Ground control to Ciccio Cozza
πρόλογος
(o dell’avere 18 anni nella squadra più forte al mondo)
Stagione 1993–94, il Milan vince scudetto e Champions League ed entra nella storia come una delle prime vere corazzate del calcio europeo moderno, in termini di campioni in rosa. Gullit, Rijkaard ed Evani sono andati via ma ci sono Van Basten, Baresi, Maldini, Savicevic, Boban, Lentini, Albertini, Simone, Desailly, Donadoni, Costacurta, Tassotti, Laudrup, Massaro, Papin. C’è una squadra in cui è difficile, quasi impossibile, trovare spazio se sei un ragazzino.
Ne sa qualcosa Giovane Elber, che Giovane non s’è mai chiamato davvero, ma che arriva in Germania proprio quell’anno dalle giovanili del Milan, e che si porterà appresso per sempre quell’appellativo, figlio proprio della sua condizione anagrafica ai tempi della permanenza in rossonero. C’è Christian Panucci, che trova spazio perché nel suo ruolo c’è meno concorrenza, e poi c’è un giovane regista avanzato, aggregato da Capello in prima squadra, che con quella maglia conterà solo una presenza in Coppa Italia, prima di fare la valigia e girare l’Italia, con 10 maglie diverse.
Un anno e mezzo prima, nel giugno del 1992, quel ragazzino è seduto in panchina a Reggio Calabria, città in cui muove i suoi primissimi passi nel calcio. Tra tutti i 22 in campo, i suoi piedi sono i migliori, eppure gli tocca guardare metà della partita da seduto. È la finale di ritorno del campionato Primavera tra Reggina e Torino, e al 50esimo un avversario dalla mascella squadrata, Christian Vieri, ammazza l’incontro con una tripletta. Il ragazzino entra al 56esimo, con la maglia amaranto, ed è troppo tardi perché possa cambiare le sorti del match, ma dal modo in cui sta in campo, c’è da scommetterci, sarà uno dei pochi a incrociare di nuovo la sua strada con quella dell’ariete granata.
Il Toro junior vince 4 a 3 quella finale e si aggiudica il torneo, ma gli occhi degli osservatori del Milan sono puntati sullo sconfitto. Nei suoi piedi c’è la grammatica dell’incantesimo e nel suo sguardo il pallone, ma in maniera diversa da quella dei suoi coetanei. Non è un innamorato della sfera di cuoio, il ragazzino, anzi la concepisce in funzione del campo, del gioco. Non a caso quando Berlusconi lo porta al Milan, quell’estate, è convinto di essersi assicurato l’erede di Demetrio Albertini.
E invece Francesco Cozza detto Ciccio, è un 10 nato.
I. τετρακτύς
(o della genealogia del numero 10)
Tra la Crotone di Pitagora e Cariati (Cs) ci sono 58 km di distanza. Le due città oggi non sono accomunate nemmeno dal fatto di trovarsi nella stessa provincia, ma a legarle in qualche modo è il numero 10.
Dieci sono gli elementi che compongono la tetraktys, successione dei primi quattro numeri interi in forma piramidale, un simbolo talmente importante per Pitagora che proprio su di esso, nella sua scuola, faceva giurare i nuovi discepoli. Anche nel calcio il 10 è compimento, ricerca della perfezione numerica, ma attraverso fantasia, imprevedibilità, spesso attraverso quelli che il senso comune ritiene eccessi. Nella tetraktys, invece, il dieci è frutto di una composizione ragionata, in cui tutto è geometricamente al suo posto.
Uno e poi due e poi tre e poi quattro, ed è doppia cifra per la prima volta, quella che non si dimentica mai. Niente fronzoli, è tutto raziocinio. Se ci sembra magico è perché non ci abbiamo mai pensato.
Uno, e poi due, e poi tre, e poi quattro.
Dieci.
Quando nel calcio si fa uso del termine predestinato si scarica con violenza sulle spalle del tempo l’onere di essere soggetto a necessità. Un esercizio ingrato che costringe le parabole e le ellissi in una prigione fatta di binari retti, in uno spazio angusto in cui è difficile determinare il proprio senso, in faccia alle infinite sfumature di realtà possibili. Figurarsi giocare a pallone, figurarsi con il 10 sulle spalle.
«Da ragazzino avevo la possibilità di scegliere se giocare a calcio o a tennis. Ho avuto la fortuna di scegliere il calcio e sono riuscito a fare una carriera dignitosa». Fine, niente “il calcio è la mia vita”, né “il 10 è la mia seconda pelle”. Tanto è vero che in carriera Cozza ha indossato anche numeri improbabili, tipo il 35.
Perché il calcio e non il tennis? Era destino, era sacro fuoco? E se avesse scelto il tennis? Non essendo quella una possibilità che si è concretizzata, non ha senso parlarne. E d’altronde a guardare giocare Ciccio Cozza, ancor prima che a sentirlo parlare, la sensazione è che il talento non venga mai definito dal numero né dall’estro, ma dalla concretezza del gioco, dal modo di stare in campo. Non importa che campo e non importa quanti se ne debbano calcare, per farsi riconoscere come tale.
II. προσκύνησις
(o dell’accettare i propri limiti)
Dieci, guardacaso, sono le maglie indossate da Cozza nella sua carriera, ma una sola quella a cui i suoi anni migliori sono legati, quella di casa. La strada del ritorno però è tutt’altro che scontata.
Ciccio esordisce in A con la maglia della Reggiana, nel settembre del ’94, dove colleziona appena 3 presenze prima di approdare al Vicenza in B. Nei quattro anni successivi fa ancora la spola tra la massima serie e quella cadetta, con Cagliari, Lucchese e Lecce. Fin qui è la classica trafila del 10 di provincia che fatica a trovare spazio in squadre che per salvarsi hanno bisogno di pedalare molto e di ben poca fantasia.
Tutto sommato questi 4 anni con il trolley sulla porta fanno bene a Ciccio, lo forgiano, sia fisicamente che calcisticamente, come una specie di leva militare prolungata. Estenuante, ma sopravviverle ti trasforma, ti rende più adatto al Vietnam che sta diventando il calcio italiano di quegli anni, se sei un numero 10.
Per esempio la leggenda secondo cui il trequartista non deve prenderla mai di testa, perché è volgare, con lui va in fumo. Se ce n’è bisogno, la prendo anche di testa. Se ce n’è bisogno, faccio anche gol di rapina, imparo ad anticipare il difensore, altrimenti i gol non te li regalano. Non è difficile, devi andartela a prendere, la palla. Uno, e poi due, e poi tre, e poi quattro. E le reti arrivano, in questi anni di limbo: quattro in A e nove in B.
D’altronde quando parti da predestinato, prima di capire quale sarà la tua strada, devi prima imparare con le cattive che qualcuno potrebbe aver avuto torto a darti del fenomeno. C’è un momento in cui il tuo spirito o le tue qualità spiccano perché non hai ancora l’età per farti la barba e già ragioni come un adulto, e come un adulto tocchi il pallone e metti in fila i pensieri. Ma c’è un altro momento in cui cresci e capisci che il mondo dei grandi va a un’altra velocità, e questa non sempre è la tua.
Sono gli anni delle sette sorelle per lo scudetto, in Italia, gli anni della Juventus di Lippi, della Lazio di Eriksson, del Parma grande realtà del calcio europeo, gli anni di Batistuta e Bierhoff capocannonieri. Sono gli anni di Ronaldo, Zidane, Del Piero, Totti. Anni in cui Baggio, per giocare con continuità, deve andare al Bologna. La serie A si stava trasformando in un luna park di fenomeni e per emergere non bastava più avere talento, dovevi essere un alieno. Come spesso accade prima dell’inevitabile declino, un ambiente vive il suo periodo di massimo splendore bruciando al doppio della sua normale velocità.
In uno scenario del genere, per far sbocciare il tuo talento, devi necessariamente accettare i tuoi limiti, accettare le panchine, accettare la B. Ma se è vero che in ogni passo indietro è nascosta l’occasione per farne due in avanti, allora cercasi dimensione per uno che ha troppo carisma per accettare un ruolo da eterna riserva e non abbastanza sponsor per esordire in Champions League.
III. νόστος
(o del ritorno)
Il 13 giugno del 1999 è il giorno in cui il passato ritorna. Il ragazzino con i piedi buoni e la valigia pronta per Milano affronta di nuovo il Torino con la maglia amaranto, ma non è più una partita tra ragazzini, come nel ’92, stavolta ci si gioca la A e per di più in casa dell’avversario.
Ciccio è tornato a casa da 5 mesi, giusto in tempo per scorgere la storia dagli undici metri, la sua e quella della sua terra. All’ombra della Mole la Calabria si è spesso presentata per dare, consegnando famiglie intere di lavoratrici e lavoratori come in una resa, come se non ci fosse altra soluzione che arrendersi di fronte all’arretratezza di una terra, ancora troppo aspra per evitare quel sacrificio. Stavolta però la Calabria è qui per prendere.
Sono 10 i passi che separano Cozza dal dischetto. Ognuno di quei passi ha la forza di una strada ritrovata, di un rito di iniziazione per chi è pronto a essere più di un numero 10 di provincia. La palla va nella stessa direzione della storia, ed è uno a zero.
La partita finisce 2 a 1, e la Reggina raggiunge la Serie A per la prima volta.
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«Prima di andare al Milan, parlando con il presidente Foti, mi ero ripromesso di tornare e magari di vincere il campionato di B, e quindi di andare in serie A con la Reggina. Ho avuto la fortuna di realizzare questo sogno, che coltivavo già da bambino: sono riuscito a giocare nella massima serie con una squadra calabrese e fare tanti anni in A, anche da capitano, negli anni in cui il calcio italiano era il miglior calcio al mondo».
Bastava dirlo. Uno, e due, e tre, e quattro.
Eppure anche arrivati in A il problema si ripresenta. Non ci si salva con la fantasia nella massima serie, questo è il pensiero comune. Specie se hai già un Andrea Pirlo da schierare. Ragion per cui Cozza, in tutto il primo anno di grandi palcoscenici nazionali, colleziona solo 17 presenze e due reti, una delle quali segnata contro la Roma, la prima di Capello, all’Olimpico.
Quella è una squadra a cui per vincere mancano ancora Batistuta, Samuel ed Emerson, mentre la Reggina è una forza arrembante che ha grinta da vendere e tutto da guadagnare. Ciccio deve beneficiare di un turn over per confermarsi un giocatore chiave ma il risultato non cambia. All’occorenza il numero 10 sa trasformarsi in un rapace d’area, approfitta di una distrazione colossale della difesa giallorossa e anticipa Antonioli con un colpo da cineteca.
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Fin qui sembra non ci sia pace se ti chiami Ciccio Cozza, e invece in qualche modo dalla seconda stagione in A la storia d’amore decolla del tutto, con una media di 27 presenze all’anno per i successivi tre campionati, complice la partenza di Pirlo e un ambiente che finalmente ha capito quanto grande sia quel numero 10 che Reggio si è trovata già in braccio e che tanto ha girovagato prima di tornare.
Finalmente la Reggina ha il suo Capitano.
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IV. κἁθαρσις
(o della partita perfetta)
2 giugno 2003, festa della Repubblica, ma non è ancora detto che oggi ci sarà qualcosa da festeggiare. Hai presente quella sensazione di bruciore in gola che arriva fino alla bocca dello stomaco, ecco, sono passati solo due anni ma ancora non smette di bruciare, anzi. Due anni da quando l’Hellas Verona ti ha condannato alla B in casa tua e a fronte di una vittoria, ma per la regola il suo gol fuori casa valse il doppio.
E ora sei a Bergamo, a 1297 chilometri da casa, e sotto di un gol. Se non vinci, sei di nuovo in B. Dovevi giocare ieri, ma si è scatenato il nubifragio, perciò hai un giorno di tensione in più sullo stomaco. L’ambiente è fuori di testa, per la bolgia dello stadio sei un terrone destinato a perdere. Non ha molto senso, il loro portiere, Massimo Taibi, è siciliano, lo conosci, è stato il tuo primo portiere in A, una volta ha anche segnato un gol in mischia. Due anni fa, contro il Verona, è uscito sconfitto anche lui dalla sfida del Granillo.
E ora lo devi trafiggere, per forza, sennò è B. Sei un numero 10… oddio, questa è una di quelle stagioni bislacche in cui indossi il 35, ma non lo decide la maglia il numero che porti sulla pelle. Il pallone deve entrare in porta, anche se non ci entra da numero 10. E allora chiedi un 1–2 in area, di mezzo c’è Bonazzoli, ti mette il pallone a terra e ti libera lo spazio. Taibi esce dai pali, tu lo anticipi, la palla rimbalza sulla gamba del portiere e finisce alle sue spalle. Ti rialzi solo quando la vedi dentro. Diranno che è un gol fortunoso, da opportunista e non da 10, ma è come se l’avessi messo dentro col pensiero.
Nel secondo tempo provi a imbeccare Diana e Bonazzoli in ogni modo, con palloni telecomandati che trafiggono alle spalle la difesa orobica, non lo puoi sentire, Fabio Caressa, mentre in televisione esclama “Che partita, Cozza!”. Trattieni il fiato ogni volta che Belardi o Mozart salvano il risultato e lo mantengono sull’1 a 1, mantieni la calma. Esplodi solo quando Bonazzoli, con il bonus karmico che le tue giocate gli hanno concesso durante tutta la partita, trova da solo la strada per il gol dell’1 a 2. L’Atalanta ora dovrebbe segnare 2 gol in 5 minuti. Parte del pubblico che ti dava del terrone, però, lascia lo stadio prima del fischio finale, quello che sancisce la tua vittoria più grande.
Era questa, la tua finale di Champions League. Il destino che ti aveva regalato un pallone toccato da Van Basten a 18 anni e che altri avevano interpretato per te, prima troppo bene e poi troppo male, ti ha dato una sola partita della vita, questa, e tu, con una freddezza matematica, non hai solo partecipato, l’hai decisa ispirando i tuoi compagni con un atteggiamento da campione.
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Nei due anni successivi ti acquista il Genoa, ti gira al Siena, poi torni a Reggio, poi ti reclamano a Siena, e poi ancora a Reggio, non importa, davanti a te hai ancora più di 100 partite con la maglia amaranto, e con la fascia di Capitano legata al braccio. Ogni volta che tornerai, sarai a casa tua.
Forse il rammarico più grande è quello di non poter chiudere qui la tua carriera, ma i tempi cambiano e ti tocca farlo a Salerno in una stagione che lascia l’amaro in bocca a tutti, ai tuoi tifosi e probabilmente anche a te. Ma non è facile essere Ciccio Cozza, è come essere abbonati a non avere mai niente in regalo. Tutto va conquistato e sudato, non si fanno sconti a due piedi da 10.
ἐπίλογος
(o delle cose che ho imparato)
Mentre vi scrivo, Cozza allena la Reggina in Serie D. Il nome della squadra in realtà è ASD Reggio Calabria, perché la vecchia società è fallita. Ciccio ha deciso di ripartire dal basso, perché per lui non è mai una questione di prestigio ma di sostanza, di lavoro. In questi casi non c’è posto migliore di casa tua per provare a fare la differenza.
D’altronde dal Granillo sono passati pesi massimi del calcio nazionale quali Andrea Pirlo, bomber di razza come Nick Amoruso, Rolando Bianchi ed Emiliano Bonazzoli e a-listers di provincia come David Di Michele e Franco Brienza, eppure a Reggio, se dici calcio, dici Ciccio Cozza. Nove stagioni con la maglia amaranto, sette in A e due in B, 235 presenze e 48 reti, due promozioni conquistate e uno spareggio vinto. Per svariati motivi, il numero 10 amaranto è la quintessenza del calcio calabrese, più dei campioni del mondo Gattuso, Perrotta e Iaquinta, o di grossi calibri come Mark Iuliano e Stefano Fiore, perché tra tutti i suoi conterranei e coevi è quello che ha costruito la sua carriera là dove era più difficile farlo, a casa propria. Diventando in questo modo un simbolo.
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Questo perché la parabola di Francesco Cozza parla a tutti i ragazzi che, come me, condividono con lui la nascita in un freddo giorno di fine gennaio in una terra povera, aspra, selvaggia e difficile.
Impossibile prevedere come andranno le cose, un giorno non hai neanche l’età per farti la barba e ti ritrovi a dividere il campo d’allenamento con Van Basten, Savicevic e Maldini. Il giorno dopo ti dicono che diventerai un campione ma non c’è spazio per te negli annali del calcio internazionale. Forse le circostanze non ti hanno aiutato, forse a Genova o a Torino saresti diventato un campione, forse non sei tagliato per la parte, forse devi soltanto riconoscere i tuoi limiti. In fondo hai girato tanto ma è a casa che hai fatto le partite migliori e hai segnato i gol più belli. Per ogni Nemo costretto a fare il profeta all’estero, c’è un Ciccio Cozza a cui viene data l’occasione di essere importante per una platea di pochi, e di farli sentire meno soli nella loro terra povera, aspra, selvaggia e difficile.
Questo mi ha insegnato Ciccio Cozza: non importa quanto tu sappia di essere bravo, importa solo che giochi come sai, come se fosse l’unica cosa da fare, anche quando sai che non c’è nessuno che ti ricompenserà portandoti al Bernabeu o all’Old Trafford, o a un ritiro di Coverciano. Sei un grande giocatore quando fai qualcosa per gli altri come se lo dovessi a te stesso. A quel punto non c’è differenza tra un gol in finale di Champions e un gol in uno spareggio per rimanere in Serie A.
Sembra difficile ma è ricerca della perfezione in salsa minimale, come la tetrakyys pitagorica.
Uno, e due, e tre, e poi quattro.
Dieci.