Gli atti degli apostoli di Cruijff

Crampi Sportivi
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44 min readOct 18, 2016

Copertina di Fabio Imperiale

La notte in cui tornarono, radunandoci di nuovo tutti, avevano il sorriso tronfio di chi si è appena accaparrato Neymar e Pelé, svincolati, all’ultima ora disponibile dell’’ultimo giorno dell’ultima finestra di mercato.

Facile con un Paese così grande e così ricco di calcio come il Brasile, sghignazzarono, ma non sapreste fare altrettanto con un posticino assai più piccolo, dove molta meno gente gioca a pallone. Gli alieni invasori, tonti come solo l’apocalisse sa essere, avevano però commesso l’errore di anticiparci le loro mosse nel giorno in cui avevamo difeso il Brasile e allora fu facile per noi, quasi liberatorio, mettere sul piatto l’Olanda.

Siete dei drogati, ci rinfacciarono loro. Lo fate solo per andarvi a rifugiare in un posto tranquillo dove potervi concedere l’oblio, tramite i vostri vizi.

Questo perché non avete mai sentito parlare del calcio totale, gli rispondemmo, mentre ci mettevamo seduti comodi.

Episodio 2 — Gli olandesi

Dennis BERGKAMP

Bello, elegante e fifone. Dennis Bergkamp sarebbe potuto passare alla storia soltanto per una carriera infarcita di giocate formidabili, come il gol che segnò all’ultimo minuto dei quarti di finale contro l’Argentina a Francia ’98, dopo aver agganciato un lancio di 60 metri di Frank De Boer, aver aggirato Roberto Ayala e anticipato l’uscita di Carlos Roa. Fu un destro d’esterno istantaneo, fulmineo, all’incrocio dei pali. Con la maglia dell’Arsenal realizzò un gol contro il Newcastle che fu figlio di una danza intorno al pallone conclusa con un tocco morbidissimo in rete. Eppure, nonostante la sua leggerezza manifesta, Bergkamp passerà alla storia anche per la sua paura di spiccare il volo. Tutto iniziò durante il viaggio dell’Olanda verso Usa ’94. Colpa di uno scherzo di cattivo gusto fatto da un giornalista: «C’è una bomba». Quelle quattro parole terrorizzarono Bergkamp al punto di convincerlo a non prendere mai più un aereo, muovendosi in auto per tutte le trasferte dei Gunners e della nazionale Oranje, rinunciando a quelle più complicate, come il Mondiale di Giappone e Corea 2002. Questa fu la contraddizione dell’Olandese non-volante che sul campo, con i piedi, scriveva poesie ma che fuori dal campo aveva paura a staccarli da terra. Perciò assicuratevi che dorma quando, fra i primi perché è quello il suo posto, lo caricherete sull’astronave.

Daley e (soprattutto) Danny BLIND

Avere un figlio, per la generazione dei trentenni a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, era tutto sommato una scelta non passiva ma determinata da un concetto normalizzato dell’evoluzione. Fu così che Danny Blind, calciatore classe ’61, capitano dell’Ajax e della nazionale olandese, pensò bene di non contravvenire a certi disegni preconfezionati dalla natura umana. Eppure, se le colpe dei padri passano ai figli, non è detto lo stesso accada con le virtù. Il passaggio da difensore laterale a centrale, che fu una benedizione per il padre, suscitò emulazione per il figlio Daley che al centro della difesa del Manchester Utd — ma cresciuto nel giardino di casa all’Ajax — in questa linea temporale non sta lasciando particolari segni positivi. Forse l’eleganza del “Baresi oranje”, capace di contendere ai migliori liberi del tempo l’eredità di sua maestà Beckenbauer, mi sa che salta una generazione. O che ai cromosomi, talvolta, fischiano fuorigioco.

Jasper CILLESSEN

-Cillessen?

-Sì?

-Jasper Cillessen?

-Sono io, ma chi parla?

-Ti va di fare la storia, Jasper?

-Ma chi parla?

-La Storia, Jasper!

-Nel senso che è la storia che parla? O che devo farla io…?

-Jasper, l’ultima partita…

-Sì…

-Quella cosa strana della sostituzione all’ultimo del portiere prima dei rigori…

-E quel portiere ero io, quello sostituito.

-Quel portiere eri tu, quello sostituito, mentre l’altro, quello subentrato, l’altro faceva un po’ la storia. Ma solo un po’, una storia piccola, dimenticabile: un quarto di finale contro il Costarica, cerchiamo di essere seri…

-Meglio di niente, comunque…

-Ma stavolta non ci saranno sostituzioni.

-Ah, no?

-No. Sei pronto per fare la Storia, Jasper?

-Non lo so. Vincere tre campionati di fila con l’Ajax (uno da titolare) vale?

-No. Parare il rigore di Messi, parare quello di Aguero, irrompere in finale contro i crucchi, questo è fare la storia.

-Toccare quello di Maxi Rodriguez e farlo entrare comunque?

-Senti, Jasper, fa’ come ti pare. Ma poi non lamentarti quando arriveranno gli alieni e non ti reputeranno degno di essere salvato, visto che non hai fatto niente di eccezionale in carriera.

-Au contraire, cara Storia. L’impresa eccezionale è essere normali, e io, modestamente, sono un portiere olandese normalissimo, che arriva a un passo dalla storia e la guarda passare.

-…

-Buona notte!

Philip COCU

Un uomo di squadra, un uomo per la squadra. Negli anni pre-Guardiola dello strapotere galactico, quelli che andarono da Van Gaal a Rijkaard, Philip Cocu fu il perno del centrocampo blaugrana, del quale ricoprì tutti i ruoli. Centrocampista box-to-box prima ancora che il termine diventasse di uso comune, quella che fu una colonna del PSV all’inizio e alla fine della sua carriera visse i suoi anni migliori in Catalogna, dove vinse solo una Liga, al suo primo anno, ma arrivò a indossare la fascia di capitano. Tecnicamente non fu tra i più dotati figli del calcio totale e della sua seconda genesi, ma tatticamente si impose come uno dei suoi prodotti più fedeli, tanto da arrivare a giocare come interno, come laterale, come terzino e persino come libero.

Johan CRUIJFF

Ad Amsterdam, a pochi chilometri dallo stadio che oggi ospita le partite dell’Ajax, c’è un quartiere che si chiama Betondorp. È fatto di casette basse in calcestruzzo, ed è lì che ha mosso i primi passi e calciato i primi palloni Johan Cruijff, il più grande calciatore europeo di tutti i tempi. Un assioma che in pochi hanno il coraggio di provare a smentire e che si poggia su 442 gol tra club e nazionale. Ed è comunque riduttivo, persino volgare, rinchiudere Cruijff nella gabbia del finalizzatore. Se esiste un uomo che, da giocatore prima e allenatore poi, ha incarnato perfettamente la totalità del calcio non solo come sport, ma come letteratura, è il suo Profeta. Centravanti, ala, regista offensivo, persino libero nel finale di carriera. Cruijff ha innovato il pallone nella sua circonferenza, nel suo diametro e in tutto ciò che gli sta intorno. Peraltro, quando ancora si giocava con i numeri dall1 all’11, fu lui a inventarsi le maglie personalizzate, trasformando la 14 di un panchinaro in un memorabilia, uno status symbol. Quanto la Cruijff turn, quasi un auto-tunnel, un incantesimo in cui la palla viene accompagnata con l’interno dietro la gamba d’appoggio, e viene offerto un caffè al difensore di turno. Questo era Johan Cruijff, la quintessenza del talento prestata alla matematica del calcio. Un ribelle dal piglio autoritario, che sapeva leggere il futuro e farsene portavoce. Un profeta, appunto.

Edgar DAVIDS

Edgar Davids lo chiamavano il Pitbull — sicuro lo chiamano ancora così — perché Edgar Davids era proprio un pitbull. Se avevi il pallone, lui te lo veniva a strappare dai piedi; se volevi arrivare da un punto A ad uno B e in mezzo c’era lui, tu non passavi; se poi avevi qualcosa da dire, lui ti veniva a ringhiare in faccia senza farsi tanti problemi. Come un pitbull al parco lo notavi sempre, un po’ perché era ovunque un po’ per via delle inconfondibili treccine e degli iconici occhiali. Ma pensarlo solo come un cane feroce sarebbe un errore. Davids è cresciuto nell’accademia dell’Ajax, che negli anni ’90 era come aver imparato a suonare la chitarra a casa di Jimi Hendirx nel 1966, ed alla quantità di calcio fuori dal comune che sapeva produrre in campo ha unito una più che discreta qualità, soprattutto nelle ripartenze veloci e nel dribbling, tanto da essere finito a fare i numeri in una pubblicità della Nike, che all’epoca era un po’ il più grande attestato per un calciatore di pallone, soprattutto se era un pitbull.

Frank e Ronald De BOER

Di due fratelli gemelli (e pressoché identici) diresti che non muoiano dalla voglia di essere accomunati a ogni pie’ sospinto, che spingano anzi per avere la propria autonomia e la propria carriera indipendente. E invece Frank e Ronald non hanno giocato insieme soltanto all’Ajax e in Nazionale, ma hanno condiviso anche le maglie di Barcellona, Rangers di Glasgow e persino quelle di Al-Rayyan e Al-Shamal, a fine carriera. Questo perché acquistare i gemelli De Boer era come comprare quattro giocatori. Frank era il difensore bravo a impostare e a orchestrare la difesa, in grado anche di scalare nel ruolo di terzino, mentre Ronald era il centrocampista multiruolo (poteva giocare sia laterale che da interno, oltre che da mezzala pura), anche lui gran passatore e dotato di tecnica anche migliore di quella del fratello. Quintessenza della seconda ondata (quella anni ’90) di calcio totale oranje, Frankie e Ronnie erano rispettivamente la spina dorsale e il fluido spinale dell’Olanda del loro tempo.

John de WOLF

Negli anni ’80 e ’90, lontani dalle ossessioni statistiche e dei video su youtube, un giocatore poteva assurgere allo status di idolo non necessariamente per il suo gioco o per il suo modo di stare in campo, ma anche soltanto per il tipo di capelli e barba che portava. La fantasia davanti allo specchio si è saputa reinventare, in quel decennio abbondante, compensazione rispetto a quella che talvolta difettava sui campi, specie quelli minori. In un contesto intergalattico tanto ricco di talento e privo di ruoli prestabiliti come quello olandese, vostra alienazione deve assolutamente concedere uno strappo a John de Wolf verso Proxima Centauri. Questi, roccioso e gigantesco cosplayer di Thor nato sulla sponda sbagliata dei mari del Nord, era un difensore onesto al limite dell’assenza di infamia e lode, che si è concesso anche una comparsata in Championship dopo una vita in Eredivisie. Lì John, il dio del tuono, contribuì al raggiungimento dei quarti di finale di FA Cup da parte dei Wolverhampton Wanderers, per i quali una volta segnò anche una tripletta contro il Port Vale. Il più grande degli idoli minori, De Wolf su Proxima Centauri ricorderà agli altri che non ci si può radere alla stessa maniera quando si indossa tutti la maglia arancione.

Memphis DEPAY

Il calcio, nella sua opposizione al caos in quanto narrazione multiforme ma lineare, mostra il suo volto più strano quando fa passare qualcuno dalla gloria alla polvere in poco tempo. Nella linea temporale 2014 Memphis Depay faceva faville in Olanda con il PSV e con la nazionale al Mondiale brasiliano. Il Manchester United l’ha poi pagato ben 30 milioni di euro e lui si è anche preso il 7, numero pesante all’Old Trafford. Nella linea temporale attuale, con Mourinho in panchina, è diventato uomo di seconda fascia e prossimo all’addio. Se lorsignori, vostra alienazione, vorranno comunque giudicare il giocatore per ciò che ha mostrato nei suoi primi anni di carriera, e credere come noi che il meglio potrebbe ancora venire (con buona pace di questo arresto) la nostra coscienza calcistica andrà a dormire più serena.

Ruud GULLIT

È forse impossibile provare a descrivere ora cosa significasse avere in campo Gullit a fine anni ’80. Come se il calcio totale geniale, carismatico ed arrogante degli anni settanta si fosse reincarnato in un calciatore solo, in grado di continuarne l’opera avanguardista e di portarla a compimento regalando finalmente all’Olanda una vittoria. Non era mai apparso sui campi da calcio qualcosa di simile: dall’alto del suo metro e novanta Gullit era il più veloce, il più tecnico, il più forte fisicamente e quello più atletico in campo, il suo carisma era trascinante anche per chi era solo sugli spalti. Quando decideva di andare in porta non c’era modo di fermarlo. Talmente dominante da far sembrare quasi troppo semplice il suo dominio, da non dover neanche giocare tutti i 90 minuti, adattandosi con il tempo a scegliere quelle tre quattro azioni in cui far esplodere tutto il suo potenziale per chiudere la partita. Il primo calciatore post moderno, o se preferite, il primo freak del calcio. Tanto in campo quanto fuori, dov’era una calamita per gli sponsor. In un rapporto di giocatore legato ad un brand (le sue treccine) senza precedenti. Ruud Gullit è nato veramente troppo presto per poter consentire ai suoi coetanei di avere modo di catalogarlo e per poter avere a disposizione la possibilità di sfruttare totalmente tutto il suo potenziale. Solo i continui stop fisici hanno permesso a tutti di vedere come fosse umano. Nel mezzo di essi ha partecipato come attore protagonista alla rivoluzione sacchiana, che in lui ha trovato il giocatore totale da attingere per avere il meglio delle tre caratteristiche del suo gioco: le transizioni offensive, il pressing, mantenere il possesso. Ha partecipato come attore protagonista nel primo e unico titolo della Nazionale Olandese. Ha vinto in carrozza un Pallone d’Oro. Ha giocato praticamente in ogni ruolo in mezzo al campo nella sua ventennale carriera.

Arie HAAN

Spettabili commendatori alieni, osservate con attenzione due foto di gruppo dei giocatori dell’Ajax dei primi anni Settanta che posano sorridenti con la Coppa dei Campioni: noterete che uno di loro, a differenza di tutti gli altri, indossa sgargianti scarpini azzurri con lacci giallo canarino. Anche in questo Arie Haan è stato un precursore dei tempi moderni e della personalizzazione degli accessori come affermazione dell’ego di talento. Nato centrocampista, disputò un intero Mondiale — quello del 1974 e della grande occasione persa con i tedeschi — nell’inedito ruolo di libero perché il ct Rinus Michels si ritrovò improvvisamente a corto di uomini in difesa. In Italia, e non solo, viene celebrato per la sua sassata da quasi quaranta metri che pietrificò Zoff e negò agli azzurri la finale della Coppa del Mondo del 1978. A chi gli confida di avere la pelle d’oca quando rimira quel gol da cineteca lui ribatte, laconicamente, “Anch’io”.

Jimmy Floyd HASSELBAINK

Jimmy Floyd Hasselbaink è stato l’uomo dei tre mondi. Si può essere amati quasi ovunque si vada? Sì, perché in senso assoluto l’amore non ha limiti, ma è anche vero che è più facile se segni caterve di gol in tre campionati diversi. Nato in Suriname e assegnato per arroganza coloniale al calcio olandese, Jimmy Floyd fa il suo exploit al Boavista, poi passa in Premier League e realizza tanti gol per il Leeds United. Ci sarebbe da calcolare anche l’intermezzo Atlético Madrid (con 24 reti!), ma i Colchoneros affrontano una retrocessione inattesa. Nella nazionale olandese non trova molto spazio a causa della ricca concorrenza, ma a quel punto l’olandese ha modo di tornare in Inghilterra, stavolta al Chelsea, dove vince la Community Shield e si laurea capocannoniere con 23 reti nel 2001, diventando una leggenda. Quello che ha fatto a carriera finita, da dirigente del QPR, riguarda relativamente il campo e semmai, signor consorzio alieno, vi dovrà convincere della necessità di redimere certe anime finché fanno la differenza con gli scarpini ai piedi.

John HEITINGA e Joris MATHIJSEN

Strenui guardiani maggiori di un’Olanda d’ondata minore, vi abbiamo capito solo noi, che ci tingevamo le notti d’arancione a rischiare l’epilessia dinnanzi ai campi del verde più virtuale. Urlavamo, di pronuncia inesatta, le vostre generalità al riflesso della televisione. E ogni volta che varcheremo un campetto reale, nell’allacciare gli scarpini, a ognuno imprimeremo il vostro nome: John Heitinga e Joris Mathijsen, come nella più sorda pressione del tasto quadrato a palla lontana, come nel più tempestivo raddoppio di marcatura che il valore di ‘Difesa: 82’ possa garantire.

Klaas Jan HUNTELAAR

Tutto ciò che mi interessa del calcio è marginale, c’entra davvero poco con il concetto di successo, trionfo e vittoria. Klaas Jan Huntelaar ha un nome bellissimo, dal suono incredibile, uno di quei giocatori che sono costretto a comprare a FIFA ogni anno per poter urlare il suo nome nelle cronache solitarie seduto sul bordo del letto in tensione con un joystick in mano. Se potessi, dunque, Huntelaar lo metterei nello zaino, lo porterei sempre con me, per ogni occasione. Se penso a lui penso ai primi gol con la maglia del Milan: in campo c’era anche Ronaldinho, ricordo questo, ricordo un tiro al volo, un portiere non proprio perfetto, ma soprattutto ricordo un pallonetto dal limite area che finisce in rete e mi fa urlare, da non tifoso milanista, un “Klaas Jan Huntelaar” che ancora, seduto sul bordo di quel letto, non sono riuscito a emulare.

Ibrahim AFELLAY

Di Afellay, Ibrahim, classe ’86, si è detto tutto, troppo, prima di capire la sottile circostanza che separa realtà e finzione. La sua carriera nei videogiochi ha avuto onorificenze di riguardo, ma la scommessa Afellay non ha mai saputo eguagliare il potenziale sviluppato da EA Sports. Eppure le credenziali dell’ala di Utrecht di origine marocchina, cresciuto nelle giovanili del PSV, lasciavano passare spifferi di grande talento tra le voci degli osservatori internazionali, al punto che il suo passaggio nel 2011 al Barcellona sembrò la consacrazione al massimo livello, dopo otto anni di professionismo ad Eindhoven. Ma le sue scorribande sulla trequarti, il tocco di palla rapido e incisivo, le conclusioni a rasoio, i dribbling in velocità, proprio da quel momento finirono nei ricordi. Un prestito di qua, uno di là. S’era inceppato il joypad.

Wim JANSEN

Wilhelmus Marinus Antonius Jansen, ovvero 165 centrimetri d’amore per il Feyenoord. Non che la statura modesta gli negasse l’atletismo necessario per aderire alla causa oranje del calcio totale, tutt’altro. Mi dirai che, tra tutti i tuttocampisti olandesi a disposizione di Michaels, Wim era quello più legato alla linea mediana: sarebbe stato un peccato il contrario, data la sua abilità nel recuperare i palloni e nel distribuirli poi grazie a calibratissimi lanci. Ovviamente di testa non la prendeva mai, ma compensava con un ottimo senso della posizione e, soprattutto, con una grande dedizione alla vittoria finale. Tenace e inflessibile, dal gioco minimale eppure consapevole, Jansen ha resistito a molti degli avversari che gli si sono parati davanti e che erano assai più alti di lui. Il classico giocatore che, a bocce ferme, in Nazionale non parte mai titolare, eppure te lo ritrovi spesso tra gli undici, a sorpresa. L’efficacia di giocatori come Jansen, infatti, non sta in ciò che l’intellighenzia del pallone pensa di loro, ma nel loro modo di smentirla in campo.

Jan JONGBLOED

Se cercate un tabaccaio, un’appassionato di pesca o un portiere poco tecnico ma dai piedi buoni che esca a valanga e giochi quasi da libero, vi consiglio Jan Jongbloed. Un ex 35enne semiprofessionista salito alla ribalta come portiere della Grande Olanda, con due finali mondiali perse e la numero 8 sulle spalle. Grezzo prodotto del Calcio Totale di Michaels e delle mene clantribalistiche che agitavano lo spogliatoio oranje dell’epoca. Scalza dalla porta con la benedizione di Cruijff, un mostro sacro come Van Beveren e in panchina il suo sostituto Schrijvers, Jongbloed rivede per l’epoca il ruolo dell’estremo difensore con un atteggiamento molto aggressivo e un posizionamento particolarmente alto, tale da renderlo elemento attivo nell’avvio della manovra. Tradizionalmente considerato il punto debole di quella squadra due volte vicecampione del mondo, ne è al contempo l’elemento più difficile da dimenticare, per il suo stile di gioco così in linea con il pensiero calcistico del ct — nonché vero ideatore della rivoluzione calcistica olandese -, Rinus Michaels.

Wim JONK

Coppa UEFA 1993–1994, beato chi la ricorda più, annacquata come sembra oggi dal triplete di Mourinho e dalla Uefa del Fenomeno. A San Siro, a centrocampo, c’erano Manicone, Berti e Jonk; con l’olandese a fare da vertice basso, uomo di tempi e misure, mediano dalla definizione passatista ma precisa, calzante. La sveglia puntata alle 8 per andare a scuola l’indomani mattina, e la scoperta che l’Inter ha battuto il Casino Salisburgo (Casino, quanto romanticismo), con un gol di Jonk. Non Bergkamp, non Sosa ma il mediano. Un gol di esterno destro preciso, pulito, dopo un inserimento caracollante che sembra appartenergli come poco altro. Jonk sghembo ma efficace, storto e tetragono, specialista della Coppa minore. Jonk è una diapositiva increspata che fa rima con Olanda e vittoria, piccola ma importante.

Piet KEIZER

Keizer, in olandese, è una parola di senso compiuto: vuol dire “imperatore”. E in effetti quest’estrosa ala sinistra con un nome di battesimo da sovrano — Petrus Johannes — ha avuto ai suoi piedi i tifosi dell’Ajax e perfino un emiro del Kuwait che rimase talmente meravigliato da un suo gol contro il Fenerbahçe da regalargli l’orologio d’oro che portava al polso. Primo atleta nella storia del calcio olandese a sottoscrivere un contratto da professionista, riusciva a effettuare un passaggio preciso a un compagno pur guardando in direzione opposta — quello che oggi gli anglofili chiamano “no look”. Nel 1973 voleva essere lui il capitano della squadra al posto di Cruijff: i compagni lo votarono e così il Profeta del gol, stizzito, se ne andò a Barcellona scrivendo l’epilogo del ciclo epico dell’Ajax. Nonostante il riconoscimento da parte dei compagni il suo ritiro dal calcio giocato fu talmente tumultuoso che per trent’anni si rifiutò di toccare il pallone, arrivando persino a scansarne uno che gli stava rotolando addosso mentre guardava il figlio giocare con altri ragazzini.

Patrick KLUIVERT

Patrick Kulivert è di quei giocatori che dici “fortissimo dai! Così forte che infatti segnò quel gol a, aspetta, quello a, quando vinse la, lì nella finale a” e non ti viene in mente niente. Non per sminuirlo, anzi Kluivert segnò un gol decisivo in una finale di Champions nemmeno ventenne; però quella prima stagione da titolare all’Ajax fu il picco della carriera; invece di un un trampolino, fu l’inizio del declino. In seguito fece altri gol, tanti (soprattutto al Barça) ma non abbastanza, belli ma non abbastanza, importanti ma non abbastanza. Mi ricordo più facilmente dei rigori sbagliati contro Toldo, di stagioni in cui doveva spaccare tutto e invece si spaccò lui, di tribunali, figli, storie, discoteche, ma anche qui non abbastanza divertenti come quelle di Maicon o abbastanza grottesche come quelle di Edmundo o abbastanza esagerate come quelle di Balotelli. Patrick Kluivert è arrivato troppo tardi al Milan, e troppo presto al Barça, o forse è all’Ajax che ha vinto troppo presto. Vai a sapere. In effetti, amici alieni, nel dubbio che nemmeno ci sia un motivo per salvare Kluivert, voi prendetevelo pure.

Ronal KOEMAN

Non so se sia più rappresentativo, per parlare di Ronald Koeman, il fatto che si tratti dell’unico nella storia ad aver giocato ed allenato per tutte e tre le grandi d’Olanda (Ajax, PSV e Feyenoord in ordine sia di giocatore che di allenatore) o che con 193 gol ufficiali in carriera abbia segnato come nessun altro difensore della storia del calcio. Sicuramente è il libero più forte e vincente della storia del calcio olandese post calcio totale, con i suoi 8 campionati vinti, due Champions League conquistate e soprattutto per il ruolo nell’Europeo vinto nell’88. Uno dei tanti figli di Cruijff sparsi in giro per il mondo del calcio, deve alla leggenda del Profeta sia il suo sviluppo tecnico che la sua comprensione del gioco. Quando decide di lasciare l’Olanda da campione d’Europa con il PSV di Hiddink lo fa per raggiungere proprio Cruijff in Catalogna e lì diventare leggenda a sua volta per lo stile di gioco unico e per i gol pesanti segnati (tre su tutti: Valencia per salvare la panchina a Cruijff, Real Madrid per lo storico 5–0 e ovviamente quello alla Samp per alzare la Champions League). A Barcellona è troppo lento per giocare a centrocampo e diventa quindi il perno del gioco di posizione portato da Cruijff, grazie alla sua visione fuori scala e alla precisione nel trovare sempre il compagno smarcato a cui arriva con un Torpedo diretto sul piede forte. Koeman era quello in grado di trovare al volo il compagno più lontano. Questo anche perché Koeman era sempre abbastanza lontano da non avere mai nessuno in pressione. con tutto il tempo di stoppare, alzare la testa, prendere un respiro e lanciare lungo e teso per il piede di un compagno libero e poi avanzare indisturbato seguendo l’azione.

Ruud KROL

Da giovane avevo questo zio napoletano capellone, sposato con una donna di Amsterdam; quando scendevamo in Campania per le comunioni o i matrimoni ci trovavamo tutti, e io ho questi ricordi confusi di questo zio con le camicie celesti coi colletti a punta oltre ogni immaginazione, aperti fino allo sterno, questi capelli lunghi colla riga in mezzo, i basettoni e gli zoccoli, e poi d’inverno maglioni arancioni a collo alto e pantaloni a zampa e scarponcini. Tutto questo aveva un certo fascino su di me, questo mischiarsi del meridione cattolico, colto ma arrangino e del settentrione preciso, ordinato, freddo ma hippy. Una specie di Opus Nigrum degli anni ’70 e ’80, il sole il mare il mandolino gli zoccoli e Ruud Krol che libera l’area nelle domeniche assolate. Sono stato convinto che Ruud Krol fosse effettivamente mio zio, invece poi no era un altro.

Dirk KUYT

Dirk Kuyt ha segnato tantissimi gol, ma di lui si ricorda la tenacia, la resistenza e l’infinita intelligenza tattica. Negli anni d’oro al Liverpool, trasformato da Benitez da goleador a tuttofare, ha giocato sostanzialmente in tutti i ruoli, in prevalenza come ala destra. Anche con la maglia dell’Olanda: ai mondiali 2014, per esempio, ha giocato come ala sia destra che sinistra, come terzino sia destro che sinistro e come punta. Eppure, a coronamento di tutto ciò, arrivava quasi sempre un gol, spesso decisivo. Se non era un gol erano un paio di assist. A 36 anni è tornato al Feyenoord che grazie a lui può puntare dopo tanto tempo alla vittoria del campionato. Quasi a quota 300 gol ufficiali con squadre di club in carriera, giocatore di importanza assoluta, mai abbastanza celebrato dalla stampa per via della sua umiltà che non paga in immagine. Ma i tifosi delle squadre in cui ha giocato se lo ricordano bene, e di certo sono pronti a seguirlo alla guerra.

Abe LENSTRA

«Se uno diventa professionista diventa proprietà della squadra che lo paga, che può fare di lui ciò che vuole»

Non divenne mai professionista e non vinse mai un titolo, concepiva il calcio come un modo per spezzare la monotonia del suo lavoro da segretario dell’ufficio anagrafe, ma fu un attaccante totale, pioniere del calcio olandese e leggenda dell’Heerenveen che, per ringraziarlo delle 523 reti in 550 partite, gli intitolò lo stadio. Amava il biliardo, le carte e le sigarette e alla fine della sua carriera, durata peraltro 27 anni, segnerà 850 reti in tutto. Dalle cronache dell’epoca emerge il profilo di un fuoriclasse assoluto, molto tecnico ma con in più due caratteristiche che lo facevano spiccare come l’incredibile velocità e la capacità di calciare splendidamente con entrambi i piedi.

Roy MAKAAY

Eroe del Super Depor insieme a Djalminha e Naybet, Roy Maakay porta a La Coruna l’unico scudetto della sua storia. Due anni dopo vince il Pichichi e la Scarpa D’Oro. Poi va al Bayern dove segna 20 gol a stagione e il gol più veloce nella storia della Champions League. Soprannominato pistolero prima di Suarez, ma anche fantasma perché “quando lo vedi è già troppo tardi”, è il prototipo di un attaccante perdutosi con gli ultimi anni, colui che vive solo per il gol e per essere al posto giusto in area, non certo per inseguire sconosciuti nel resto del campo. Gente che spara ne abbiamo tanta. Con lui è peggio, perché non vedrete da dove è partito il colpo.

Coen MOULIJN

C’è un solo Mister Feyenoord, ed è Coenradt Moulijn, forse la migliore ala sinistra della storia calcistica olandese. Sceso sul pianeta del pallone troppo in anticipo rispetto a quel buco nero dei ruoli che fu il calcio totale, ebbe modo di godersi la sua fetta preferita di campo all’inverosimile. Era infatti un grande palleggiatore, molto agile, nonché un buon crossatore dotato peraltro di ottima corsa. Indugiava nel dribbling come solo negli anni ’60 non si arrivava mai ad averne noia. Ma chiunque avrebbe rinunciato al pallone tanto malvolentieri se da piccolo fosse stato costretto a calciare una pallina da tennis, poiché un poliziotto di quartiere aveva proibito il pallone regolamentare in strada, per evitare schiamazzi. Coen era figlio ruvido e genuino di quelle strade ricostruite a fatica dopo la guerra, e di conseguenza era anche l’idolo naturale del pubblico di tradizione manovale e operaia che costituiva la base dei tifosi del Feyenoord. Con la squadra di Rotterdam Moulijn ha vinto il campionato olandese cinque volte ed è stato fondamentale nel farla crescere fino a diventare quella potenza europea che vinse la Coppa dei Campioni nel ’70 e l’Intercontinentale nel ‘71.

Johan NEESKENS

Signori alieni vi presentiamo Johan II, il tuttocampista. Perno insieme a Cruijff del Glorioso Ajax, della Grande Olanda, del Barça della seconda metà degli anni ’70 e di numerosi locali notturni dell’epoca, è stato colui che ha rivoluzionato il ruolo del centrocampista. In lui le caratteristiche del mediano difensivo e quelle del trequartista da inserimento si combinavano alla perfezione, ben tenute insieme dalle eccellenti doti atletiche, peraltro sapientemente dosate. Neeskens era il “gregario” per eccellenza, privo di un ruolo definito ma capace di ricoprirli tutti. Spalla d’eccellenza del profeta Johan (I), prodotto più perfetto della filosofia calciototalistica olandese, Johan Neeskens è anche l’uomo della sublimazione dell’Arancia Meccanica: nella finale mondiale del ’74 (dove fu il miglior realizzatore degli oranje, con 5 reti), è lui a trasformare il rigore del provvisorio 0–1. La gara è iniziata da appena un minuto e nessun giocatore tedesco ha ancora toccato il pallone. Signori alieni, voi non lo sapete poi com’è finita, ma vi basti sapere che, se ci attaccherete, sarete come la Germania Ovest in quei 52 secondi.

Marc OVERMARS

Marc Overmars ha avuto la fragilità cristallina dei talenti olandesi più luminosi, per questo la sua carriera si è risolta in una breve lingua di fuoco che ha attraversato Amsterdam, Londra e Barcellona soprattutto dal 1992 al 2001. Prima e dopo due gravissimi infortuni al ginocchio che fanno brillare quelle poche stagioni di una luce unica: ciò che brucia forte si spegne prima.

Quando stava bene, Marc Overmars correva la fascia come fosse su un binario e i suoi soprannomi rispecchiavano questa velocità aerea: Roadrunner, TGV. Nel 3–4–3 di van Gaal, quello con cui l’Ajax ha vinto la Champions League, Overmars restava largo fino a pestare i piedi della linea laterale. In quel territorio trasformato nel far-west, i terzini sembravano correre con i sacchi ai piedi mentre Overmars cambiava direzione spingendo su dei quadricipiti più grossi del suo torace. Per le sue finte, per il modo in cui dribblava, correva e crossava, Overmars sembrava aver letto a fondo il manuale dell’ala, per poi applicarlo su un rettangolo verde attraverso un talento sopra la media. Questa applicazione del talento individuale all’interno di una disciplina universale è quanto di meglio la scuola olandese — per follia visionaria e rigore filosofico — ha offerto al calcio.

Michael REIZIGER

Chi ce l’aveva tra le figurine Panini lo ricorda principalmente per la dentatura ipertrofica e le labbra sorprendenti in epoca pre-botulino. Eppure in Italia Michael Reiziger c’era arrivato con i favori di un mercato florido e soprattutto con lo stemma dell’Olanda che in casa Milan aveva già portato bene a molti, nel passato recente. Dev’essere l’aria di Milano, decisamente cambiata. Perché l’oblio dei due anni italiani dalle parti di Barcellona fruttò invece 173 presenze nei sette anni in maglia blaugrana, definendo che forse il terzino destro d’origine surinamese, diligente e territoriale, non particolarmente vocato alla spettacolarità ma incisivo nelle chiusure e compiuto nei recuperi, fu troppo presto scambiato come doppione, scontando di non essere necessariamente tra gli introvabili.

Rob RENSENBRINK

«Era bravo come Cruijff: solo nella sua testa non era così».

Probabilmente non c’è miglior citazione, per descrivere Rob Rensenbrink, di quella di Jan Mulder, suo ex compagno di squadra: Un assunto da dimostrare, anche se qualche punto ci sarebbe. Rensenbrink è stato uno dei pochi olandesi a vivere l’epoca del Calcio Totale fuori dal proprio paese. E l’ha fatto in maniera straordinaria.

Ha inciso così tanto sulla storia dell’Anderlecht — dieci trofei vinti, tra cui due Coppe delle Coppe (di cui è capocannoniere di tutti i tempi) e due Supercoppe Europee — che è stato nominato miglior giocatore della storia del club nel 2008. Le sfortune sono arrivate in nazionale: c’era nel ’74 e c’era nel ’78, dove oltretutto firmò un palo che avrebbe potuto far laureare l’Olanda campione del Mondo, e che quindi gli costò la storia.

Johnny REP

Johnny Rep aveva capelli lunghi e biondi come spaghetti, l’aria da ribelle e la nomea di sciupafemmine, ma a dispetto del nome non era un cantante pop o un attore da riviste patinate che mandava in visibilio orde di ragazzine. Certo, magari le faceva impazzire, ma questo avveniva in larga parte per le sue gesta sul rettangolo verde: era un apostolo di Cruijff e una rockstar dell’Ajax negli anni Settanta. Tanto più che in maglia arancione nessuno ha segnato più di lui nel corso di un Mondiale, anche se per una sorta di contrappasso dantesco andò in bianco nelle due finali. Velocissimo, bravo negli inserimenti quanto nel saltare l’uomo, girò in lungo e in largo l’Europa del pallone (dopo l’Ajax giocò nel Valencia, nel Bastia e soprattutto nel Saint Etienne). Nella finale di Coppa Campioni del 1973 fu autore di uno stacco di testa, dalla traiettoria scaltra e beffarda, che gli valse un posto d’onore tra quelli che hanno negato un successo europeo alla Juventus.

Frank RIJKAARD

Esterno destro. No, non è il ruolo. È quel tocco al pallone che l’ha spinto verso la rete, oltre il portiere, quel 23 maggio 1990 al Prater di Vienna. Il piede è quello di Franklin Edmundo Rijkaard che indossava la maglia numero 8 del Milan di Sacchi, trionfatore con quel gol sul Benfica campione di Portogallo. In quel gol c’è tutto quanto è utile sapere di uno dei centrocampisti più moderni del calcio del tempo: corsa, progressione, inserimento, posizione, intuito, freddezza in area di rigore. Rijkaard è stato per quel Milan e la sua Nazionale un perno insostituibile, caschetto ricciolo che entrava in tutte le azioni della squadra propria e di quella avversaria. Costruzione e distruzione, Rijkaard, manovale di centrocampo con l’eleganza di un architetto.

Arjen ROBBEN

Arjen Robben è stato uno dei quattro-cinque giocatori che capitano nell’arco di vent’anni di calcio capaci di ripetere all’infinito e alla perfezione un singolo, minimo, gesto al punto di far diventare sé stesso un ruolo, un nuovo modo di interpretare un aspetto del proprio sport. Se il ruolo più significativo del periodo a cavallo tra i primi due decenni del ventunesimo secolo è stato l’esterno d’attacco a piede invertito, il merito è suo. Prima di Robben i destri stavano tendenzialmente a destra e i sinistri a sinistra, e su questa confortante pianta simmetrica, domenica dopo domenica, costruito un castello di cross, sterzate sulla linea di fondo campo e ancora cross. A un certo punto, anche nei peggiori campi di periferia, si è iniziato a vedere mancini puri arare la fascia destra, cambiare direzione dove si incrociano le linee dell’area e, come se fosse il gesto più naturale del calcio, rientrare sulla sinistra per continuare l’azione. Per aver incarnato una rivoluzione, rendiamo grazie a Robben.

Bryan ROY

Uno dei più precoci talenti del vivaio dell’Ajax anni ’90, Bryan Roy è stato un’ala sinistra di prim’ordine. Molto veloce, bravo negli inserimenti e nel saltare l’uomo, vinse ad Amsterdam gli unici trofei della sua carriera, prima di passare, nel biennio ‘92-’94 all’ultimo Foggia di Zeman, dove nell’ultima delle sue due stagioni fu addirittura il miglior marcatore della squadra con dodici reti. L’anno successivo migliorò il suo score stagionale di una rete al Nottingham Forest, dove contribuì in modo decisivo alla qualificazione in Coppa UEFA. La seconda parte della sua carriera, anche a causa di qualche infortunio di troppo, si svolse più sottotraccia, facendogli perdere la Nazionale e portandolo prima in Germania e poi in patria, di ritorno.

Nigel De JONG

Tutto il calcio totale di cui hai bisogno. Sullo sterno.
Però attenti, eh. Vi potreste far male.

Clarence SEEDORF

Se mi mettessero in una camera d’isolamento, vuota, bianca, perfettamente insonorizzata, mi facessero sedere per terra e dopo ore di silenzio mi chiedessero di pensare al gioco del calcio, la prima immagine che mi verrebbe in mente credo che sarebbe un pallone calciato fortissimo e teso, da fuori area, che finisce in rete senza neanche aver dato l’idea di essere un oggetto sottoposto alle leggi che comandano il nostro angolo di universo. Se mi chiedessero di rendere l’immagine un po’ più nitida descriverei l’aria gelida del febbraio milanese, che ti taglia invece di essere tagliata, descriverei una delle più belle cattedrali pagane della storia dell’umanità, e un campo occupato da uomini vestiti di rosso e nero e blu e nero. Se insistessero, chiedendomi una descrizione più precisa, proverei a descrivere l’andatura cadenzata del paramaribense dei rossi e neri, il movimento appena percettibile con cui manda a vuoto la prima marcatura, lo sguardo con cui guarda la porta da decine di metri di distanza sapendo già come andrà a finire, per poi tentare, pur mancando le parole nel nostro vocabolario ridotto, di afferrare quell’istante in cui l’uomo decide di diventare macchina per impattare il pallone in un modo che neanche una tecnologia aliena potrebbe suggerire. Se mi chiedessero di pensare al gioco del calcio, descriverei il gol di Clarence Seedorf in Milan-Inter 3–2 del 21 febbraio 2004. Andatelo a cercare. Spero non sia stato solo un sogno.

Wesley SNEIJDER

Se il campo è percorso da un insieme di forze che si contendono la vittoria, Wesley Benjamin Sneijder è il calciatore che raccoglie tutte le energie sul rettangolo verde, anche quelle più marginali, le convoglia su di sé e le libera, raddoppiate nella potenza e nell’efficacia. Quando ha la palla sul destro, è la variabile impazzita che cambia il ritmo della partita: può puntare l’avversario e saltarlo facilmente, può inventare un passaggio risolutivo, può calciare in porta una botta secca e senza scampo. Wes è il corpo elettrico cantato da Walt Whitman, un corpo col dieci sulle spalle e lo sguardo gelido ma irrequieto.

Jaap STAM

Per spiegarvi perché Jaap Stam vada salvato dall’Apocalisse aliena, chiamerò a testimoniare Pietro Parente, centrocampista poco più che mediocre, con una carriera in provincia e 64 presenze un A, che un giorno si mise in testa la malsana idea di fare il gradasso col nostro gigante olandese. Avreste dovuto guardare i suoi occhi terrorizzati mentre la mano sinistra del difensore della Lazio, già PSV e Manchester United, gli si stringeva intorno al collo. Jaap Stam incuteva terrore. E non sarebbe potuto essere altrimenti con quegli occhi da esecutore furioso di sentenze capitali, quei 92 chili distribuiti su 191 centimetri, quel fisico da Frankenstein che all’occorrenza sapeva peraltro anche correre veloce. Il suo volto ricordava quello del Pluto che campeggia sulla locandina del primo Le colline hanno gli occhi, di Wes Craven, datato 1977, cinque anni dopo la nascita di Stam. Ma Jaap non era solo questo, era potenza e intelligenza, senso della posizione e piede anche troppo educato per uno stopper (come si chiamavano una volta) d’acciaio. Lascito di un inizio da ala destra nelle giovanili, che anche da adulto lo portò — qualche volta — a spostarsi sulla fascia, anche se svariati metri più indietro. Stam ha terrorizzato almeno un paio di generazioni di attaccanti, frustrando le loro ambizioni da marcatori.

Kevin STROOTMAN

Lui sembra un pezzo di Nina Simone. Magari non quello lì che canticchiamo al Pigneto dopo una serata passata al vernissage all’isola pedonale, ma quello che ascoltiamo nell’intimo di casa nostra, cuffie e sigaretta a metà. No, è tutto meno poetico di quello che sembra. Kevin Strootman è il graffio sulle corde vocali, quel suono sporco ed efficace che stacca ogni singola nota e te la incolla tra i neuroni, fino a non permetterti di dimenticarti di lui. Nina Simone è la forza applicata al suono, come Strootman è la forza applicata al calcio. Guai a chiamarla violenza, ché la violenza riguarda ciò che scavalca il dovuto e il necessario. È una forza che trascina e non distrugge, se non il morale di chi non la ascolta o non lo ha in squadra. Invidio la tenerezza e l’ingenuità di chi lo considera una bestia, una macchina, un automa senza sentimento. Kevin Strootman è il calcio che passa attraverso il jazz: delicato in apertura, sontuoso all’apice, perfetto nella discesa, arrogante nella chiusura. E non smetti mai. Ah, ha avuto uno stop lungo anni. Lo dico perché magari qualcuno non se ne è accorto. No, dico davvero, giuro. Lo so, è difficile crederlo, difficile convincersi che è tutto vero. Come un vinile di Nina Simone.

Wim SUURBIER

È vero, nell’Olanda del calcio totale era difficile assegnare un ruolo ai suoi interpreti principali, eppure c’era un oranje in particolare che grazie alle sue caratteristiche tattiche e atletiche si cucì addosso un ruolo che lui stesso, con la sua scuola calcistica d’appartenenza, contribuì a innovare. Eccellente crossatore, ottimo recuperatore di palloni ma soprattutto terzino instancabile, Wim Suurbier fu uno degli apostoli di Cruijff tanto in Nazionale quanto nell’Ajax, dove vinse sette campionati, quattro coppe nazionali, una Supercoppa UEFA, un’Intercontinentale e ben tre Coppe dei Campioni.

Berry Van AERLE

Berry van Aerle è sempre stato il secondo. Perché lì finisce il terzino destro, nelle formazioni divenute storiche. Subito dopo il portiere, ossia nel momento in cui chi ascolta si accorge che la sequenza dei nomi incanala le emozioni verso una musica inequivocabile: l’undici dell’Olanda agli Europei ’88. In quella squadra da record van Aerle, colonna storica del PSV, figura come uno dei pochi punti fissi in un collettivo che ha fatto dell’intercambiabilità dei ruoli la propria forza; meglio ancora, fu proprio questo metodismo di alcuni interpreti caratteristi a permettere le luci di un varietà finalmente internazionale a stelle di calibro, gente che la rotondità del pallone sa carezzarla fino farla aderire alla rotondità del piede, ma che senza la linearità squadrata di certe geometrie non sarebbe in grado nemmeno di maneggiare un compasso. Ecco, sarà per questo motivo che dopo l’irrequieto, senza ruolo, Gullit, a Monaco di Baviera ad alzare la coppa di campioni d’Europa il 25 giugno 1988 c’era lui, Berry van Aerle. Al secondo posto.

Marco Van BASTEN

Sullo specchio d’un lago d’acque calme, taglia silente l’onda il Cigno, e avanza con le sue larghe palme. […] Con l’ala ferma e opaca; al vento trepida, naviga e va come un veliero antico: erge il bel collo candido, l’affonda voluttuoso in acqua, lo protende disteso a fior dell’onde, o il nero becco nel bianco petto immacolato immerge. […] Poi, quando a sera il lago appena scorgesi, ed ogni aspetto par vago fantasma ed arde all’orizzonte un rosso solco; quando né giunco né gladiolo trema e già la rana canta e il cielo imbruna e al chiar di luna splendono le lucciole, il cigno, a fior dell’acqua ove rispecchia la sera immensa l’ombra sua di viola, come un bel vaso argenteo fra i riflessi di lattee gemme, e sotto l’ala il capo, chiuso in due firmamenti, si addormenta.

(Sully Prudhomme)

Jan Van BEVEREN

Signori alieni, vi dico grazie. Ve lo dico perché il vostro attacco permetterà di restituire alla gloria universale del pianeta Terra la figura di Jan Van Beveren. Perché voi attaccherete Eindhoven e lui vi fermerà, anche se gli fate saltare i denti e gli tagliate la lingua. È già successo, con la maglia del PSV, in una lontana Eredivise. Starà lì fino alla vittoria, non ci sarà verso di abbatterlo, lo potrete umiliare, attaccare, ridicolizzare, portare all’esaurimento nervoso, ma lui prima di crollare vi respingerà. Anche questo è già successo. E probabilmente nemmeno l’intero Texas cadrà, dove ha vissuto per trent’anni, da quando lasciò il paese dei mulini agli inizi degli anni Ottanta fino alla morte nel 2011. Certo, magari farà bruciare il resto dell’Olanda con Amsterdam in testa, viste tutte quelle che il blocco del glorioso Ajax gliene ha fatte, levandogli di fatto la porta della Brilliant Orange e rendendolo un paria nel paese per il semplice fatto di non esser stato un cortigiano del divino Cruijff. Non alzerà la voce e non farà confusione, non è nel suo stile. Al massimo se ne andrà in silenzio. Ma se c’è da vincere una battaglia in campo, lui lo farà. Diceva: “per me esiste solo la vittoria”. Quindi signori alieni, permettetemi un consiglio: girate alla larga da Eindhoven, o rimarrete inchiodati sullo 0 a 0.

Mark Van BOMMEL

Il termine centrocampista difensivo, con il suo carico semantico di sacrificio, generosità e nobile sforzo, non restituisce quella sensazione di frattura scomposta a danno di terzi che causava nello spettatore il solo veder giocare Mark Van Bommel. Era grosso e cattivo, provocava, si buttava per terra, si avvicinava agli avversari per dare i pizzicotti di nascosto all’arbitro. Van Bommel era il sogno bagnato di tutte le squadre che trovavano arbitri disposti a chiudere un occhio. Massiccio, abile nel rubare palla e dotato di un devastante tiro dalla media distanza, ha giocato nei club migliori d’Europa ma in particolare si è distinto nel Bayern Monaco, grazie alla durata della sua militanza, per entratacce e gomitate. Quando lasciò il Milan pianse, mostrando un inatteso lato tenero, ma era troppo tardi perché imparassimo a stimarlo.

Hans Van BREUKELEN

Ricordo che all’epoca, “Van Breukelen”, tutti lo pronunciavano Bròichelen, alla tedesca; anche se in realtà la lingua olandese non segue la regola per cui il dittongo eu diventa oi, e lo legge semmai “ö”, alla francese. Ma d’altronde che c’entra uno così, imprenditore di successo, dirigente del Psv, pararigori impenitente in partite fondamentali, insomma un vincente nato, con la storia calcistica degli arancioni? Non possiamo dimenticarlo, perché appunto è stato uno dei pochi vincenti apparsi nei Paesi Bassi e nella loro storia calcistica, ma non per questo lo pronunceremo bene: che si becchi la oi tedesca e stia zitto, questo freak, questo personaggio assurdo, questo tizio che noi, tutto sommato, non riconosciamo e non vogliamo conoscere. Vada da qualche altra parte con la sua banale sicurezza di portiere tranquillo e affidabile; non ci appartiene e non lo vogliamo.

Giovanni Van BRONCKHORST

Giovanni fa il terzino sinistro, di quelli classici a cui piace spingere e controllare la fase difensiva. Il viso scavato, l’essenza di un andino, la carne di chi è nato da un incontro tra una moluccana e un uomo venuto dalle indie orientali olandesi. Non è mai stato un difensore dal gol facile: qualcuno è arrivato sì, ma senza segnare la storia. Uno però è stato esageratamente bello; il 6 luglio 2010, al Green Point Stadium di Città del Capo c’è un ottavo di finale tra Uruguay e Olanda. Sono i Mondiali di van Marwijk in panchina e Giovanni con la fascia di capitano, che al 18’ calcia di sinistro da 35 metri, leggermente spostato a sinistra. Nel suo diagonale fortissimo si può intravedere quella ricerca della perfezione che ci spinge a vedere e rivedere delle reti particolarmente belle. Quanto è, da 1 a 10, perfetto un gol segnato da distanza innaturale, che sbatte sul palo opposto superando un Muslera quasi impaurito? Alla fine di quel Mondiale Van Bronckhorst si ritira dal calcio, dopo essere tornato al Feyenoord dove tutto era cominciato, ciclicità. Dopo aver vinto in giro per l’Europa, con una Champions League in carrello, viene nominato Cavaliere dell’ Ordine di Orange-Nassau. Un esterno duttile, che ha fatto epoca.

Cor Van der HART

Cor Van der Hart fu il difensore più significativo della prima tradizione oranje, quella pre-Cruijff, e non a caso fu anche il primo nel suo ruolo a lasciare i Paesi Bassi e a trasferirsi all’estero. In Francia, al Lille, giocò per quattro stagioni a metà degli anni ’50 prima di riportare a casa, e in particolare al Fortuna Sittard, la sua mole di esperienza, di intelligenza tattica e soprattutto di supremazia fisica.

René e Willy Van der KERKHOF

Non di soli gemelli De Boer vive il calcio olandese. Anzi, a dire il vero i primissimi gemelli oranje a condividere la maglia del club oltre a quella della Nazionale furono René e Willy van der Kerkhof. Meno piacenti dei De Boer per via di ruvidi ma bonari visi da golem, partirono entrambi dalle giovanili del Twente, trovarono entrambi consacrazione al PSV e per giunta presenziarono a tutte le competizioni internazionali con la maglia arancione dal 1974 al 1980. Willy era un centrocampista tuttofare che, per la sua capacità di intercettare e distribuire palloni era soprannominato l’Aspirapolvere, mentre René era un’ala destra rapidissima e aggressiva (peraltro altro una manciata di centimetri in più del gemello) che nel 1980 fu acquistato dalla Lazio. Con i biancocelesti, però, si fermò al solo ritiro precampionato, in quanto la squadra capitolina venne retrocessa nell’ambito dell’inchiesta sul calciocommesse e in Serie B all’epoca non erano ammessi giocatori stranieri. René tornò perciò a sfrecciare sulla fascia del PSV Eindhoven, e il nostro campionato si perse un pezzetto di calcio totale.

Edwin Van der SAR

Quell’espressione da assessore alla riqualificazione demaniale (con delega alle piste ciclabili) lo faceva sembrare il più vecchio dei suoi coetanei quando era un ragazzino e il più giovanile tra gli anziani a fine carriera. Forse anche per questo dettaglio fisiognomico Edwin Van der Sar ha avuto una carriera irregolare ma di profilo maturo. Con le sue manone grandi e il suo piedino timido ma evidentemente debitore della scuola olandese, l’olandese volante è stato la quintessenza dell’estremo difensore europeo in una carriera lunga vent’anni. Dagli inizi da enfant prodige all’Ajax, con quattordici titoli di club vinti tra trofei nazionali, europei e intercontinentali, alla scoperta che la forza di gravità aveva un nome e si chiamava Juventus. Edwin pagò le sue esitazioni bianconere (specie quelle con la Roma Campione d’Italia) con quattro anni di purgatorio al Fulham, prima di godersi uno sfolgorante e meritato secondo tempo di carriera al Manchester United, che portò nella sua bacheca altri dodici trofei, praticamente tutti quelli conquistabili nell’arco di due carriere. I più romantici non sono d’accordo nel qualificarlo come miglior portiere olandese di sempre, poiché non gli riconoscono abbastanza sturm und drang, ma di fronte alle 130 presenze in Nazionale difficilmente possono contestare il suo status di leggenda oranje in senso assoluto.

Rafael Van der VAART

Di Rafael Van der Vaart colpisce, prima di ogni altra cosa, il nome: Fandefàa, bello aperto, squillante, molto adatto al personaggio. Rafael Van der Vaart nasce a Heemskerk, sul mare del Nord, da padre olandese e madre andalusa; un po’ come Thomas Mann, se uno ci pensa. A differenza di Thomas Mann, cresce in una comunità viaggiante, una fila di roulotte che percorre i Paesi Bassi; Van der Vaart è un bambino che cambia ambiente di continuo, e ogni volta stupisce i suoi nuovi amichetti con la sua bravura nel pallone. Ma se può sorprenderli, non ha però mai tempi di conquistarli; e forse questo influirà sul suo carattere e sulla sua carriera. Ha dieci anni quando entra nel vivaio dell’Ajax; ventidue quando tutta Europa lo cerca e lui va all’Amburgo; venticinque quando passa al Real Madrid e in due anni riesce a non vincere nulla; ventisette quando lascia Madrid, appena in tempo per evitare Mourinho e le sue esigenze di trionfo, e passa a quell’altra meravigliosa incompiuta degli Hotspurs. Oggi ha trentatré anni, è tornato all’Amburgo, ha giocato più cento partite in nazionale e non ha fatto peggio di tanti altri prima di lui, ma neanche meglio. È stato famoso per una moglie bellissima, ma i due si sono lasciati male. Oggi gioca in Danimarca. Fandefàa è uno squillo di tromba; non è mai riuscito a diventare una sinfonia. Alla fine questo olandese gitano è il più nederlandese di tutti, nella sua bellezza breve, intensa, interrotta.

Gregory Van der WIEL

Saremo onesti su Gregory Van der Wiel: ci si aspettava di più da lui nella linea temporale da cui vi scriviamo, molto di più. La sua velocità, la sua propulsione e la sua predisposizione offensiva avrebbero potuto regalarci un terzino destro di valore assoluto, forse anche ambidestro, se ci fossero stati tempi, modi e allenamenti. Il problema per Gregory è stato arrivare fuori tempo massimo in un periodo in cui si corre il triplo, le carriere ad alti livelli si accorciano e i terzini scarseggiano. Di quest’era del pallone i terzini sono i Kurt Cobain: più in fretta si bruciano, minore diventa il rischio di spegnersi lentamente. Tuttavia, ragionando cosmicamente, vi consigliamo comunque il suo acquisto come se fosse un ottimo parametro zero che, male che vada, vi sarà costato giusto l’ingaggio. E a quel punto cosa sarà stato mai, per voi, un raggio di teletrasporto in più o in meno.

Willem Van HANEGEM

Quando aveva sette anni il suo villaggio venne bombardato dai tedeschi e Wim perse il padre, la sorella e due fratelli. Da allora, o meglio da quando il suo futuro da calciatore gli si parò davanti, giurò vendetta (sportiva) alla Germania. In Olanda gli avevano affibbiato il soprannome di sgorbio per il fisico non proprio aggraziato. Nonostante la scortesia Wim van Hanegem ha rappresentato per il Feyenoord quel che Johan Cruijff ha rappresentato per l’Ajax: il centro del gioco, il demiurgo da cui passa ogni azione. A Rotterdam ha alzato persino la Coppa dei Campioni nel 1970. Sebbene Michels lo ritenesse un po’ lento, non poté fare a meno della sua geometria nella grande Olanda del ’74. A fronte di queste grandi soddisfazioni, il più grande rimpianto di van Hanegem rimase la mancata vendetta sportiva, sfumata quando l’Olanda perse la finale del Mondiale ’74, proprio contro la Germania Ovest.

Pierre Van HOOJDONK

Giorno “x” all’inizio degli anni Novanta. Savana olandese. In un campo polveroso con le porte fatte di alberi si disputa la partita tra giraffe e rinoceronti. I rinoceronti sono difficili da battere, difendono bassi, vanno duri a contrasto e sono arcigni nell’uno contro uno anche se in attacco producono poco o nulla. Le giraffe invece sono più leggerine, ovviamente hanno la meglio nei duelli aerei, ma sono più lente e faticano nel palleggio. La partita è invero bruttina, zero emozioni da una parte e dall’altra, ma a pochi minuti dal termine un rinoceronte non calcola bene i tempi dell’intervento e stende una giraffa al limite dell’area (che uscirà in barella). Sul punto di battuta si avvicina una giovane giraffa con il numero 9, i capelli lunghetti e un po’ unti. Insiste per volerla battere e le compagne giraffe gliela lasciano. Palla a giro sopra la barriera, bacio all’albero sinistro e gol. La partita finisce poi 1 a 1 per una papera del portiere-giraffa su un retropassaggio, ma alcuni osservatori notano la giraffa con il numero 9 e la portano tra i professionisti. Inizia così la carriera di Petrus Ferdinandus Johannes van Hooijdonk, che calcherà i campi di Scozia, Inghilterra, Olanda, Portogallo, Turchia venendo ricordato come la più abile giraffa a battere i calci di punizione che sia mai esistita.

Ruud Van NISTELROOY

Ruud ha l’odore del grasso degli scarpini. Ruud ha una macchina robusta, tipo una Passat però mega accessoriata. Ruud ha le braccia pelose che non vedi la pelle. Ruud ha un petto veramente enorme, come Barzagli, però di più. Ruud ha sempre la barba giusta per ogni circostanza. Ruud ha una passione per gli orologi, i libri di storia e i vini rossi. Ruud a casa sta in tuta. Ruud sa sparare, ma solo con il fucile. Ruud usa i boxer e le calze di spugna. Ruud si arrabbia poche volte, ma quelle volte si arrabbia moltissimo. Ruud segna tanto, di continuo, ogni volta che se ne presenta l’occasione, quando te l’aspetti, quando invece non te l’aspetti, di destro, di sinistro, di testa, su rigore, in acrobazia, di rapina, di potenza, di tocco, a porta vuota, di punta, dopo aver dribblato tutti, in mischia, su un cross di Beckham, su un cross mio, di scavetto, in anticipo sul marcatore, prendendo il portiere in controtempo, tirando fortissimo, piazzandola all’angolino, partendo sul filo del fuorigioco, inesorabilmente, come se fosse l’unica cosa in predicato di accadere.

Robin Van PERSIE

Ode a Robin Van Persie (An Ode to Pettirosso dalla Persia),

Barone in vespri (Baron at vespers),

birre pavesi non berrai, non vispe (thou shall not drink beers from Pavia, for they are not bright),

bave non respiri, perno serba-vini (thou shall not breathe burrs, you wine-keeping pin);

“per seni vibrino serpi (Let breasts quiver with snakes),

non baveri (never with lapels)”,

in prave sbornie (during depraved hangovers).

Gerald VANENBURG

Prima di Bosman, facevano un po’ come gli pare. O non tutti. Di certo l’ala destra salterina del PSV campione d’Europa di club e nazionale nello stesso anno 1988, Gerald Mervin Vanenburg, capace di tagliare in due le difese schierate come un coltello affilato nell’edammer, si accorse un po’ troppo tardi di aver firmato un contratto con la Roma per l’anno successivo (chi scrive ricorda di avere ancora negli occhi una foto con la sciarpa al collo), tornando a firmare per ancora otto anni al PSV. La pecorella smarrita di Utrecht, tornando a casa da figliol prodigo (ma ad Eindhoven) sottoscriverà pare anche un non meglio identificato vitalizio fino ai 60 anni. Ora ne ha 52. A Roma si comincia a stare in fibrillazione. Tra otto anni lo aspetta finalmente la maglia giallorossa.

Jan VENNEGOOR of HESSELINK

Un cognome importante: venti lettere di cognome a fronte di sole tre di nome, un titolo nobiliare. Non capita tutti i giorni di incontrare un nobile nel calcio, qualche anno fa il Guardian si è premurato di andare a cercare l’origine di un cognome tanto altisonante. Pare che nel 17° secolo, due famiglie di agricoltori della zona di Enschede avevano deciso di unirsi attraverso un matrimonio. Dato che sia i Vennegoor che gli Hesselink avevano pari prestigio e peso sociale, invece di scegliere uno soltanto dei due cognomi pensarono che fosse il caso di adottarli entrambi. Dato che in olandese la particella “Of” può oggi essere tradotta anche con “Or”, una traduzione rigorosa del cognome potrebbe anche essere Vennegoor or Hesselink. Uno o l’altro fa poca differenza, tanto sulle maglie di Johannes “Jan” il cognome è sempre stato stampato per intero, forse ammantando di tristezza quanti si sono occupati dell’applicazione delle lettere su stoffa. Di famiglia di tradizione contadine al successo con i contadini del Psv dove, amato alla follia riuscirà a farsi dedicare un coro sulle note di L’amour toujours di Gigi D’Agostino. Quel cognome dal sapore così grossolanamente rumoroso e grasso non sarà mai un deterrente per una carriera di livello. Qualche apparizione con gli oranje, titoli nazionali in Scozia (altra terra di casate importanti) e Olanda, e una carriera dignitosa, forse secondaria rispetto alla portata di un cognome così importante, capace di provocare dispnea al commentatore di turno.

Faas WILKES

Servaan Wilkes detto Faas è stato una delle migliori mezzali olandesi quando ancora lì esistevano i ruoli, cioè prima della rivoluzione di Cruijff e compagni, nonché il primo oranje a sbarcare in Serie A. Il suo dribbling aveva valore talmente artistico da valergli il soprannome la Monna Lisa di Rotterdam da parte dei suoi tifosi, per i quali era noto anche col nome di Tulipano volante. Per lui tre anni all’Inter e uno al Torino, falcidiato da un fastidioso infortunio, prima di sbarcare al Valencia dove i tifosi gli coniarono addosso il mantra “Què fas, Faas?”, legato alla sua imprevidibilità ed alla sua capacità di inventare giocate estemporanee in grado di aprirgli la strada della porta, che Wilkes vedeva benissimo soprattutto in Nazionale, dove su 38 presenze siglò ben 35 reti.

Aron WINTER

Indimenticabile, per i collezionisti delle Figurine Nazionali, il passaggio del giocatore all’Ambrosiana: finalmente, dopo anni di giochi di parole sterili e più o meno gratuiti, “il surinamese che gioca nella Lazio” diventava un nome parlante, uno slogan ambulante (W Inter!) che nemmeno Bartezzaghi il dieci agosto. In realtà, finta-di-Ronaldo-a-Marchegiani a parte, si è trattato più che altro di un effetto scenico: le nove stagioni all’Ajax, con trofei annessi, hanno fatto del nostro un lanciere di prim’ordine.

In campo è stato, per tutti, un punto fermo: mansioni difensive, ma mai avulso dalle manovre e spesso partecipe in avanti, tra incursioni e stoccate (più di 70 le reti nelle diverse stagioni in campionato, esclusa l’Europa e le coppe nazionali). Fuori dal campo ha fronteggiato, come è noto, le difficoltà proprie di chi possiede un intelletto vivo: emblema della lotta al tifo idiota al suo arrivo a Roma (dove fu accolto come “negro” ed “ebreo” da una frangia di intellettuali), non mancò di polemizzare con gli allenatori ove necessario, tanto che, allo Sparta Rotterdam, dovettero spedircelo di corsa. Dulcis in fundo: presente, pur senza scendere in campo, nella “rosa dei venti“ (sì, proprio 20) cui il Vecchio Continente regalò un caloroso inchino nel 1988.

Richard WITSCHGE

L’estetica delle somiglianze forzose ne ha fatto un precursore della stirpe dei Rosicky, un estroso che ha vinto tutto e che il pubblico, talvolta, ha stentato a ricordare. Passi per l’Ajax, dove ha rispettato la prassi e gonfiato il palmarès (una Coppa delle Coppe nel 1987 e tutti i titoli nazionali del caso): anche da esule, Riccardo Witschge si è ben difeso. Scudettato nientemeno che al Blackburn di Shearer (1 presenza in totale, ma tant’è), rimpolpava, soprattutto, il Barcelona di quel Koeman che punì in senso letterale la Doria.

Va trattato a parte il caso del Bordeaux, che condusse dall’Intertoto alla Finale di Uefa: nonostante la sconfitta contro Scholl e Klinsmann, il biondo di Amsterdam, il franco-algerino e il terzino basco portarono il mondo a lezione di coesione. Un “otto” con propensioni da “dieci”, per Witschge si è trattato di calcare e decorare lunghe distese di velluto. Curiosamente, 31 presenze in arancione come il fratello Rob (che ha segnato, però, 3 reti, contro l’unica marcatura di Richard).

Boudewijn ZENDEN

Quello Zenden lì, con quel suo chiamarsi sprezzantemente Boudewijn, sembra l’ennesimo esame da 5 CFU in trascrizione fonologica. Ha un fare arrogante anche quando viene a portarti il CV, dove non manca la menzione della cintura nera di judo. Pare persino, da fonte autorevole, che in questi giorni abbia proposto un faccia a faccia a Giuseppe Cruciani sulla questione del vegetarianesimo. Meno di un metro e settanta, ci mette una gran grinta. è un jolly, è mancino e per essere arrogante ha tutto sommato validissimi motivi. Diciotto annate da professionista, tutte ad alti livelli: per quindici consecutive ha giocato le Coppe Europee. 57 / 4 con l’Olanda, lottando contro congiunture astrali avverse: quarto nel Mondiale di Suker, semifinalista a due Europei. Scudetti in Olanda e Spagna, Coppe Nazionali al Liverpool e al Middlesbrough, dove è stato Man of the Match nella finale contro il Bolton. A Marsiglia da signore, bene anche al Sunderland. Unico passaggio a vuoto in termini di trofei: il biennio al Chelsea con Ranieri, ma chi se ne frega. Buon quarantesimo, Boudewijn. Grazie per chi sei, grazie per PES.

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Quando capirono che avevamo concluso, gli alieni ci guardarono un po’ delusi. Non tanto dal fatto che avessimo salvato anche i Paesi Bassi con i nostri interventi, quanto dal fatto che fino a quel punto ci avevano fatto faticare pochissimo. Ma, d’altronde, sulla Terra giocavamo in casa. Fissandoci con gli occhi della mente ci concessero una tregua relativamente breve, giusto perché non si aspettavano così tanto talento calcistico già alla seconda ondata, e sarebbero tornati su Proxima Centauri con un bottino molto ricco.

Il gioco inizia a piacerci, ci sussurrarono. Anche la prossima volta si rimane in Europa. Vediamo come ve la cavate con un Paese altrettanto piccolo che al calcio non ha lasciato molto ma che è stato fondamentale per la cultura umana. Vediamo, dissero mentre si smaterializzavano, minacciosi.

Ma ormai non avevamo più paura.

La linea difensiva della Terra, in questo episodio, è stata composta da: Simone Vacatello, Simone Nebbia, Adriano D’Esposito, Tommaso Giancarli, Gabriele Lippi, Federico Castiglioni, Simone Pierotti, Alessandro Fabi, Oscar Cini, Emanuele Atturo, Marco D’Ottavi, Daniele Morrone, Simone Donati, Antonio Paesano, Gabriele Anello, Matteo Serra, Sebastiano Iannizzotto, Damiano Cason, Tommaso Naccari, con la partecipazione straordinaria di Sully Prudhomme.

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