Gylfi, figlio di Sigurður

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
Published in
10 min readOct 14, 2014

«Allora ragazzi, a me non interessano le attrazioni turistiche. Non voglio andare a vedere le balene o a spiare quegli uccelli buffi che in Italia chiamiamo pulcinelle di mare. Stanotte voglio fare una cosa che fanno gli Islandesi veri. Quelli come voi che finiscono di lavorare, indossano maglioni colorati e vanno al pub ancor prima di farsi una doccia».

«Va bene, Leonardo. Allora uccidiamo questa birra e andiamo a tuffarci nell’Oceano».

Le notti di Reykjavik sono luminose e nerissime, fredde eppure calorose. D’estate la latitudine mette in fuga le tenebre: ventiquattro ore di luce. D’inverno il buio ha la sua rivincita: si prende tre quarti di giorno. In mezzo c’è la vita. La vita di una città silenziosa e colorata, moderna e orgogliosa. La tensione evolutiva di un creato che si crea nel momento esatto in cui tu lo guardi e ci cammini sopra. L’isola sorge nel punto in cui la placca Americana e quella Eurasiatica continuano ad allontanarsi. Due centimetri di più ogni anno. La ferita si apre e fuoriesce lava. Si richiude e si forma terra nuova. E’ così da millenni. Era così quando San Brendano e altri monaci irlandesi decisero di affrontare la perigliosa traversata verso la terra misteriosa indicata dal movimento migratorio degli uccelli. Era così quando i vichinghi norvegesi colonizzarono l’isola a ridosso dell’anno 1000. Era così quando la Danimarca si impadronì della terra del ghiaccio, quando il Laki eruttò di brutto causando terribili carestie e anche quando Vigdís Finnbogadóttir diventò la prima donna al mondo democraticamente eletta capo di stato.

Pure quando Gylfi Þór Sigurðsson scoprì di essere bravo a calciare un pallone, la terra sotto i suoi piedi si muoveva inesorabilmente. Ma lui fu più veloce della geologia e pure dei galeoni vichinghi. Prese un aereo e si trasferì nel Regno Unito. Aveva 16 anni e un sogno grande più del vulcano Hekla.

«Non capisco una cosa. Vivete in una terra magica. Perché avete tutta questa voglia di andarvene di qua?»

«Sai, Leonardo, noi non vogliamo andarcene. Ma siamo giovani, ne sentiamo il bisogno. Se tu ne hai voglia, puoi prendere la macchina e guidare tutta la notte e arrivare in un’altra nazione, dove si parla un’altra lingua e gli uomini hanno facce diverse. Noi no. Ci serve per forza una nave, o un aereo. E il posto più vicino che c’è è la Groenlandia».

Groenlandia e Islanda dovrebbero scambiarsi i nomi. Perché Green-land è ricoperta ghiaccio, mentre Ice-land è verdissima. Verde di prati, viola di fiori, nera di lava e azzurra di acqua. Un pescatore mi ha detto che in Islanda se alzi gli occhi vedi sempre almeno quattro colori diversi davanti a te. Devi solo distringuerli e contarli. A Reading, meno di un’ora di treno da Londra, se alzi gli occhi vedi quasi solo il grigio del cielo inglese e delle industrie. Il sedicenne Gylfi, figlio di Sigurður, arrivò a Reading nel 2005 e si alternò tra primavera e squadra riserve per tre anni. Il signor Sigfrido, come diremmo noi, seguì il figlio in Inghilterra, portando avanti il suo business ittico islandese solo grazie a un telefono cellulare.

Gylfi in verità non ama pescare, anche se la sua pagina Wikipedia dice il contrario, sotto la voce ‘interessi’. “Si tratta di un errore, ho solo fatto il testimonial per un’azienda ittica. Ma non ho tempo per aggiornare la mia pagina di Wikipedia, ho cose più importanti da fare. Per esempio giocare a golf con mio fratello.” Il figlio più grande di Sigurður è professionista in Islanda. Ma è la faccia di Gylfi ad essere ovunque, a Reykjavik e dintorni. Oggi che Eiður Guðjohnsen — il più titolato calciatore della storia islandese — è sul viale del tramonto, Gylfi può raccoglierne in toto l’eredità. Sui palazzoni della zona industriale domina il suo fascinoso sguardo di ghiaccio. La Pepsi, che non è esattamente un’azienda ittica locale, l’ha scelto come volto pubblicitario per il Paese.

«Dicono che, siccome siete molto pochi, alla fine siete tutti parenti tra voi, qui in Islanda. Cosa significa essere cugini di Bjork?»

«Niente. Lei viene spesso nel mio bar, dove oggi hai mangiato il panino con l’aragosta. Ma qui non la caga nessuno. Se un Islandese diventa famoso all’estero, quando torna a casa lui è di nuovo uno qualunque. Perché qui nessuno è migliore degli altri».

Di sicuro quando a tornare a casa fu la nazionale di pallamano, argento olimpico a Pechino nel 2008, l’accoglienza fu tutto fuorché fredda. Si stimò — in base al ridotto utilizzo di acqua nei bagni — che quasi 9 islandesi su 10 avessero visto la finale olimpica in tv. Quarantamila anime festanti riempirono le strade di Reykjavik per salutare i “nostri ragazzi” capaci di portare al 66° parallelo Nord la quarta medaglia olimpica della storia. Stefánsson e compagni si guadagnarono gloria imperitura anche nel famoso museo fallologico della città.

Se la pallamano può essere classicamente considerata sport nazionale, il calcio le è ormai molto vicino. Pochi mesi fa, l’Islanda è andata vicinissima ad una storica qualificazione ai Mondiali brasiliani, perdendo il playoff contro la Croazia nella gara di ritorno. Una nazione che ha la stesso numero di abitanti del Molise è stata ad un passo dalla ribalta mondiale. Forse ai vichinghi non sfuggirà quella europea in Francia, tra due anni: per la prima volta la competizione sarà allargata a 24 nazionali e nel suo girone di qualificazione l’Islanda è a punteggio pieno dopo tre partite con otto gol fatti e zero subiti. Nella vittoria per 3–0 contro l’Olanda, terza in Brasile, Gylfi ha segnato una doppietta. Ma è tutto l’undici di Lars Lagerbäck che dà garanzie: oltre agli ‘italiani’ Bjarnason e Hallfreðsson, in attacco spicca Kolbeinn Sigþórsson, bomber dell’Ajax.

FBL-WC2014-ICL-NOR

«Come si fa ad essere una delle nazioni meno religiose del mondo e allo stesso tempo impedire la costruzione di una strada pubblica per paura di disturbare gli elfi che abiterebbero i campi di lava?»

«Leonardo, se ci chiedi se crediamo agli elfi noi rispondiamo “Non lo sappiamo”. Questa è un luogo di grandi misteri. Le storie degli elfi possono essere un po’ fantasiose, ma rappresentano il legame inscindibile che noi abbiamo con questa terra».

A Gylfi Sigurðsson non manca proprio, la fantasia. Trequartista puro, ama giocare dietro le punte e cercare lo spazio necessario per un assist millimetrico o per una botta dalla distanza. Dopo i primi due prestiti a Shrewsbury e Crewe Alexandra, nel 2009 il primo gol con la maglia del Reading. Da fuori area, ovviamente. A fine stagione i gol saranno 21 in 44 partite. Dalla Germania, nell’ultimo giorno di mercato dell’estate 2010, arriva un’offerta irrinunciabile: 6 milioni e mezzo di sterline, cessione più remunerativa della storia del Reading. Sigurðsson finisce all’Hoffenheim, il Chievo teutonico. Un’altra bella stagione, sempre da numero 10 e sempre a calciare punizioni: dieci gol, due assist, giocatore dell’anno per i tifosi nonostante le sole 13 presenze dal primo minuto.

Markus Babbel però non ama particolarmente l’anarchia tattica dell’islandese e nel torneo successivo lo spinge ai margini delle rotazioni. A gennaio arriva una chiamata da oltremanica, dove più d’uno ricordava le abilità balistiche di Gylfi, figlio di Sigurður. I gallesi dello Swansea lo prendono in prestito per sei mesi, Brendan Rodgers lo mette al centro del suo progetto tattico e l’islandese va che è un piacere: 7 gol e 4 assist in 18 presenze, e Swansea salvo con largo anticipo in Premier League. L’accordo con l’Hoffenheim per la cessione definitiva, raggiunto da tempo, salta clamorosamente dopo il passaggio di Rodgers al Liverpool. Il Tottenham di Villas Boas si fionda sull’islandese e lo porta a White Hart Lane: Gylfi è approdato in un grande club europeo. Qualcuno l’ha soprannominato il Beckham d’Islanda.

«Ragazzi, mi fate capire che rapporto avete con i vulcani? I geologi dicono che la vostra terra è un paradiso per i loro studi. Voi come la vedete?»

«Noi non temiamo il creato, lo rispettiamo profondamente. Sappiamo che qui l’equilibrio tra le forze della natura è delicato e precario e basta anche solo strappare un filo d’erba per incrinarlo forse per sempre».

Quando i giganti degli altopiani sbuffano, la cenere copre tutto. Gli agnelli e le balene, i ghiacciai e i prati verdi. Gli islandesi si rimboccano le maniche e la spalano via, aiutati dai loro fedelissimi cavalli, che sono i più resistenti e docili del mondo. Non c’è un solo essere vivente, in Islanda, che possa fare del male all’uomo. Né insetti né serpenti. Lassù la razza umana ha conservato il suo ruolo originario e meraviglioso di forza capace di conciliare le pulsioni estreme e distruttive della natura. La gente islandese, pallida e dallo sguardo glaciale, nei momenti di difficoltà adora ripetere “Þetta reddast”. Nella loro antichissima lingua significa ‘Va tutto bene’, ‘Sistemeremo tutto’, ‘Troveremo il modo’.

I momenti di difficoltà ti sorprendono anche quando tutto sembra concorrere al successo. Per qualche strano motivo, i due anni di Sigurðsson al Tottenham sono un susseguirsi di piccoli grandi malintesi. Il fantasista viene snaturato e schierato spesso e volentieri sulla fascia sinistra. Villas Boas prima e Tim Sherwood poi, concedono all’uomo di ghiaccio solo pochissime apparizioni nel suo ruolo d’elezione. “A Londra è stato fantastico. Ci sono strutture di allenamento fin troppo buone. Ma noi calciatori abbiamo carriere corte, e io un giorno non vorrò certo guardarmi indietro e pentirmi delle troppe volte che sono rimasto seduto in panchina”. Saggezza scandinava.

Nel luglio scorso, il ritorno allo Swansea è cosa fatta. All’esordio stagionale in Premier, Gylfi timbra il 2–1 che vale la vittoria ad Old Trafford: è la prima sconfitta interna del Manchester United all’esordio dal 1972. Dopo sette giornate, i gallesi sono quinti in classifica, e Sigurðsson guida la classifica degli assist insieme a Cesc Fabregas. Nella top ten dei passatori più efficaci della Premier League è in compagnia di gente come Di Maria, Gerrard e David Silva.

I nomi islandesi portano con sé un bagaglio senza fondo di leggende e di misteri. Sono protetti da una legge statale, ed elencati in un registro ufficiale: il nome dei propri figli va scelto obbligatoriamente in mezzo a quelli. Sigurður, che possiede una barca e commercia pesce, scelse Gylfi per il suo secondogenito. Significa condottiero del mare. I nomi islandesi sono un’investitura della storia. A Gylfi tocca guidare la nazionale di calcio della sua Islanda in acque mai solcate da vascelli vichinghi. La sua forza è la stessa del suo popolo, che sa come vanno le cose di questo mondo e quali sono le leggi della natura. Sa farsi trovare pronto e sa quello che deve fare. Che si tratti di fronteggiare un vulcano o di colpire un pallone con la stessa potenza improvvisa del getto d’acqua bollente di un geyser, fa poca differenza.

Le notti di Reykjavik sanno essere spaventosamente belle. In Islanda nascono molti bambini e il tasso medio di felicità è tra i più elevati del mondo. Merito dei tuffi nell’oceano, dei colori delle aurore boreali, dello squalo putrefatto servito con una Polar Beer. Qualche notte gli islandesi sono ancora più felici del normale. E di solito succede accanto alla grande piscina pubblica con acqua calda, nello stadio Laugardalsvöllur — diecimila posti a sedere — quando il figlio di Sigurd mette a segno uno dei suoi gol.

FearfulWaryFluke

Il tuffo nell’oceano, con l’acqua quasi ghiacciata, non l’ho mai fatto. Uno dei ragazzi islandesi che avevo conosciuto al pub, il più responsabile della compagnia, mi ha detto che lo shock termico avrebbe potuto fare molto molto male a uno con i capelli scuri come i miei.

«Ragazzi, scusatemi se non ho avuto il coraggio di fare una cosa da vero islandese…»

«Amico, sei venuto ai confini del mondo per vedere questa terra che ti intriga perché dici che è pura, viva, magica. Tutto giusto. Ma il vero stupore, stanotte, è stato questo incontro casuale, i racconti e le battute che ci siamo scambiati. Anche il tuo timore. Probabilmente non ci incontreremo più in questa esistenza, ma adesso tutti noi sappiamo qualcosa in più della vita che ci sta intorno, e che ci sta dentro. Questa è una cosa da vero Islandese. Þetta reddast, Leonardo!»

La scorsa primavera ho visto la mia prima partita di Premier League dal vivo. A White Hart Lane c’era Tottenham-Southampton, che significava molto di più per me che per le due squadre coinvolte. Gli Spurs non aspettavano altro che la fine di una stagione anonima come poche e i Saints erano salvi da tempo. Il mio posto era nella South Stand, a un passo dai tifosi ospiti. Hanno cantato tutti, per novantuno minuti: i supporter dei Saints per il doppio vantaggio dopo mezz’ora, con Rodriguez e Lallana; i padroni di casa grazie alla rimonta, con doppietta di Eriksen. Insomma è sempre meglio vincere, ma un 2 a 2 così rocambolesco alla fine fa felici tutti. Al 92° però quelli alla mia sinistra hanno improvvisamente smesso di esultare, mentre quegli altri intorno a me hanno preso ad abbracciarsi forte, come stessero sperimentando in anticipo l’effetto dei fiumi di birra che avrebbero bevuto dopo la partita e per tutto il pomeriggio. Il 22 degli Spurs, appena entrato, aveva segnato il 3–2 all’ultimo minuto, con una botta di destro dal limite dell’area.

Non starò a specificare chi indossasse il numero 22 del Tottenham, quel giorno. Sapete già di chi è figlio.

img_5078

Articolo a cura di Leonardo Piccione

--

--