Gli impresentabili

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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13 min readJun 5, 2015

La finale di Champions League è forse il punto più alto nella carriera di club per un giocatore. Anzi, senza forse. C’è chi è più abituato, chi sembra nato per giocare partite del genere, chi non conosce il significato della parola “pressione”. Nel mezzo ci sono i comuni mortali, quelli che magari le giocano perché si trovano al posto giusto al momento giusto, perché la loro squadra è in un forma e arriva in fondo (mi vengono in mente gli Helguera o i Linke di turno) o che magari sono sì campioni veri, ma non da copertina. Ma ci sono anche coloro che giocano finali di Champions League nonostante la loro carriera declini o arrivi da altre categorie calcistiche.

Noi vogliamo parlare proprio di loro. Di chi, senza un pedigree di primo grado, si è trovato a scendere in campo per l’ultimo atto della più importante competizione europea. Di chi è emerso dalla polvere e — in alcuni casi — polvere è tornato a essere. Che è lì per caso, ma magari è determinante: dieci uomini che hanno giocato inaspettatamente la finale di Champions negli ultimi vent’anni: nessun portiere, ma con gli altri si potrebbe fare una formazione da schierare per l’ultimo atto di Berlino. Dieci calciatori in cerca di finale. E che un po’ di gloria l’hanno accumulata.

2014, Lisbona — José Ernesto Sosa (Atlético Madrid)

Lo splendido Stadio da Luz è teatro di quella che è stata una delle finali più crudeli degli ultimi anni, dopo Istanbul e Monaco di Baviera in una ipotetica classifica di crudeltà sportiva, c’è questa. Perché è una finale di Champions, ma anche un derby e perderlo dopo essere stato in vantaggio al 90° è una cosa che ti segna. In quella stracittadina di Madrid spostata a Lisbona c’è tutta l’essenza delle due squadre in campo: l’Atlético fa giocare male gli avversari come al solito e trova il vantaggio quando meno te l’aspetti con Godin. Il Real prolunga il suo immenso possesso palla, ma sarà solo un lampo di Sergio Ramos su corner a permettere ai Blancos di agguantare la Decima.

Intanto, l’Atlético conduce per 1–0 quando El Cholo Simeone punta sul secondo cambio della serata. Dopo 10’ ha perso Diego Costa per infortunio e ha davanti un David Villa che non ce la fa più a inseguire Varane e Ramos. C’è bisogno di un po’ di freschezza, e allora fuori Raúl García, già ammonito e piuttosto nervoso, e dentro José Ernesto Sosa. Ma chi, El Principito? Proprio lui. La sua partita non passerà alla storia, ma potrà dire di aver giocato una finale di Champions. Rischierà anche di andare al Mondiale brasiliano, ma Sabella si ravvede e lo taglia all’ultimo.

Qualcuno se lo ricorderà per il suo anno a Napoli, in cui faceva da riserva a Lavezzi ed entrava soprattutto a partita in corso. Ancora amato all’Estudiantes de La Plata, ha girato l’Europa: tre anni al Bayern Monaco, altrettanti in Ucraina prima che scoppiasse la guerra. Con il Metalist Kharkiv sembrava aver trovato una sua stabilità. Poi il conflitto armato l’ha fatto spaventare e lui si è trasferito al Besiktas dove i tifosi vanno pazzi per le sue giocate, ma faccio fatica a capire il perché.

2012, Monaco di Baviera — Ryan Bertrand (Chelsea)

Da poco abbiamo parlato di Istanbul 2005, ma credo che l’ultimo atto del 2012 a Monaco di Baviera ci si avvicini parecchio. Un trauma triplo per i tifosi del Bayern, che vedono perdere la propria squadra perdere la Champions ai rigori in casa. Il piano di Di Matteo, che potrebbe entrare in questa classifica come allenatore improbabile, si può invece sintetizzare nell’espressione “Park the bus”.

A sorpresa, nell’undici titolare di quella sera, c’è Ryan Bertrand, classe ’89. Passa 4 anni in giro per l’Europ, prima di rientrare a Stamford Bridge. Quando torna tra i Blues, nell’estate 2011, Villas-Boas lo tiene in squadra, mentre è Di Matteo a dargli più fiducia. Così tanta che alla fine gli fa giocare la finale da titolare, non da terzino, il suo ruolo naturale, bensì da esterno mancino d’attacco nel 4–2–3–1 del Chelsea. Dopo 73’ esce per Malouda, ma la sua prova non è da buttare.

Al Chelsea giocherà solo per un altro anno e mezzo. In realtà i tanto attesi miglioramenti sono arrivati: il Southampton l’ha prelavato per poco più di dieci milioni di euro e in questa stagione Bertrand è stato inserito nel PFA Team of the Year, la top 11 votata dai giocatori.

2007, Atene — Jermaine Pennant (Liverpool)

«Beckham who?»

Qui entriamo nel mistico. In questi giorni ho letto qualcosa sulla finale di Istanbul in occasione del suo 10° anniversario. Molti milanisti hanno sempre detto: «Nel 2005 eravamo invincibili, però due anni dopo il Liverpool era più forte». Sicuramente i Reds presentatisi all’ultimo atto di Atene erano migliorati, almeno in alcuni elementi chiave come Reina al posto di Dudek, Agger al posto di Finnan, Mascherano al posto di Hamann e Kuyt al posto di Kewell. Ma il problema sorge quando scorri i nomi dell’undici iniziale e noti quello di Jermaine Pennant.

Cresciuto nelle giovanili dell’Arsenal, riesce a consacrarsi con la maglia del Birmingham City. Addirittura è forse il primo giocatore a scendere in campo con un braccialetto elettronico: si è fatto un mese di prigione per guida in stato di ebrezza e senza assicurazione. Il 2006–07 è l’anno migliore della sua carriera: Benitez lo vuole per il suo Liverpool e lui si guadagna il posto da titolare. Ad Anfield segna uno straordinario gol contro il Chelsea. In quella serata greca, Pennant sarà per tutta la partita in campo.

La sua carriera non è andata meglio con il proseguire degli anni. Lui ha abbassato il rendimento e Benitez non gli rinnova il contratto. Da lì il passaggio al Real Zaragoza, poi tre stagioni con la maglia dello Stoke City (riesce a beccarsi con Jack Wilkshere) e un prestito al Wolverhampton. Dopo un’esperienza di sei mesi in India, è tornato in patria. Il Wigan sarà pure retrocesso, ma Pennant sembra rinato in una dimensione diversa come quella della Championship. Non è Atene, ma va bene lo stesso.

2006, Parigi — Oleguer Presas (Barcellona)

Catalogna vs. Argentina, Oleguer vs. Higuain.

Qui entriamo nel campo della filosofia. L’ultimo atto del 2005–06 si gioca nel magnifico Stade de Saint-Denis, casa della nazionale francese e splendido impianto di Parigi. Dovrebbe essere la serata di Thierry Henry e dell’Arsenal: nel panorama della Premier League, le rivali Manchester United, Liverpool e Chelsea hanno vinto la coppa almeno una volta dal 2005 al 2012. Ci potrebbe essere anche il nome dei Gunners, che però s’inceppano come al solito quando sono sulla linea del traguardo. Il gol di Juliano Belletti permetterà ai blaugrana di rialzare la Champions dopo 14 anni.

Se Belletti sarà l’eroe di quella serata parigina, il protagonista all’inverso sarà Oleguer Presas. Centrale che può fare anche il terzino, lascia spazio al brasiliano al 71’, quando il Barca è ancora sotto per 1–0. Cresciuto nel Gremenet (dove ha per compagno anche Tito Vilanova nel suo ultimo anno da calciatore), entra nel Barca B nel 2001. Rimarrà con i blaugrana per sette anni, finché non concluderà la sua carriera con l’Ajax. Perseguitato dagli infortuni, a 31 anni dovrà appendere gli scarpini al chiodo.

La particolarità però è che Oleguer è un’attivista politico più che un calciatore. Sei presenze con la nazionale della Catalogna, accusò pubblicamente la federazione spagnola dopo il ban emesso nei confronti proprio della Catalogna. Laureato in economia, ha pubblicato un libro (Camí d’Itaca) in cui parla di anoressia giovanile, lotta anti-fascista e il coinvolgimento del governo spagnolo nelle Guerre del Golfo. La Spagna lo convocò una volta, ma lui si presentò in ritiro solo per dire al ct Luis Aragonés che non gli importava di vestire la maglia della nazionale. Durante il suo periodo al Barcellona, scrive anche articoli sulla validità legale del processo in Spagna, ispirandosi al caso di Iñaki de Juana Chaos, membro dell’Eta accusato dell’omicidio di 25 persone e condannato a 3000 anni di prigione (!). Tutto il Barcellona si distacca da lui, ma Oleguer va avanti per la sua strada: «Le conseguenze che sto soffrendo non sono nulla in confronto a quello che altri stanno subendo. La cosa che mi rattrista è che la gente non ha letto il pezzo. Se fossero persone intelligenti ma in disaccordo, non avrei alcun problema. Ma non lo sono».

2005, Istanbul — Djimi Traoré (Liverpool)

Djimi Traoré ha segnato solo quattro gol in tutta la sua carriera. Due a Seattle. Uno è questa mina.

In questi giorni abbiamo parlato parecchio di Istanbul. Il decimo anniversario della più incredibile rimonta della storia non può esser dimenticato (noi ne abbiamo parlato qui). Forse la più incredibile, perché avvenuta in un contesto troppo importante, tra due squadre che più diverse non si poteva. E soprattutto in finale di Champions League. A Liverpool ci hanno fatto persino un film (One Night in Istanbul).

Tra gli undici eroi in maglia Reds, il nome più bizzarro è quello di Djimi Traoré. Forse colui che interpreta al meglio quanto dice Gennaro Gattuso di quella finale: «A Istanbul eravamo nettamente più forti del Liverpool». Se Traoré è titolare in quella finale, con il Milan forse non sarebbe neanche arrivato in tribuna. Voluto da Houllier e valorizzato da Benitez, è uno degli eroi di quella finale. È lui a portarsi a casa la Champions con i suoi compagni.

Maliano ma poco considerato dalla sua nazionale, Traoré ha giocato con altre sette squadre tra Francia e Inghilterra nelle successive sei stagioni. Il tutto prima di chiudere la carriera con un biennio negli Stati Uniti. A Seattle si è anche divertito e non ha dimenticato il suo Liverpool. Alla domanda su quale fosse stato il gol più bello visto dal vivo, la risposta è stata facile: «Quello di Steven Gerrard contro l’Olympiacos».

2004, Gelsenkirchen — Shabani Nonda (Monaco)

Roma-Parma, 4–1: alla prima da titolare, doppietta di Nonda. Chissà perché non è andata.

Spesso il 2004 è considerato un bug nella storia del calcio: la Grecia vince l’Europeo e un mese prima il Porto di Mourinho trionfa in Champions League. Spesso si usa ricordare quella finale per celebrare la prima Champions dello Special One, finendosi per dimenticare i suoi avversari. Il Monaco di Deschamps fece fuori prima il Real Madrid dei Galacticos, poi riuscì a zittire lo Stamford Bridge quando Ranieri e il suo Chelsea pregustavano già la prima finale europea. Per altro, non ho visto molti altri giocatori decisivi su una squadra come Ludovic Giuly in quell’annata.

Quello che parecchi avranno rimosso dalle loro memorie (a ragione) è che in quella finale alla Veltins Arena c’era anche Shabani Nonda. Qui in Italia ce lo ricordiamo soprattutto per una parentesi infelice nella Roma di Spalletti, ma in Francia l’attaccante ha fatto faville. Esploso con il Rennes, il Monaco lo acquistò per 20 milioni di euro, rimpiazzando così David Trezeguet. Nei primi tre anni al Louis II fa 52 gol, vince una Coupe de la Ligue ed è anche capocannoniere. Poi la flessione nei due anni successivi: ciò nonostante, gioca la finale di Champions entrando al 64’. Non cambierà molto, anzi il Porto raddoppia da lì a poco e la finale è finita.

Alla Roma non ha lasciato una grossa traccia, nonostante la sua media-gol sia stata tutt’altro che disprezzabile (8 gol in 23 gare giocate nel 2005–06). I giallorossi, vogliosi di puntare su Totti centravanti e su Montella riserva, lasciano andare l’attaccante. Un prestito al Blackburn, poi tre anni con il Galatasaray prima di ritirarsi.

2003, Manchester — Alessandro Birindelli (Juventus)

Allora, intendiamoci: chiunque abbia fatto parte del gruppo juventino a cavallo tra anni ’90 e anni 2000 ha per forza vinto molto. La particolarità di Alessandro Birindelli è che lui è uno dei pochi a non aver mai vinto molto al di fuori della sua carriera in bianconero, né ha mai brillato con qualche nazionale. Eppure, nella finale di Manchester, c’è anche lui in campo: è entrato al 65’ con l’ultimo cambio di Lippi al posto di Edgar Davids. Nella serie di rigori, lui e Del Piero sono gli unici a segnare. Potremmo considerarlo il Guerino Gottardi bianconero.

Cresciuto nell’Empoli, entra a far parte della truppa di Lippi dal 1997. Sono undici gli anni in bianconero e in quel 2002–03 segna uno dei gol più belli di tutta la Champions League. Il ruolo di Birindelli è stato sempre quello di soldato semplice, ma l’ha svolto con diligenza e passione per la causa. Per questo forse oggi i tifosi bianconeri lo ricordano sempre con piacere. Ha chiuso la sua carriera nel 2010, dopo una stagione al Pisa e un’altra con il Pescina-VG. Oggi si dedica ad allenare ragazzi: dal maggio 2014 è diventato il responsabile del settore giovanile del Trapani.

2002, Glasgow — Zoltán Sebescen (Bayer Leverkusen)

Il Bayer Leverkusen 2001–02 passerà alla storia come la compagine più sfigata della storia. Robe che neanche Hector Cuper. In corsa per un triplete straordinario, le Aspirine chiudono quella stagione con tre secondi posti e si prendono il soprannome di Bayer Neverkusen. Perdono il campionato nelle ultime due giornate. Perdono (male) la finale di DFB-Pokal. Perdono (bene, ma si può dire?) la finale di Champions contro il Real di Zidane. Quel giorno, c’è in campo anche Zoltán Sebescen: la sua partita dura appena 65’, prima che Toppmöller optasse per un cambio. Fuori il terzino, dentro l’eroe Ulf Kirsten per cercare il pareggio (che non arriverà).

Di chiare origini magiare (i suoi antenati vivevano però a Vodjovina, Serbia), Sebescen inizia la sua carriera con lo Stuttgarter Kickers in seconda divisione. Viene notato dal Wolfsburg, poi dal Bayer Leverkusen. In quel 2001–02 gioca ben 44 partite, la sfortuna vuole che quella sarà la sua ultima stagione da professionista: l’anno dopo gioca appena sette gare prima di infortunarsi continuamente al ginocchio. Si scopre che Sebescen è stato colpito dalla malattia di Lyme: dolori alle articolazioni, muscolari e ossei senza fine.

Questo male lo costringe a diverse operazioni, ma nell’agosto 2005 il terzino è costretto al ritiro. Sarà proprio Sebescen a spiegare il perché di questa decisione: «Io ho cercato di superare questa cosa con tutto me stesso. Voglio ancora giocare, stare allo stadio. Ma ho intenzione di vivere altri cinquant’anni e mantenere il mio ginocchio, perciò devo ritirarmi per salvaguardare il mio fisico. La mia carriera? Bella, commovente e breve. Ma con un finale di merda».

2000, Saint-Denis — Javier Farinós (Valencia)

E pensare che all’epoca forse era il più famoso dei tre nella foto.

Se c’è un altro simbolo del bluff rappresentato dal Valencia 2000–2001, quello di Javier Farinós sarebbe sufficiente a spiegare il fenomeno. Dico “altro” perché le figure di Héctor Cúper e Gaizka Mendieta dovrebbero bastare, ma il caso del mediano spagnolo merita di esser indagato. Quella sera il Valencia gioca la sua prima finale contro il Real Madrid di Del Bosque. Quei Blancos sono rappresentati dalla forza di un giovane Casillas, dall’esperienza di Hierro, dalla bellezza calcistica di Redondo e dalla strapotenza di Raul. Dall’altra parte, il Valencia ha fatto fuori la Lazio e il Barcellona con due gare spettacolari al Mestalla (5–2 ai primi, 4–1 ai secondi).

Nella prima finale giocata tra due squadre della stessa nazione, non c’è storia: 3–0 per il Real a firma Morientes, McManaman (primo inglese a vincere la Champions con una squadra non-inglese) e Raul. In campo per il Valencia c’è anche Farinós, perno del centrocampo di Cúper. Se la squadra avrà una seconda chance nel 2001, Farinós coglie subito l’occasione di trasferirsi all’Inter. Una delle più brutte della storia. Quella del 6–0 nel derby di Comandini. Quella dei seggiolini contro l’Alaves e del motorino in curva contro l’Atalanta. Quella di Macellari, Pacheco, Ferrante e Sixto Peralta.

L’acquisto di Farinós arriva per 36 miliardi di lire.

Lo ripeto: 36 miliardi, ovvero 18 milioni di euro.

Cifre folli, ma all’epoca nessuno poteva immaginarlo. Lui si presenta con un gol in Supercoppa Italiana contro la Lazio, ma la sua avventura in Italia sarà una delusione. Farinós starà fuori per un anno e mezzo per gli infortuni e non stupirà mai. All’Inter si ricordano di lui per un unico motivo: i miracoli in un quarto di Coppa Uefa contro il suo Valencia. Con Toldo espulso, si mette i guanti e para l’impossibile per i suoi compagni. Il meglio lo dà quando non è in mezzo al campo. Cinque anni all’Hercules gli hanno permesso di rifarsi una verginità, ma i tifosi interisti non se lo sono ancora dimenticati.

1997, Monaco di Baviera — Nick Amoruso (Juventus)

Davanti a Cassano, Bierhoff e Virdis nella classifica cannonieri di tutti i tempi in A.

Sì, c’è anche lui. Il Nick italiano, che ha una carriera di tutto rispetto in provincia e capace di segnare 113 gol in A con 12 squadre diverse. La Juve è alla seconda di tre finali consecutive tra il 1995 e il 1998. Cose che oggi i club italiani possono solo sognare. Fatto sta che Lippi vuole prendersi la sua seconda coppa e per farlo punta tutto davanti su Alen Boksic e Christian Vieri. Di fronte il Borussia Dortmund di quel gran volpone che si chiama Ottmar Hitzfeld. La variante impazzita si chiama Karl-Heinz Riedle: una sua doppietta mette in discesa la strada per il 3–1 finale dei gialloneri.

In quella finale al vecchio Olympiastadion di Monaco di Baviera, c’è anche Nick Amoruso. Entra al 71’ al posto di Christian Vieri, invisibile. Il suo ingresso arriva qualche secondo dopo il 3–1 di Ricken, nel tentativo disperato di portare la gara ai supplementari. Non ci riuscirà, ma il legame di Nick Amoruso con la Juve è di lunga data. Per cinque anni di proprietà bianconera, l’attaccante è un prezioso gregario nella Juve di Lippi. Nick Piede Caldo non va mai sotto le sei reti a stagione in ogni anno passato in bianconero.

La Champions non la vincerà mai, ma ovunque è andato è sempre stato amato: a Padova ha stupito, a Perugia ha salvato la squadra, a Reggio Calabria è diventato un eroe (oltre che cittadino onorario). Ritiratosi nel 2011, spera di diventare un dirigente importante dopo aver fatto esperienza con Reggina e Palermo. Chissà. Magari riuscirà comunque a rendersi importante, come ha fatto da giocatore.

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