#HereTheyCome

Paolo Stradaioli
Crampi Sportivi
Published in
8 min readNov 3, 2017

Tra i numerosi motivi per i quali anche quest’anno l’NBA merita le occhiaie quotidiane, i pisolini al lavoro o all’università, i beveroni di caffè la mattina, c’è una franchigia che non ha mai smesso di credere in quello che faceva. Ho detto una franchigia? In realtà il termine è riduttivo, perché la maggior parte dei tifosi dei Philadelphia 76ers sono stati costretti ad assistere al più brutale meccanismo di concorrenza che il sistema americano mette a disposizione delle squadre professionistiche.

Se ci si piazza nelle ultime posizioni, in Nba si viene ricompensati e il mantra nella città dell’amore fraterno è stato lo stesso che animava il presidente della Longobarda ne “L’allenatore nel Pallone”: perdere e perderemo.

E infatti han perso. Per tre anni coach Brett Brown ha convissuto con una situazione surreale per la quale più migliorava la squadra, più gli veniva fatta a pezzi sull’altare del tanking. Nonostante la somiglianza tra il sistema adottato dai commissioner americani e la parabola dei lavoratori della vigna (gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi), anche la lega a un certo punto ha detto basta, allontanando il pazzo che si celava dietro le mosse dei Sixers. Il pazzo, che di nome fa Sam e di cognome Hinkie, era sospinto da due dictat: scegliere sempre il giocatore migliore indipendentemente dal ruolo, e sul secondo ci torniamo tra un attimo.

Un po’ di tempo fa è uscito su The Ringer il racconto di un elettricista bramoso di lasciare la sua impronta sul nuovo corso della squadra. Il protagonista della storia si è ritrovato diversi giorni a lavorare da solo nella nuova facility dei Sixers e ha ritenuto opportuno consegnare ai posteri dei legati nascosti all’interno della struttura. Praticamente ha scritto delle cose dove nessuno le può vedere. Piccole epigrafi, tutte adiacenti al messaggio che tiene in piedi la fanbase attualmente più chiacchierata d’America. D’altronde era solo questione di tempo, poiché il secondo principio che guidava Sam Hinkie si attorcigliava attorno a un’idea che sembra aver finalmente trovato il suo compimento.

Because you must always, ALWAYS, Trust The Process.

Freak in the building

Ebbene Sam Hinkie e Bryan Colangelo hanno creato una squadra in cui soltanto tre giocatori hanno più di quattro anni di esperienza nella lega. Un concentrato di frizzante euforia da primo giorno di scuola al quale coach Brett Brown dovrà dare un senso, questa volta per davvero. A guidare questa marmaglia di adepti c’è l’uomo che ha trasformato uno slogan di un solo uomo in un fattore identitario di una squadra, se non di una città.

Joel Embiid ha le chiavi tecniche ed emotive dello spogliatoio e gran parte del successo di questa squadra passerà dal suo stato psicofisico.

Dare un contratto di quel tipo a un giocatore che ha disputato appena 31 partite da professionista è sicuramente una mossa azzardata, ma di fronte abbiamo un prodigio cestistico che non si è mai visto prima. Sette anni fa non aveva mai preso in mano un pallone da basket, adesso proiettare i suoi numeri su 36 minuti di utilizzo restituiscono l’immagine di un All-Star fatto e finito. Lo scorso anno ha chiuso con 2,5 stoppate a partita, meno del solo Rudy Gobert, il suo DefRtg è stato il migliore della squadra e con lui in campo i Sixers subiscono 7 punti in meno ogni cento possessi.

Visto che parliamo di un 2,13m con sensazionali istinti difensivi sono statistiche pazzesche ma pur sempre comprensibili. Dall’altra parte del campo invece entriamo nell’irreale. Gli unici due centri a far meglio di lui da oltre l’arco sono Marc Gasol e Speights, gli unici due a procurarsi più viaggi in lunetta per partita sono Cousins e Davis. La sua efficienza in post è paragonabile a quella dei vari Towns, Gasol, Jokic, Cousins, Brook Lopez.

Quindi riassumendo… è già adesso un top 3 a livello difensivo e un top 10 a livello offensivo (nel suo ruolo). I soldi che Embiid andrà a guadagnare da quel contratto sono la risultante di quanto il Front Office dei Sixers sia stordito da un giocatore simile. Se lo staff medico e qualcuno dall’alto riescono a tenerlo sano, Phila non dovrà più preoccuparsi di trovare un franchise player per i prossimi 10 anni.

A livello di personalità poi neanche si inizia

Attorno al totem camerunense, bazzicano gli altri due freak della squadra. Uno è Markelle Fultz, l’altro è Ben Simmons. Per motivi non così diversi sono due giocatori lontani dall’essere NBA ready, eppure l’hype che li circonda deve pur derivare da qualcosa di tangibile. Per Fultz è un atletismo spropositato unito ad una rapidità di pensiero degna del piano di sopra; per Simmons è invece il paragone che in tanti fanno con il primissimo LeBron James. E per generare hype basta molto meno… per esempio registrare dei numeri a là LeBron James.

In realtà la struttura fisica di Simmons è molto più sviluppata del ragazzino uscito da Saint Mary high school. È alto 2,08m e pesa 104 chili: teoricamente di ruolo farebbe il playmaker. Condizionale d’obbligo, un po’ per la pallacanestro positionless che si sta sviluppando oltreoceano e non solo, un po’ perché questo in difesa può cambiare su tutti e in attacco quando non conduce spesso gioca in post poiché lontano dalla palla emergono tutte le sue lacune. Per ora non ha praticamente mai tirato da tre e il suo jumper è ancora troppo grezzo per essere una minaccia costante, ma lasciargli spazio rischia di non essere l’idea migliore.

Se costruisce un tiro credibile è un papabile MVP del futuro

Anche per Fultz i problemi che richiedono un immediato intervento riguardano l’efficacia al tiro. A Washington University la sua percentuale ai liberi rasentava il 65%, dettaglio sul quale ha lavorato parecchio d’estate e ne ha ben donde. Il ragazzo infatti promette di andarci spesso in lunetta poiché arriva al ferro con una facilità disarmante e anche contro avversari più grossi è bravissimo nell’usare il corpo per assorbire il contatto e buttare il pallone per aria. Ancora più intrigante è quello che può diventare in difesa, dove il suo atletismo gli permette già ora di essere uno spauracchio per le point guard avversarie.

I dubbi maggior emergono da una tenuta fisica non classificabile per il momento; il ragazzo, a detta del suo agente, sta giocando con un braccio solo praticamente, eppure la storia sembra inverosimile per numerosi motivi il più papabile dei quali è la celebre cautela che i Sixers operano verso i loro prospetti. La nostra speranza è che possa essere al 100% il prima possibile, pronto a disseminare perle di atletismo in giro per gli USA.

The Others

Non dimentichiamo che Brett Brown è cresciuto cestisticamente a Spursello, quindi il suo concetto di pallacanestro mutua dal read and react, che ha reso la franchigia texana un esempio impossibile da replicare, ma non da studiare e applicare diversamente. Per giocare quel tipo di pallacanestro serve un roster competitivo e in grado di leggere il gioco, sparare triple, giocare pick and roll e possibilmente creare da situazioni di post alto e ricezione al gomito.

L’arrivo di J.J. Redick ovvia a diversi problemi, partendo dalla pericolosità perimetrale della squadra che lo scorso anno tendeva all’imbarazzante (soltanto cinque squadre tiravano peggio da 3) e arrivando ad un contributo che anche fuori dal campo peserà parecchio. Lo stesso Redick si sente molto responsabilizzato dal contratto e il suo obiettivo è quello di diventare il leader emotivo della squadra.

Poi ci sono gli altri due veterani, che sono Bayless e Amir Johnson. Il centro ex Boston dovrà garantire rimbalzi e difesa del ferro oltre a dei blocchi di una certa qualità (forse un bloccante d’élite è la cosa che manca di più), mentre per Bayless si preannuncia una stagione ad alto minutaggio, specialmente se continuerà a tirare così bene da tre.

Classe, esperienza, poesia.

Il resto del supporting cast non è da buttare, specialmente se consideriamo che Covington (la terza opzione offensiva dei Sixers) è uno dei migliori cecchini dal perimetro tra le squadre di mercato minore e soprattutto è potenzialmente un 3&D alla Jae Crowder con quel tipo di wingspan, ma con maggiore atletismo e mani più dolci.

E poi? Poi bisogna capire se e come coach Brown deciderà di gestire Okafor.

Tra i problemi in campo e quelli fuori non è detto che Philly deciderà di puntarci forte, ma d’altro canto a livello offensivo il prodotto di Duke ha mostrato lampi notevoli. Per quanto non sarà facile accantonarlo tra i giocattoli rotti come un Michael Carter Williams qualsiasi, l’idea è che non possa diventare un giocatore funzionale al progetto nel lungo periodo (ho provato a chiedere un parere a un tifoso Sixers e mi ha risposto che spera in una sua cessione in cambio di una scatola di biscotti).

Nel frattempo crescono le quotazioni di un altro lungo che ogni giorno che passa trova più cittadinanza in un contesto NBA. Dario Saric è entrato nella lega in sordina, ma non sembra volerne uscire. Il croato è un’arma imprescindibile per spaziare il campo, ma sa anche mettere palla per terra e comincia ad assorbire in maniera soddisfacente i contatti. La qualità che però Brett Brown apprezza di più è la sua comprensione del gioco, avanzatissima per un 23enne alla sua seconda stagione negli States. Lo scorso anno è finito secondo nella corsa al ROY e lo scenario migliore è che diventi un Boris Diaw più atletico (molto più atletico) in grado di agire da playmaking 5 nei quintetti più piccoli e da facilitatore quando c’è Embiid in campo.

Trust The Process

Cos’è il genio? Tralasciando definizioni da vocabolario e citazioni di film cult anni ’70, il genio segue chiavi di lettura strettamente soggettive. Nel parere di chi scrive, il genio è colui che ha un’idea e capisce prima di tutti che quella visione delle cose è la più giusta possibile ed è disposto a portarla avanti indipendentemente da fallimenti, contestazioni o delusioni di ogni tipo.

Se ammettiamo questa definizione, Sam Hinkie è un genio a tutti gli effetti.

La storia non lo ricorderà come tale eppure, le statistiche avanzate esistevano prima di lui, il meccanismo della lottery pure e il tanking figuriamoci. In un momento storico in cui l’NBA è popolata da squadre troppo più forti del resto del gruppo, quest’uomo ha estremizzato la filosofia sportiva americana al fine di costruire una squadra da titolo in una città che in tempi moderni è abituata a esercitare il ruolo di sparring partner e come suo simbolo sportivo ha un potenziale criminale di 1,80m che per sua e nostra fortuna ha preferito la palla da basket.

Livello nostalgia: Sum 41

Sinceramente non è facile ipotizzare un titolo a Philadelphia, riducendosi a un orizzonte temporale limitato. A Est ci sono un paio di squadre che sono più avanti nel processo di maturazione, Giannis promette di dominare la Conference per il prossimo decennio, Boston prima o poi dovrà riscuotere… e il bello di tutti questi discorsi è che sono vani finché LeBron non accennerà a calare (o si trasferirà a Ovest).

Un passo alla volta è l’imperativo nella stanza dei bottoni in Pennsylvania, il tempo decisamente non manca così come il talento.

Già arrivare ai play-off quest’anno sarebbe un bel traguardo e darebbe un primo assaggio a questo gruppo di sbarbatelli di quella che è l’NBA da metà aprile in poi. Forse ce la faranno, se ce la faranno non andranno oltre il primo turno, l’anno prossimo sarà un nuovo capitolo, ma casomai le stelle si allineassero e questi riuscissero ad andarci alle Finals un pensierino al loro ex General Manager sarebbe d’obbligo e anche al simpatico elettricista che ha elegantemente profanato il Quartier Generale della squadra. Lui non ha mai smesso di crederci. And you?

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