Colombia. Non solo per la prima volta nella storia un colombiano ha vinto il Giro d’Italia, anche il resto della corsa rosa è stato completamente dominato dai piccoli corridori sud americani, qualcuno già noto e altri di cui sentiremo parlare presto. Dal vincitore Nairo Quintana, ad Arredondo — maglia azzurra per il miglior scalatore del Giro, passando per Rigoberto Uran, secondo della generale e protagonista in maglia rosa fino alla tappa decisiva dello Stelvio, e poi anche Pantano ed Henao.

Tutti protagonisti, tutti colombiani, tutti eccezionali scalatori, che è poi quello che fa la differenza per vincere una corsa a tappe. Nel corso degli ultimi anni la Colombia ha saputo riscattarsi dalle delusioni del passato, affermandosi ormai in modo definitivo come il paese capace di ridurre nel più breve tempo possibile la distanza dall’Europa, considerabile la vera culla del ciclismo internazionale.

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Giro d'Italia 2014, tappa 20 Maniago - Zoncolan

Nairo Quintana e Rigoberto Uran in azione sul Monte Zoncolan[/caption]

Non solo Colombia però, tanta Italia, anzi per la precisione: tanta Sardegna. Fabio Aru è la sorpresa più bella di questo Giro d’Italia. Oltre la vittoria a Montecampione — la stessa salita che regalò la maglia rosa a Marco Pantani nel 1998 -, e oltre la vittoria sfiorata per pochi secondi nella cronoscalata verso Monte Grappa, Fabio Aru ha messo in mostra tutto il suo valore e tutte le sue capacità, tanto mentali quanto fisiche, che fanno ben sperare per il futuro del ciclismo italiano. Al primo anno con i professionisti si è classificato terzo nella generale, centrando sia il podio che una della tappe più prestigiose dell’intera corsa. Numeri per pochi. Ad impressionare però non sono tanto le vittorie o le imprese sfiorate, quanto il suo modo di correre, la capacità di saper interpretare una corsa con l’esperienza del veterano nonostante i ventitre anni.

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La gioia di Fabio Aru dopo la vittoria a Montecampione[/caption]

Con le dovute proporzioni, esagero nel dire che mi ricorda qualcosa di Marco Pantani ?

Montecampione, Monte Grappa e Zoncolan sono state le tappe più belle dell’intera corsa. La migliore però resta quella di Val di Martello, con la terrificante doppia ascesa verso Gavia e Stelvio, forse la più spettacolare degli ultimi anni, non solo perché decisiva per le sorti finali del Giro — è qui che Nairo Quintana ha sfilato la maglia rosa a Rigoberto Uran senza mollarla più — quanto per le difficoltà altimetriche e soprattutto atmosferiche che i corridori hanno dovuto affrontare lungo il tragitto.

Nell’epoca dell’attendismo, del calcolo asfissiante e della programmazione dei minimi dettagli, la tappa dello Stelvio ci ha riportato indietro di qualche anno. Immagini ipnotiche, uomini in solitudine che pedalano in uno sforzo progressivo sotto una bufera di neve, tra freddo, pioggia, visibilità ridotta e pericoli incombenti; è l’estetica delle due ruote, capace di trasformare una corsa in una gara di resistenza, in un raccoglimento che isola il corridore da tutto quello che è al di fuori di quell’istante. La discesa dello Stelvio è lo spazio meta-storico, l’attimo che si dilata e relativizza il tempo, la meditazione in solitaria a colpi di pedale. In altre parole, è più semplicemente quello che viene definito l’eroismo dei corridori, sottratti alla programmazione dell’atleta e restituiti alla mitologia, figure in grado di imprigionare lo spettatore davanti ad uno schermo televisivo o ai lati di una strada innevata.

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La terrificante discesa dello Stelvio[/caption]

L’attacco di Nairo Quintana ai meno cinquanta km dall’arrivo, l’ascesa verso Val di Martello, la vittoria di tappa e infine la conquista della maglia rosa. Una giornata storica che neanche le polemiche potranno cancellare.

Detto questo, non bisogna dimenticare la differenza tra vincere e stravincere. Dopo la conquista della maglia rosa Nairo Quintana ha preferito gestire il Giro invece che dominarlo, e questa è forse la differenza che rende — nonostante i momenti altamente spettacolari — questa edizione della corsa meno avvincente rispetto a quella dello scorso anno vinta da Vincenzo Nibali.

Oltre a dare il via all’epoca dei piccoli scalatori della Colombia, pronti ad umiliare i colleghi del vecchio continente, quest’anno il Giro potrà forse essere ricordato in futuro come l’edizione che ha dato il via libera all’era di Fabio Aru, di quella che oggi sembra solo una bella promessa ma che in futuro sarà quasi senz’altro una realtà a tutti gli effetti.

Andrea Minciaroni quasi antropologo, quasi ciclista e quasi redattore. Da quando gli hanno rubato il notebook ha smesso di giocare a Football Manager. @andreminciaroni

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