Golia

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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16 min readNov 18, 2016

“Donovan?”
“Sì capo?”

“Digli che noi di qui non schiodiamo. E digli anche che invece loro possono andarsene affanculo.”

“Bene…”

“Ah, Donovan…”

“Sì capo?”

“E digli che siamo venuti qui per giocarcela e che ce la giocheremo.”

“Sì, capo.”

“E che loro possono andarsene affanculo.”

“Me l’hai già detto…”

“Diglielo pure due volte.”

“Sì capo…”

Si sentivano nel frattempo dei colpi arrivare dallo spogliatoio.

“E smettetela Santiddio! Tanto non vi apriamo! Eh, Donovan?”

“Sì, capo?”

“No, niente. Va’ pure.”

“Bene capo.”

Roger Kean rimase un attimo fermo senza sapere bene cosa fare. La squadra era in attesa che la polizia li lasciasse passare o entrasse di forza a prenderli a manganellate. Non c’erano altre opzioni. L’una o l’altra, si aspettava. Kean si massaggiò la mascella ruvida con una mano grossa, il dado era lanciato ora bisognava vedere il numero.

“Aspetta Donovan.”

“Sì?”

“Se ti fa delle storie, digli ancora una cosa…”

“Che cosa?”

“Magnolia Residence”

“Cos’è?”

Era il residence dove Thorton si sbatteva sua moglie. Cioè, non la moglie di Thorton, la moglie di Kean. Roger ci aveva pensato un po’ se giocarsi la carta del residence. Alla fine aveva deciso che sì. Ne valeva la pena.

“Il nome di un residence.”

“Questo l’ho capito, ma che c’entra?”

“Non importa, tu diglielo.”

“Ok capo.”

“E poi digli di andarsene affanculo.”

Donovan partì e Kean rimase seduto sulla panca; i ragazzi intorno lo studiarono massaggiarsi la mascella cavandone un rumore come stesse pasticciando con la carta vetrata.

Era arrivata qualche mese fa la notizia: la nazionale brasiliana era in tourné e il sindaco l’avrebbe invitata per un’amichevole in città. Un modo per rilanciare il turismo, si diceva; il turismo o comunque si chiami quella cosa lì che i forestieri facevano, raramente e male, a Wangulla. E comprensibilmente, visto l’aspetto della città. Sette strade, un drugstore e una dozzina di silos affetti da gigantismo che lasciavano nell’ombra tutto il paese.

Dovevi essere disperato o pazzo per venire a fare turismo da queste parti.

Ma tant’è, il sindaco Thorton aveva mosso tutte le sue conoscenze, i suoi appoggi, le sue influenti pedine, per riuscire ad avere il Brasile in città.

E c’era riuscito.

D’accordo, quell’anno il Brasile usciva ridimensionato da una brutta sconfitta in coppa America, ma rimaneva pur sempre il Brasile, per Diana!

Fu quindi memorabile la seduta del consiglio municipale quando il sindaco Thorton annunciò la sua idea. La banda aveva appena finito di scoperchiare il tetto della sala consigliare con un pezzo di samba particolarmente mal suonato e Thorton si era preso la parola con un ampio gesto delle mani ad abbracciare i dodici allevatori presenti e la signora Whatson che faceva la maglia. Cari concittadini e questo e quello, e su e giù, il turismo, la mia squadra di calcio, le prospettive venture, così e cosà, il Brasile, garantire un futuro ai nostri figli e salvare l’ecosistema.

“Di che diavolo di turismo parli, Jerry? Se non viene un cane in questa dannatissima città!” aveva detto la signora Whatson fermandosi dallo sferruzzare e guardando Thorton da sopra gli occhiali fini.

“E’ proprio questo il problema, signora Whatson,” aveva risposto il sindaco di Wangulla. “Che non abbiamo turismo. Invece è una cittadina che ha immense possibilità!”

“Di quali cazzo di possibilità parla?” si erano chiesti gli allevatori sputando per terra, ma Thorton aveva chiuso in quattro e quattr’otto il dibattito, deliberato e spedito tutti a casa con promesse titaniche e pacche sulle spalle. Gli allevatori avevano fatto la loro faccia perplessa ma intanto la decisione era stata presa, validata, vidimata, timbrata e spedita. L’ottobre successivo il Brasile sarebbe venuto a Wangulla per un’amichevole con il Wangulla Sporting Club, la squadra di cui il sindaco Thorton era proprietario e presidente.

Non che ci fosse a Wangulla, o nelle 80 miglia intorno, qualcosa di cui Thorton non fosse proprietario e presidente.

Tranne, forse, ecco, tranne l’altra squadra di calcio locale. L’Atletico Wangulla. Quella di Kean.

Una banda di disperati e reietti. Forse pazzi, qualcuno aveva osato definirli poeti ed era stato classificato come pazzo anche lui.

Ora, bisogna sapere che il buon sindaco Thorton, vanto della città, fiore all’occhiello della Contea, era un figlio di puttana. Te lo dicevano anche le pietre del deserto, se glielo chiedevi. Commerciava in camion. Vendeva trabiccoli mezzi scassati a prezzi esorbitanti, incassava l’acconto da dei poveri cristi di autotrasportatori, e poi gli faceva saltare i contratti. Niente più lavoro. Nulla. Manco la consegna del latte. Così non potevano andare avanti, niente lavoro niente soldi, niente soldi niente rate e Thorton si ripendeva i camion tenendosi gli anticipi. Ci aveva fatto su un impero, così. Ma nessuno l’aveva mai denunciato. Certo quelli non erano posti dove si denunciano le persone.

Se c’è qualcuno peggiore del figlio di puttana che ti frega è uno che ti denuncia. Da quelle parti i conti si regolavano nei vicoli, di notte, al buio. Preferibilmente in tanti contro uno solo. Per questo Thorton non usciva mai senza i ragazzi di Luciano Macaluso con cui, per altro, si diceva fosse in società per affari ben più loschi.

Roger Kean era uno degli autotrasportatori che s’era fatto bidonare da Thorton. Ci aveva rimesso il camion e la proprietà. Se era sopravvissuto fu solo perchè sua moglie aveva trovato un impiego da contabile alla Thorton autonoleggi. Così, oggi, per abitare in casa sua, Kean pagava l’affitto a Thorton. E in più c’era quella questione del Residence Magnolia che non gli andava giù. Ma che farci? Per questo ci aveva pensato un attimo, prima di spedire Donovan a trattare.

Da dietro la porta i ragazzi di Thorton, quelli dello Sporting Club, continuavano a tirare colpi vigorosi.

“La smettete di rompere i coglioni? Tanto non vi apro. Potete creparci lì dentro.”

Il Brasile era arrivato a Wangulla la sera prima. I giocatori, stanchi di un viaggio di due giorni in pullman, erano scesi nel mezzo di un crocevia deserto rimanendo increduli a quella vista.

“Wallacosa?” chiese Zico.

“Wangulla.”

“Cristo di Dio,” esclamò Pintinho che di posti di merda, comunque, ne aveva visti parecchi.

Furono alloggiati nel postribolo di Madame Lulù che per l’occasione aveva ingentilito il nome in Chambre d’hote, ma la carta da parati viola e le foto alle pareti non lasciavano molti dubbi sull’originale destinazione dell’edificio.

Il giorno dopo, nell’aria acquosa del mattino, la Seleçao andò a testare il terreno. Inutile dire che in un paese come quello si aspettavano una pelada d’altri tempi, e invece rimasero stupiti che in un buco come Wangulla ci fosse uno stadio così. Non enorme, forse, ma nuovo, spazioso, ben tenuto con l’erbetta che pareva brucata dalle caprette la mattina stessa.

“Quanti posti terrà?” chiese qualcuno.

“Diecimila,” rispose Thorton comparendo alle loro spalle tendendo e stringendo mani e elargendo sorrisi.

“E quanti abitanti siete?”

“Quattrocentotrentadue.”

“Siete ottimisti.”

“Non vi preoccupate. Prima di sera sarà pieno.”

E non sbagliava. Wangulla era un buco, ma un buco alla confluenza di tre lunghe vallate, e Thorton sapeva che la gente da quelle parti non aveva grandi distrazioni e che quello stadio era tutto quello che offriva la civiltà.

Oh sì, sarebbero arrivati dagli angoli estremi del deserto e fin dalla costa. I boshimani avrebbero attraversato a piedi il bush per settimane per non perdersi quello spettacolo.

Così, verso le cinque del pomeriggio, camionette polverose, autoveicoli malconci, automobili con la targa a penzoloni o senza targa, stationwagon sovraccaricate, utilitarie, auto sportive tirate a lucido, furgoncini, autoarticolati, insomma, qualsiasi cosa avesse quattroruote collegate a un motore, cominciò ad affluire da ogni parte della regione, in rigagnoli da strade di campagna che si ingrossavano in torrenti polverosi su provinciali sterrate che finivano per gettarsi nel fiume in piena della statale, dagli angoli sperduti della contea, dalle città e dalle campagne fino ad innondare piano piano tutti i campi intorno allo stadio.

I giocatori dello Sporting Club erano sbarcati con le nuove divise che Thorton aveva fatto confezionare per l’occasione. Quella partita avrebbe garantito il salto di qualità alla squadra. Altro che turismo a Wangulla. Che andasse a fanculo quella città di merda. Ma la sua squadra doveva arrivare a giocare in prima categoria e quello era il trampolino che da tempo aspettava.

Thorton li aveva catechizzati a dovere, lavaggio del cervello, promesse e minacce, poi gli aveva consegnato le divise nuove, iridescenti, sfavillanti, e li aveva mandati a cambiarsi

E si stavano proprio cambiando quando un addetto alle pulizie girò la chiave dall’esterno e li chiuse nello spogliatoio.

Quell’uomo era Roger Kean che subito dopo sgusciò dal suo travestimento saltandone fuori con la divisa gialloblu dell’Atletico Wangulla. Così come i suoi che comparvero dai quattro cantoni già belli e pronti per scendere in campo.

Questo, un’ora fa. Adesso erano lì. Coi giocatori dello Sporting che tempestavano la porta di pugni, con Thorton che aveva chiamato lo sceriffo e l’esercito e con Kean, che si massaggiava la mascella ruvida con rumore di carta vetrata.

“Dell’esercito me ne fotto,” disse infine. “Sono dei pisciotelli di leva. Non alzeranno un dito. Quelli che mi preoccupano, invece, sono i ragazzi dello sceriffo. Non hanno mai toccato un’arma in vita loro. Se la tensione sale quelli sono capaci di spararci addosso per sbaglio.”

Così aveva mandato Donovan a parlamentare. Come estrema carta si era giocato il Residence Magnolia. Che era come dire che si era giocato la sua dignità.

Perché fino a quel giorno aveva fatto finta di niente. Tutto sommato la capiva, sua moglie. Non si può rispettare un uomo che passa la giornata girando per casa in mutande e calzini a pianificare come distruggere il suo acerrimo nemico. E così, piano piano, giorno dopo giorno, Kean le era scivolato via. Non era rimasta nemmeno l’ombra, dell’uomo che aveva sposato. Solo un silenzio ostinato, qualche mugugno e tanta frustrazione. Era logico che avrebbe trovato riparo altrove. E tutto sommato non l’aveva ferito neppure il sapere che quel riparo erano state le braccia del suo eterno rivale, mortale nemico, Jeremy Thorton. Il Figlio di puttana. Chiedete pure alle pietre del deserto.

Comunque a quel punto gli rimaneva ancora la dignità della finzione. Fingere di non sapere. Gli era rimasto almeno quello. Ora invece l’aveva persa. Con quella frase si era giocato l’ultimo brandello di un onore tarmato. Ma ne valeva la pena.

Thorton, intanto, andava avanti e indietro masticando sigaro e rabbia. Tendeva al livido e imprecava a mezza bocca certi bestemmioni che avrebbero fatto sbiancare l’anticristo in persona, quando arrivò Donovan.

“Allora, che diavolo state facendo là dentro?”

“Il signor Kean mi ha dato pieni poteri per trattare con lei,” disse Donovan con una flemma da console britannico.

“Di trattare cosa, figli di puttana? Venite fuori di lì subito o vi faccio spianare il culo.”

Donovan si sedette, appoggiò caalmamente le mani sul tavolo, incrociò le dita e si mise a guardare Thorton senza fare una piega.

Il sindaco allora si colorò di rabbia: “Uscite di lì! Ho diecimila persone che aspettano sugli spalti e stiamo per cominciare la diretta in tutto il paese.”

“Il capo ha detto che se ne frega. E anche io, personalmente, sono dello stesso avviso.”

“Chissà se ve ne fregate anche dell’esercito.”

“Va bene. Parlamentiamo.”

“Non parlamentiamo un bel niente. Chi li sente poi gli sponsor della televisione. Non abbiamo tempo di parlamentare!”

“Signor Thorton, quando Dio ha fatto il tempo ne ha fatto abastanza.”

“Ma insomma, si può sapere cosa volete?”

“Semplice. Vogliamo giocare la partita.”

“Cosa?!” a Thorton esplose il viso. Poi si tirò un colpo sulla testa, poi un altro. “Ho sentito male? HO SENTITO MALE?! Devo aver sentito male per forza perché non puoi aver detto che volete giocare questa partita! Io adesso vi faccio arrestare tutti quanti. Vi porto in processo e vi mangio quel poco di niente che vi è ancora rimasto nelle vostre miserabili vite. Lasciate uscire i miei ragazzi dagli spogliatoi o vi giuro che domani mattina penderete appesi per i coglioni al pennone del municipio.”

“La prospettiva, oltre che scomoda, non è percorribile.”

“E perché?”

“Cosa le dice il nome: Residence Magnolia.”

Thorton sentì piegarsi le gambe e prese il colore del muro. Diamine, funziona, pensò Donovan. Ora, Donovan non poteva sapere, come non poteva saperlo Kean, che il Residence Magnolia era stato utilizzato dalla criminalità organizzata, nel corso degli anni, per far scomparire alcuni testimoni scomodi. A questo stava pensando Jeremy Thorton, altro che alla scappatella con la moglie di Kean che oltretutto non era che una fra le tante e neppure la migliore. Ma quando Donovan pronunciò il nome del Residence, Thorton pensò che Kean sapesse tutto di Luciano Macaluso e dei suoi amici di amici e si vide già la scelta tra una prigione federale ed esplorare i fondali della palude con due plantari di cemento ai piedi.

Così cadde sulla sedia come uno straccio da cucina e dalla bocca gli uscì un rantolo: “D’accordo. Di’ a Kean che potete giocarvi questa partita.”

Allora Donovan girò sui tacchi, poi si ricordò, si voltò ancora un attimo e disse: “Ah, e il capo dice che potete anche andare affanculo. Tre volte.” E tornò da dove era venuto lasciando Thorton in preda allo sgomento.

Nel frattempo Roger Kean continuava a massaggiarsi la mandibola e c’era quel rumore di cartavetrata che gli veniva su dalle dita. I ragazzi erano nervosi.

“Dici che ce la faremo?” chiese Eddy il lungo che lavorava alla fattoria dei Dermot.

Roger si fermò, ma disse: “Cristo, a quest’ora dovrebbe già essere qui. Che diavolo sta combinando?”

Eddy guardò gli altri cercando sostegno e trovando solo facce tirate.

Poi finalmente arrivò Donovan.

“Allora?”

“Non è stato facile, capo.”

“E…”

“Be’, la partita ce la giochiamo, ma credo che uscire sarà più difficile che entrare. Ce la faranno pagare di sicuro.”

“E’ stato Thorton a dirtelo?”

Donovan scossse la testa: “No, non ha detto niente. Lui non ha detto niente. Ma c’è da giurarci che ce la faranno pagare.”

“Io per me,” disse il giovane Kowaski. “Io per me la pago anche mille volte. Un’occasione così non l’avremo mai più nella vita.”

“E’ vero,” lo appoggiò Eddy. “E intanto godiamoci la faccia di quel figlio di puttana di Thorton.”

“Allora deciso?” chiese Kean e tutti fecero sì sì col capo. “Se qualcuno non è d’accordo, questo è il momento di dirlo,” ma nessuno rispose e allora Roger si alzò e sentì di un colpo la metà dei suoi quarantun’anni nelle gambe. Era bello e splendente come doveva esserlo stato Ettore il giorno in cui decise di battersi con Achille. Sua moglie se ne sarebbe reinnamorata. Poco ma sicuro. Invece niente, peccato che le donne non sono mai lì quando siamo belli e splendenti come Ettore.

Kean scacciò il pensiero della moglie come una mosca e “Andiamo,” disse. Così gli unidici folli dell’Atletico Wallunga scesero in campo contro il Brasile di Zico e Falcao. Tirarono un lunghissimo respiro prima di entrare nel tunnel che li avrebbe portati sul campo. Un lunghissimo respiro che gli mandò in euforia il cervello, come ubriachi. Quindi si lanciarono fuori. Quando sbucarono li accolse un boato poi la luce e poi il silenzio.

Lo stadio si era zittito di colpo. Le gradinate li osservavano incredule. All’improvviso qualcuno gridò, che era una truffa, che non erano venuti per vedere una banda di alcolizzati e a quella voce ne seguì un’altra, poi un’altra.

Kean alzò solo un braccio, bello in alto come per parlare, anche se poi dal pugno tirò fuori solitario il dito medio; e senza levare lo sguardo ma camminando silenzioso, quel dito provocatorio sopra la testa, andò a centrocampo sotto una grandinata di fischi e insulti e grida e scherni e vaffanculo e mettitelo di dietro se c’è ancora posto di diecimila spettatori che invece esploserò di gioia quando apparvero i Verdeoro.

Leao, Amaral, Edinho, Baiano, Junior, Falcao, Carpeggiani, Cerezo, Zico, Socrates e Nìlton Batata.

Kean li vide. Sembravano divinità dell’Olimpo scese tra i mortali. Poi si guardò attorno e vide che i militari e gli uomini dello sceriffo erano sistemati tutti intorno alle uscite dello stadio. Tirò un sospiro e cercò di non pensare a niente.

La Seleçao, di tutto quel trambusto, non sapeva nulla. Per loro quella era un’amichevole da giocare in paesino sperduto in una tourné di seconda categoria. Qualcosa tra la noia e il fastidio. Speravano solo che la partita finisse il prima possibile per tornare a casa e alla civiltà.

Insomma, una passerella sulla seta piena di applausi, qualche goal, una doccia e via. Come avrebbero potuto immaginare che nell’universo ci fosse uno tanto pazzo e disperato e con una vita tanto derelitta da sognare una rivincita contro il mondo rubando una partita. E come immaginare che poi se ne trascinasse dietro altri dieci come lui? E invece i pazzi esistono. Come dimostra il fatto che il Brasile giocò contro l’Atletico Wallunga quell’ottobre di tanti anni fa.

Furono d’altronde sufficienti tre passaggi, il tempo che la palla arrivasse a Edinho e che Ryan gli fosse addosso, per chiarire ogni equivoco. Il ginocchio di Edinho volò fuori dallo stadio e atterrò sul bancone dello drugstore di Thorton. Zico e Socrates si guardarono e capirono in un attimo che quella non era serata di semplice amichevole.

I brasiliani erano partiti molli, ma quando videro quel ginocchio piroettare sulla luna si incattivirono. Anche perché, tutto erano, tranne che bamboline di ceramica. La maggiorparte di loro arrivava da campacci di periferia dove la polvere faceva a cazzotti con le pozzanghere. E se è così che si deve giocare così giocheremo, si dissero. E le scarpate cominciarono a volare da una parte e dall’altra. Il Brasile ci diede dentro e alla fine del primo tempo vincevano tre a uno. Batata, Zico e Baiano avevano portato avanti la selezione verdeoro, e Kowaski aveva accorciato le distanze dal dischetto. Chiaro che il Brasile era a un altro livello. Non c’era partita. Ma li avevano sudati tutti, quei tre goal e all’intervallo erano spremuti come limoni.

Così a inizio ripresa l’Atletico riesce a rimettersi in partita. Una punizione da centrocampo sulla destra, ben tagliata, su cui però è terribilmente colpevole la difesa brasiliana che non chiude e Jeson, tutto solo, la butta dentro di testa facendo infuriare Leao. E poi pochi minuti dopo Kean che prende la palla, salta due avversari a dispetto dei suoi quarantun’anni, e butta dentro il pallone del pareggio. Un rasoterra che finisce per rimbalzare a fil di palo, perfetto, imprendibile. Kean è sul tetto del mondo. Kean il vinto, il battuto, il tradito, l’umiliato. E lo stadio non ride più, non sbeffeggia più, non fiata più, hanno smesso di insultarlo e fischiare. Li ha zittiti tutti. Adesso Roger Kean cammina a testa bassa verso la sua metàcampo toccandosi l’attacco del naso e provoca qualcosa come un’ondata calda di rispetto.

Ma il Brasile, per Dio, il Brasile è il Brasile e a perdere non ci sta. Sarebbe uno smacco. Con tutte le attenuanti della preparazione, del campionato finito, dell’amichevole, del viaggio in pullman, delle camere in cui è impossibile dormire, delle zanzare, il Brasile comunque non ci sta. Per questo si lanciano all’attacco con quella leggerezza, quella velocità, quell’eleganza che li ha resi celebri in tutto il mondo. Sono undici ma paiono cinquanta. Corrono e sfrecciano, si sovrappongono e scattano. Imprendibili. Dei funamboli su un filo sottile di grazia e poesia che armonizzano di tacco, allargano la manovra e concludono in sforbiciata. Ma tiro su tiro, assalto su assalto, ogni tentativo dei campioni brasiliani si infrange su caviglie, gambe, cosce, piedi. Su un’entrata dura, una palla sbattuta in corner, una zuffa, una rissa. E si innervosiscono i brasiliani. Hai un bel dire che sorridono sempre, ma Amaral tira una gomitata che spacca il sopracciglio di Eddy il lungo e Baiano fa un’entrata assassina su Kowaski.

L’arbitro ha il suo daffare a separare, dividere, riappacificare, ammonire, emendare. La partita va avanti così fino alla fine. Fino alla fine il Brasile attacca ma non riescono a sfondare quel muro testardo messo su da una manica di balordi disperati. A volte nel calcio cose così succedono. Ed è il motivo per cui il calcio è qualcosa che emoziona. Non per la goleada del Real Madrid. No. Ma per quell’anonimo sedicesimo di finale in cui una squadra di quarta categoria riuscirà a battere il Manchester United. Anche se poi uscirà al turno successivo, magari sconfitta da un pugno di brocchi, anche se fra trent’anni nessuno si ricorderà di quell’impresa, anche se la prosa svilirà la poesia. E’ per questo che si guarda il calcio. Per la speranza che Davide abbatta Golia, che la vittoria degli ultimi, dei disperati, dei derelitti, degli incapaci e dei reietti ci risollevi dalle nostre miserie, ci illumini la via. Perchè quel momento è divino piacere.

Per questo, ad un certo punto, il pubblico cominciò ad alzare la voce e a sorreggere i ragazzi dell’Atletico. Per questo, perchè in quei ragazzi percepivano un guizzo della poesia del mondo. La stessa che vedi in certe barbe sporche di rivoluzionari venezuelani o nell’iride dilatato di un anarchico boemo. Il pubblico cominciò a sostenerli, a gridare e incitarli. E ogni volta che il pallone veniva scalciato malamente in rimessa per guadagnare venti secondi, era accolto da un boato come avessero fatto goal.

Poi, a una manciata di minuti dalla fine, Falcao vide un pallone altissimo andargli incontro. Era alto che la palla si poteva confondere con le stelle e Falcao decise di dargli del tu. La fermò e le disse Adesso vieni con me, e si girò, e saltò uno due tre giocatori e lasciò partire un tiro che si infilò come un filo da sarta nella cruna di un ago. Perfetto, pulito, come inumidito dalla saliva. Scivolò nella porta e si fermò in fondo alla rete.

Davide non ce l’aveva fatta. Golia era troppo grande e troppo forte e arrivava da un’altra galassia e poi la poesia è per gli sciocchi e gli anarchici sono arrestati e i guerriglieri fucilati e poi, e poi le cose vanno come devono andare, c’è una sola direzione che è tracciata e la nostra vita la segue come un fuso. Questo è quanto, tutto il resto sono solo storie buone per passare serate.

Questo è quanto.

Ma quando l’arbitro lanciò nell’aria il triplice fischio che concludeva l’incontro, i ventidue sul terreno di gioco erano stremati. Da una parte e dall’altra. Non avevano più la forza di cercare quel po’ di saliva che gli rimaneva in bocca e deglutirla. Però si abbracciarono, veramente, come quasi mai succede su un campo da calcio. Dopo essersele date di santa ragione, si abbracciarono come se si fossero appena regalati il più bel ricordo della loro vita, come se avessero saputo che a tanti anni da quella sfida, quello sarebbe rimasto un ricordo indelebile. E uscirono tra i cori di diecimila pazzi ubriachi di birre calde e di gioie scintillanti con l’esercito che restava a guardare non osando intervenire davanti a quella follia collettiva.

Così andò, nell’ottobre del ’79, la più bella partita che quella selezione brasiliana abbia mai giocato. Un’amichevole contro degli sconosciuti in un paesino da nulla.

Purtroppo, nonostante la grande gioia, o forse a causa di quella, un paio di settimane dopo Roger Kean fu rinvenuto al mattino, per strada, crivellato di colpi. Eppure lo sapeva che da quelle parti le cose si aggiustano altrimenti. Di notte. Al buio. Preferibilmente in tanti contro uno solo.

Un racconto di Francesco Scarrone

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