Gli 11 giocatori più esaltanti della storia nerazzurra recente

Crampi Sportivi
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11 min readMar 9, 2016

108 anni di storia dell’Inter.

Abbiamo scelto di festeggiarli con una selezione dei giocatori che più hanno esaltato la San Siro nerazzurra.

Portiere — Gianluca Pagliuca

Pagliuca non è soltanto uno dei migliori portieri della storia del calcio italiano e dell’Inter, Pagliuca è gli anni Novanta: l’espressione quadrata e la mascella alla “Zanardi”, Il ciuffo preso in prestito da un video di Repetto e Pezzali, rigorosamente in questo ordine. E ora scusate ma devo lasciarvi che le lacrime stanno inondando la tastiera ed è finito il caricamento di Dragon Ball sulla Play Uno.

Terzino destro — Javier Zanetti

C’era una volta un ragazzo che correva, con la riga nei capelli e le scarpe lucidate. La storia di Javier detto ‘Pupi’, per via del fratello Sergio, è risaputa e di dominio pubblico. L’invisibile agli occhi saintexuperyano del trattore col numero 4 sta, invece, proprio nell’essenziale. Approdato come ‘lato B’ di Rambert, Zanetti ne mostrava ben poca di essenzialità in quel lontano ’95, ma di tempo per palesarla ne avrebbe avuto.
Mille slalom, mille recuperi, mille diagonali, qualche gol. Come quello a Parigi, bellissimo. O quello in casa con la Roma, tanto insperato quanto fondamentale.
Il capitano del ‘non vincete mai’, del ‘no’ al Real Madrid dei Galacticos e delle tre coppe in una settimana. Mai miglior attore, sempre fondamentale; l’animo del tifoso neroblu applicato a San Siro.
Se c’è un episodio della sua carriera che più di un gol o di una serpetina lo consacra è il grande “no, mister questo non glielo permetto di dirlo!”. Parlava Lippi . Di Juve. Di timore reverenziale. Troppo per le orecchie del più grande dei mediocri della storia nerazzurra. Innamorato della maglia a tal punto da indossarla più volte di chiunque altro.

Difensore centrale destro — Beppe Bergomi

Bergomi si presentò imbronciato e baffuto ai Mondiali del 1982: finita la carriera è la pacata voce che accompagna le smodate esultanze di Fabio Caressa, al quale strappò la frase forse più gettonata della storia recente del calcio italiano (Quel “Andiamo a Berlino Fabio!”, lascito euforico di un momento in cui accantonare l’aplomb).
In questo processo di rinnovamento annuale dell’ elisir di giovinezza una cosa è rimasta: la calma e la serenità d’animo e spirito con cui ha guidato l’Inter per vent’anni e 519 partite. Tranne quando c’era da marcare qualcuno: là erano botte.

Difensore centrale sinistro — Taribo West

“Dio mi ha detto che devo giocare nell’ Inter” , “Strano, a me non ha detto niente”.

Parole e musica di Taribo West, difensore dell’Inter e il suo allenatore dell’epoca (un’epoca molto buia) Marcello Lippi. Taribo West non è stato solo un giocatore. Lui è stato molto di più: è una icona cult! D’altronde stiamo parlando di un giocatore che si è autoproclamato pastore pentecostale con il nome di Pastor West e che ha fondato a Milano una chiesa pentecostale dove centinaia di fedeli si radunavano per sentire i suoi sermoni dopo canti, preghiere e danze in stile James Brown in “Blues Brothers”. E tutto questo abbandonando il Kaiserslautern allenato da Andreas Brehme (perché le storie dell’Inter sono sempre connesse) con cui era all’epoca sotto contratto. Stiamo parlando di un giocatore di cui ancora oggi non sappiamo se il 26 marzo compirà 42 anni o 54 come Zarko Zecevic, ex presidente del Partizan, squadra in cui Taribo ha militato dal 2002 al 2004, sostiene. Stiamo parlando di un giocatore che nella sua brevissima parentesi al Milan si lamentò perché “non giocava nonostante fosse più forte di Maldini”. All’Inter ha disputato due stagioni e di lui si ricordano le treccine verdi in onore del suo paese, la Nigeria, l’entrata a forbice a Kanchelskis in un Inter — Fiorentina 3–2, l’abbraccio con cui travolse l’allenatore Gigi Simoni dopo aver segnato il gol del 1–2 a Bergamo nell’ottava giornata del campionato 1997–98 .

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Terzino sinistro — Andreas Brehme

11 Maggio 1998, partita di addio al calcio di Walter Zenga. L’Inter ha vinto la Coppa Uefa da cinque giorni nella sfida tutta italiana con la Lazio e, nonostante le vicissitudini in campionato, il clima è di festa a San Siro. Tra i giocatori in campo svetta un ragazzotto di 38 anni, appena laureatosi campione di Germania con il neopromosso Kaiserslautern, che domina la fascia sinistra e che fa cantare alla Curva Nord il coro “Compraci Brehme, Moratti compraci Brehme”. Andreas Brehme venne all’Inter nell’estate del 1988 come “portaborse” di Lothar Matthäus, il grande acquisto nerazzurro fortemente voluto da Giovanni Trapattoni, ma si rivelò subito la pedina chiave per lo scudetto 1988–89 dell’Inter, il cosiddetto scudetto dei “record”, riempiendo di cross dal fondo il centravanti Aldo Serena (uno che in carriera in Serie A non aveva mai raggiunto prima e dopo la doppia cifra di gol segnati in una stagione e che nel 1988–89 è stato capocannoniere del campionato con 22 gol). Brehme è il grande protagonista della vittoria della Germania Ovest nel 1990 durante i quali segna un gol stupendo all’Olanda di Gullit, Rijkard e Van Basten in un San Siro che respira aria di derby e, soprattutto, segna il rigore decisivo nella finale contro l’Argentina di Maradona. E pensare che il rigorista designato non era lui: Matthäus si tirò indietro per un problema ai tacchetti del suo scarpino destro e Völler non se la sentì di tirarlo al posto del suo capitano perciò rimase Andreas come unica scelta percorribile. Appesi gli scarpini al chiodo le cose per Andy si sono fatte difficili soprattutto dal punto di vista economico: è stato sommerso dai debiti. Franz Beckembauer, allenatore della Germania Ovest nel 1990, ha raccontato il suo dramma per mobilitare il mondo del calcio tedesco ma l’unico ad aver risposto al suo appello è un altro ex calciatore tedesco, Oliver Straube, che gli ha offerto un impiego nella sua impresa di pulizie. Un epilogo così così per quello che insieme a Giacinto Facchetti è stato il miglior terzino sinistro della storia dell’Inter.

Mediano — Nicolone Berti

Nel cuore dei tifosi puoi entrarci a suon di gol e belle giocate, ma a volte basta una frase. A Nicola Berti da Salsomaggiore è bastata questa: “meglio sconfitti che milanisti”. Nicolino misurava il campo in falcate, mica in metri. La sua corsa non era esplosiva. Guadagnava velocità piano, distendendo con eleganza le gambe lunghissime. Non sembrava capace di accelerazioni improvvise (anche se un gol contro l’Ascoli potrebbe smentirmi). Il fatto è che, a guardarlo, non sembrava poi così veloce, ma poi finiva spesso per seminare gli avversari. Chiedete a quelli del Bayern. Per me Berti è tutto nel gol contro i bavaresi, è tutto in quella corsa aggraziata e irrimediabile da un area all’altra. C’è un senso di libertà purissima nel numero otto dell’Inter che ruba palla e fa la cosa più semplice: correre. Ormai epica (e introvabile) una sua foto swag prima ancora che il concetto di swag venisse codificato: Nicolino con il sigaro tra le labbra, durante Italia ’90.

Centrocampista destro — Youri Djorkaeff

L’avventura all’Inter di Djorkaeff si riassume tutta nella famosa rovesciata alla Roma. Talento e tecnica sopraffina, con questa iconica volé Youri si guadagnò la devozione dei tifosi e…la copertina dell’abbonamento per la stagione 97/98. Leggendario.

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Centrocampista sinistro — Evaristo Beccalossi

Evaristo Beccalossi, ma solo all’anagrafe: per tutti il Becca.
Arrivato nella stagione 1978, fa subito in fila innamorare ambo i sessi a San Siro e maledire con la stessa foga gli allenatori per la sua etica lavorativa non proprio stakanovista.
Probabilmente sarebbe stato bene a fare il “Palo nella Banda dell’Ortica”, alto, dinoccolato, con una sigaretta a mezza bocca, come quelle che spesso fumava a fine allenamento.
Collezionò 216 presenze con la maglia nerazzura (condite da 37 gol) e conquistò lo scudetto della stagione 1979/1980. Nonostante il furor di popolo non venne convocato per il Mundial 1982, ma se vi aggirate per i dintorni di Milano vi diranno che la Storia non la scrivono solo i vincitori ( anche grazie a Paolo Rossi per il preciso lavoro di conservazione della memoria storica).

Trequartista — Alvaro “el Chino” Recoba

Nel cuore del tifoso più malinconico c’è il sinistro di Recoba. Il Chino è stato l’incarnazione quasi perfetta dell’Inter morattiana: una tensione costante alla bellezza e una vocazione senza rimedio alla sconfitta. Dall’esordio scintillante contro il Brescia, passando per l’esplosione a Venezia fino al ritorno a casa al Nacional Montevideo, Recoba ha deliziato il mondo con il suo mancino: il tiro forte e preciso da fuori area (a volte molto fuori area), le punizioni che sfidavano le leggi della geometria euclidea, i beffardi gol olimpici, gli assist confezionati con la cura di un artigiano. Lo guardavi e sapevi che avrebbe potuto risolvere la partita in qualsiasi istante. Ma sapevi anche che avrebbe potuto smarrirsi nell’anonimato. Recoba ha incarnato un’idea di calcio evanescente, effimero, in cui la bellezza brilla con fulgore per pochi istanti indimenticabili Riguardare, adesso, i suoi gol significa allenarsi all’esercizio della nostalgia.

Attaccante destro — Diego Milito

L’ultimo treno per la gloria eterna è un Milano-Monaco di Baviera, un last minute da prendere al volo per provarci ancora una volta. Diego, arrivato in stazione dalla lontana Bernal, è stanco: il volto scolpito riconsegna l’espressione di chi ha combattuto tanto, di un giocatore che alla soglia dei trent’anni potrebbe accontentarsi di scrivere sulla targhetta dei bagagli “Principe”, raccogliere le ultime cose e tornare da mamma Argentina, laddove un principe sta bene anche senza corona.
Ma Diego no. Diego era l’esultanza più bella di uno scatenato Francesco Repice, la nota finale di una sinfonia perfetta, il movimento calibrato al millimetro in area di rigore e quello sguardo un po laconico, un po Robert De Niro.
Sulla strada che porta a Monaco, in quella benedetta stagione 2009–2010, Diego sale a bordo della locomotiva nerazzurra timbrando un biglietto da semplice passeggero, dividendo la carrozza con Thiago Motta, salito come lui a Genova. A fine viaggio Milito avrà messo insieme 30 reti in 52 presenze, portando a casa tre trofei che diverranno leggendari e indossando i panni del capotreno, scalando e scaldando le gerarchie nei cuori dei tifosi e nelle formazioni di Josè Mourinho, che lo renderà il terminale offensivo di un ingranaggio perfetto.
Diego è stato l’uomo giusto al momento giusto, il lato sognante di ogni tifoso interista che preferirebbe una vita da Milito che cento da Adriano: giorni e giorni passati con le ginocchia sull’erba, a dimenarsi in area per un gol, per l’unico gesto autentico che alimenta le fantasie di un centravanti.
Prima sembrava Francescoli, poi una versione moderna di Batistuta, infine Diego Alberto Milito, il prontuario umano dell’attaccante definitivo.

Attaccante sinistro — Ronaldo Luis Nazario da Lima

Ronaldo. Meglio conosciuto come ‘quello vero’ per la gioia dell’umil Cristiano, il Fenomeno all’Inter ha sempre messo a dura prova le coronarie dei suoi tifosi; che poi sono diventati i suoi peggiori haters. Ma mai troppo, in fondo al cuore. Probabilmente il più forte della storia ad aver vestito la mise nerazzurra, sicuramente colui che è riuscito a scalzare il tedioso binomio Maradona-Pelé, in termini di principale divinità in una religione erratamente monoteista come il pallone. Messi è il nuovo Maradona; Neymar il nuovo Pelé; Ronaldo è Ronaldo e altri potranno provare a essere i nuovi lui.
Il ragazzo di Rio è arrivato a Milano sottobraccio a Moratti, che sapeva di averla fatta grossa come non mai, nella torrida estate del ’98. Aveva il sole in testa e il fuoco nei piedi. Se ne è andato uomo, a fine agosto 2002, dopo un Mondiale vinto, con una luna in capo. Dall’alba al tramonto.
Il frontale con Iuliano, il paso-doble a Marchegiani a Parigi, il pianto di Roma. La rabbia, l’akmé e il dolore in mezzo a tanti, troppi capolavori intervallati dall’urlo straziante per colpa di quel maledetto ginocchio. Mai banale, Ronaldo.
Non quello riccioluto che vestiva la maglia rossonera; non quel signore sovrappeso che un mesetto fa era in tribuna a San Siro di fianco a un imbiancato Massimo Moratti. Il Fenomeno all’Inter ha cambiato per sempre il modo di attaccare. E forse, anche, di godere sugli spalti.

MENZIONI SPECIALI

Walter Zenga

Yoy know, for just being Walter Zenga.

Ivàn Ramiro Cordoba

Essere alti poco più di un metro e diventare uno dei difensori più solidi al mondo è possibile. Ce lo ha insegnato il buon Ivan Ramiro. Grande velocitá, anticipi fulminanti (chiedere, per esempio, a sua maestà Cristiano Ronaldo e Wayne Rooney), imperiosi stacchi di testa grazie a una spaventosa elevazione e un discreto senso del gol. All’Inter dal 2000 al 2012, diventa un idolo della tifoseria e dopo il ritiro ricopre anche il ruolo di Team Manager nella societá nerazzurra.

Marco Materazzi

Perché dai, arbitro, ho preso la palla.

Checco Moriero

Moriero: sgaloppate infinite sulla fascia destra, gol in rovesciata ( https://www.youtube.com/watch?v=ixIBI4w0kBw) e slalom con gol annesso persino nella nebbia padana (https://www.youtube.com/watch?v=mCmWAkYI7DQ). Uno dei punti di forza dell’Inter QuasiCampionedItalia di Gigi Simoni.

Lothar Matthaeus

Arnold Schwarzenegger in un corpo a dimensione di lattina, con due piedi da 10, in grado di giocare a tutto campo, e con la personalità di una squadra intera. Che dire di più?

Ivàn Zamorano

Zamorano: attaccante cileno consegnato alla storia nerazzura soprattutto per il suo iconico numero di maglia: 1+8, il tutto per aver ceduto il numero 9 a un certo Luiz Nazario da Lima (in arte Ronaldo). Raro esempio di predatore d’area di rigore, aveva nel colpo di testa la sua arma migliore, tecnica affinata nel salotto di casa durante la sua infanzia colpendo lampadari (!!!) con la testa appunto.

Karl-Heinz Rummenigge

Era lui il grande campione che il nuovo presidente dell’Inter Ernesto Pellegrini aveva promesso a noi tifosi nel momento del suo insediamento. Un giocatore straordinario, vincitore di palloni d’oro e di Coppe dei Campioni, che lasciava il Bayern Monaco, uno squadrone, per sposare i progetti di grandezza di quella nuova Inter che stava nascendo. Karl-Heinz Rummenigge per me e per tutti i tifosi della mia generazione ha rappresentato molto; un sogno, soprattutto, quello di riuscire a riportare l’Inter a vincere tutto, in Italia e in Europa, dopo anni di campionati anonimi e di uscite repentine da quella che allora si chiamava Coppa Uefa. Io lo vidi per la prima volta dal vivo a San Siro, contro il Verona, l’anno in cui proprio gli scaligeri clamorosamente vinsero poi lo scudetto. Ricordo che quando entrò in campo, circondato dai fotografi che immortalavano il suo battesimo nella Scala del calcio, apparve a noi tifosi come un gigante sorretto da due gambe che sembravano delle querce, tanto erano forti e robuste. Sulle spalle di quel ciclope biondo si erano caricate tutte le speranze del popolo interista di ritornare ai fasti e alle vittorie dell’epoca di Moratti padre. In quella partita, poi finita 0 a 0, non brillò troppo ma noi eravamo sicuri che il tempo ci avrebbe fatto vedere il fuoriclasse ammirato anche durante i mondiali del 1982 in Spagna e che aveva trascinato la sua nazionale fino alla finale poi perduta con l’Italia. La coppia di goleador che Kalle formava con il suo compagno di reparto Spillo Altobelli era senza dubbio una delle più forti e meglio assortite d’Europa. Uno forte e potente, l’altro agile e talentuoso. Ricordo un suo missile terra aria che finì nella porta del Milan e un gol di testa, in elevazione, in un indimenticabile 4 a 0 per l’Inter contro la Juventus a San Siro. Ma quello più spettacolare sarebbe stato un gol segnato con una straordinaria acrobazia ai Glasgow Rangers in una partita di Coppa Uefa a San Siro, una prodezza che un arbitro sciagurato annullò per un inesistente gioco pericoloso da parte del campione tedesco. Fuori dal campo era un uomo gentile, paziente, sempre disponibile per firmare un autografo o farsi scattare una foto, un uomo tranquillo, che amava vivere in famiglia e che quasi si vergognò, una volta, a confessare alla Gazzetta dello Sport di avere anche lui una piccola passione extracalcio, quella di collezionare orologi da polso.

Articolo a cura di Sebastiano Bucci, Andrea Centenari, Massimiliano Chirico, Lorenzo Dragoni, Sebastiano Iannizzotto, Maurizio Nisi e Francesco Zanza.

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