Ha davvero senso ritirare i numeri di maglia?

Crampi Sportivi
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7 min readMar 21, 2017

Il conclamato approccio nostalgico degli italiani ha una data d’inizio ufficiale: è l’estate del 1995, fine dei numeri “dall’uno all’undici” e punto di partenza della personalizzazione delle casacche stagionali. Dettata principalmente da ragioni commerciali e da un adeguamento allo standard degli sport americani (e della Premier), la scelta ha portato a una pioggia di aneddoti (dal caso di Zamorano “1+8” alla simpatia del “14” Fortin) e ad altrettante discussioni di tipo etico-sportivo, non sempre costruttive. A parte la storica usanza di assegnare la “12” ai tifosi, si è presto arrivati a una questione cruciale: il ritiro, temporaneo o permanente, di maglie consacrate a singoli atleti già esistenti. Rivedibili, o perlomeno oggetto di discussione, restano le varie ragioni in nome delle quali le società hanno optato per questo particolare modo di immortalare la memoria. Per capire pregi e degenerazioni del fenomeno è d’obbligo prendere spunto dall’immancabile bibliografia di settore.

L’Italia occupa il primo posto di questa speciale classifica; al secondo posto, staccato non di molto, si classifica sorprendentemente il calcio messicano. Spiccano, in attesa di Totti, i noti casi di Bergomi, Zanetti, Maldini e Baresi, primatisti assoluti (o relativi) di clamorosi record di militanza, per la categoria delle 500 partite con il club: ritiri, va detto, non postumi. Ovvia la 10 di Maradona, che solo la discesa del Napoli in C ha messo a disposizione del malcapitato Bogliacino: prima di lui, Fausto Pizzi (1995–96), Beto (1996–97), Igor Protti (1997–98) e Claudio Bellucci (1998–00; per tutta la questione ringraziamo lui). Meno scontata è la 10 di Baggio al Brescia: se non fosse stato per quei quattro anni di romanticismo assoluto, in nessuna squadra ci sarebbero mai state le condizioni per ritirare la maglia del Divino. Postumo il ritiro della “3” di Facchetti, come “a posteriori” è stata bandita la “11” di Riva, mentre la stessa sorte non è toccata — per scelta — a Daniele Conti. E se la Signora manca da questo elenco, è solo perché, tra esempi di stile e parvenze di snobismo, l’hanno messa fin da principio sulla sovrabbondanza: fatto salvo il gesto di Del Piero, che ha deciso di lasciare ai posteri (Tevez e Pogba, almeno per ora) il peso di un numero ingombrante quanto prestigioso, ogni reparto avrebbe comportato ballottaggi del tutto anomali. Numerosi gli esempi, per cui bastino questi interrogativi: a) la “1” è più di Zoff o di Buffon?; b) la “10” spetterebbe a Sivori, Platini, Baggio o Del Piero?; c) la “9” a Charles, Boniperti o Vialli? E porteranno anche l’orologio sul polsino, ma hanno ragione: trovare una risposta, al netto della soggettività, non sembra possibile.

Un caso eclatante è quello di Piermario Morosini, la cui divisa è stata appesa alle pareti dei santuari di Livorno e Brescia. Il che ci rimanda al gruppo dei ritiri post mortem (ma anche ob mortem / mortis causa), che sono la tipologia di ritiro più diffusa: Vittorio Mero (Brescia, #13), Mayélé (Chievo, #30), Chicco Pisani (Atalanta, #14), Niccolò Galli (Bologna, #27). Colpisce più di tutti, per motivi che passano dall’epica al folklore, una nutrita schiera di imprevedibili: il Marco Rossi del Genoa (unica altra maglia dei liguri oltre a Signorini), il Roberto Breda di Salerno e la triade Sullo — Galardo — Tavano (Messina, Crotone, Empoli). Ma se il “41” di Sullo non sembra, almeno sulla carta, troppo a rischio, quanto sarebbe stato bello vedere un Saponara con il “10”? E che fare con dichiarazioni al limite della megalomania, come la volontà di Paolo Maldini di mettere a disposizione la “3” solo a uno dei suoi figli? La risposta, forse semplicistica, è negli esempi di Aldair e Protti, che tra Roma e Livorno, ponendosi il problema, hanno pensato di rinunciare all’onorificenza, rendendola meno “assoluta” in prospettiva futura.

All’estero la situazione è variegata. Tra i campionati maggiori, la Premier conta solo otto ritiri ufficiali: spicca Bobby Moore al West Ham, con cui ha giocato per 642 volte dal 1958 al 1974 prima di finire la carriera tra Fulham e USA. Non si può contare tra i ritiri veri e propri, ma siamo in zona, la sorte toccata alla numero “25” di Zola al Chelsea, che è causa del salto dalla “24” Cahill alla “26” di Terry, unico superstite dell’epoca. E, tra i casi a ad interim, compaiono la “10” dell’Exeter in memoria di Adam Stansfield e la “17” di Cellino, sedicente scaramantico. Germania a tre, in nome dei tragici casi di Krejci (2007) e Malanda (2015). Tra le sospensioni temporanee spicca quella di Raul allo Schalke, dove pure ha lasciato un ottimo ricordo: nonostante questo (due anni, 98 p. / 40 g.), è una beffa che a Madrid la sua “7” non possa avere lo stesso trattamento per ben noti motivi. Raul, escluso dalla Spagna appena prima della serie di trionfi continentali, ha passato al Real sedici stagioni (741 p. / 323 g.), con tre Champions all’attivo. Diversa la sospensione della maglio di Podolski, che al Colonia deve e dovrà sempre tutto. In Francia tre ritiri postumi: il Lens ha tolto la “17” di Marc Vivien Foè (al quale è dedicata anche la “23” del Manchester City: Morosini occupa la “25” in entrambi i casi), uomo di punta del grande Camerun; il Sedan l’ha ritirata a Di Tommaso e il Clermont a Pinault, cui è toccato lo stesso onore anche nell’Utrecht (nei francesi la “14”, negli olandesi la “4”). Si aggiungano i recenti Valbuena e Diawara dell’O.M. Spagna a due: solo Jarque dell’Espanyol e Jordi Pitarque del Reu Deportiu, cui si sommano Puerta e il caso speciale di Dubovsky dell’Oviedo. Per un periodo, addirittura la “21” di Luis Enrique è stata vietata ai giocatori del Barcellona. Ancora: Portogallo a due. Olanda a cinque. Tra i campionati minori, cinque ritiri attestati in Austria, quattro in Danimarca, cinque in Svezia. Gli States sono aggressivi e ci hanno preso gusto, già a quota sette. Grecia a quattro.

Non mancano le leggende. Tra gli immortali d’Europa segnaliamo Puskas (#10, Honvéd) e Johan Cruijff (#14, Ajax); in Brasile risponde Romario, che ci ha privati della “11” del Flamengo: molto più condivisibile del ritiro della casacca di Pelè, in fuga per la vittoria in nome dei Cosmos.

Quanto ai nomi più suggestivi, waitin’ for Kazuyoshi Miura, la lista è interminabile. Álex Aguinaga, già leggenda nel suo Ecuador, è anche il dedicatario ufficiale del #7 dei messicani del Necaxa, coi quali ha militato per quattordici anni superando le 500 partite (dato che — dalle fonti — non sembra integrabile con un numero preciso di reti, intorno alle cento). Saltano all’occhio Temuri Ketsbaia, che in dieci anni ha vinto tutto a Cipro con l’Anorthosis, Henrik Larsson, cui da coach dello stesso Helsingborg è andata un po’ male e Karel Poborsky (#8 della Dynamo České Budějovice, con cui ha giocato solo agli esordi e a fine carriera: ora ne è presidente).

Ci è finito anche Cobi Jones (164 gettoni in nazionale, più di 300 con i Galaxy) che ricordiamo anche tra Vasco da Gama e Coventry City e con cui fa il paio il ritiro parziale della divisa di Cuauhtémoc Blanco (América, undici annate in cinque diverse tornate). Avi Nimni è l’eroe del Maccabi, che può annoverare due sfortunate esperienze maggiori tra Atlético Madrid e Derby County. Superflua o quasi — se non perché è una contesa interna a una nazionale — la menzione del numero più prestigioso dell’Argentina, di cui, in ogni caso, Lionel Messi si è dimostrato pienamente degno.

Altre discrete chicche in Italia: Mignani del Siena (in virtù di dieci stagioni) Savoini del Vicenza (1953–1966) e Zucchini del Pescara (1973–1979, con trascorsi in Fiorentina e Lazio). Menzione speciale per Salvador Reyes Monteón (Guadalajara, 1936–2012), eroe del Chivas. Una punta da 122 gol in 282 partite, superato solo di recente da Bueno nelle reti totali con il club, per tre volte è convocato ai Mondiali. Nel 2008, a 71 anni, il Chivas lo “schiera” contro il Club Universidad Nacional, lasciando che batta il calcio d’inizio (presenza segnata negli albi come apparizione ufficiale).

Tutto questo per constatare la mancanza di un punto di vista oggettivo, tantomeno di tipo etico, sull’opportunità del ritiro delle maglie: lungimirante espediente per preservare la memoria o degenerazione di un sistema in vendita? In qualche modo gli americani hanno trovato un buon escamotage: in particolare nella Hall of fame, che consacra ai posteri il contributo di un atleta ma non implica il ritiro di alcuna maglia, che resta discrezionale benché molto probabile. Lo stesso potrebbe dirsi della versione “per club” dello stesso istituto (hall of fame di franchigia), già attivo in altri paesi e che permetterebbe a Del Piero e simili di ricevere il giusto tributo. Certo è che la nostra giovane Hall of fame, nata solo nel 2011, è in via di costruzione e andrà ampiamente rivista; d’altra parte, in ottica generale, non possiamo escludere che nei prossimi decenni molti numeri “storici” possano essere riassegnati o messi fortemente in discussione, con il rischio di assistere a querelle grottesche. A scanso dell’introduzione di nuovi numeri a tre cifre, decimali, periodici e radici quadrate.

Articolo a cura di Alessandro Fabi

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