I 100 anni in cui il Giappone conquisterà il calcio

Crampi Sportivi
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6 min readJan 22, 2014

Holly & Benji sembra così lontano nel tempo: l’arrivo di Keisuke Honda al Milan, una delle società più blasonate al mondo, è il segno della crescita del calcio nipponico. Ecco a voi un piccolo riassunto di quanto accaduto e un endorsement per il futuro

Un baku, una famosa creatura della mitologia giapponese, deve aver vegliato sui suoi sogni: alla fine, il desiderio di Keisuke Honda è diventato realtà. Nella sera di domenica 12 gennaio, il calcio giapponese ha compiuto un altro passo verso il suo destino. L’entrata in campo del fantasista durante Sassuolo-Milan, con la maglia numero 10 dei rossoneri, è stata già di per sé un atto significativo, se non un vero e proprio sogno per la crescita del movimento pallonaro nipponico. Se poi il suo mancino non avesse centrato il palo e avesse portato il Milan miracolosamente al pareggio, allora l’ex CSKA Mosca sarebbe stato subito elevato al grado di salvatore. I giapponesi continuano a proliferare in Europa. E con il Mondiale alle porte, non può essere che una buona notizia.

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Honda più swag che mai alla prima a San Siro in abiti “civili”.

Del resto, la storia parte da un ventennio fa. No, non dall’arrivo di Kazu Miura (che ancora oggi gioca in seconda divisione giapponese) e dalla sua ingloriosa avventura con la maglia del Genoa. Un’avventura che tocco l’apice con un gol nel derby contro la Samp. Parte da un piano: gente precisa, quella giapponese. Tignosa, pignola, ligia al dovere e fedele al proprio destino: come quando, dopo lo tsunami del marzo 2011, la comunità si riunì per rimettere a posto quanto portato via da quel funesto evento naturale. Fece scalpore la riparazione di un tratto dell’autostrada che collega Tokyo con la prefettura di Ibaraki in appena sei giorni (!). Del resto, il Giappone è pieno di storie incredibili. E’ il paese in cui esistono oggi club professionistici fondati online (il Fujieda MYFC) o formati da un gruppo di insegnanti (non è uno scherzo: guardate la storia del Renofa Yamaguchi). Tutto parte da un documento, immaginato da un gruppo di visionari: tra questi, c’era anche Saburō Kawabuchi, primo presidente della J-League e poi anche della federazione calcistica nipponica. Il Giappone scontava un notevole ritardo rispetto al resto del mondo in terreno calcistico: non esisteva neanche una lega professionistica. Nonostante le platee degli anni ’60 e ’70, il pubblico si stava spostando su altri sport. Il campionato (la Japan Soccer League, nata nel 1965) prevedeva la partecipazione di compagnie aziendali, come la Mitsubishi, la Yanmar, la Mazda o persino la Honda, ma nulla che prevedesse l’associazionismo calcistico.

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Saburō Kawabuchi, creatore e primo presidente della J-League.

Con il “One-Hundred Year Plan”, tutto cambiò. Nel documento, Kawabuchi e soci si proposero di far crescere il movimento giapponese. Non è un caso che i nipponici guardino sempre al lontano futuro: si spiega così la creazione di un piano secolare per la prosperazione del calcio in Sol Levante. L’obiettivo era creare un centinaio di club professionistici per il 2093, un secolo dopo l’inaugurazione della J-League. Vent’anni dopo, si può già guardare al futuro con fiducia, visto che ci sono quasi 50 club “pro” e la nascita della J3 (la terza divisione professionistica) è prevista per quest’anno. In questo universo, sono cresciuti molti giocatori, alcuni dei quali sono arrivati in Europa. Il primo fu Yasuhiko Okudera a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, quando vinse una Bundesliga e una DFB-Pokal in Germania. Da lì, sono passati un po’ di anni e si sono visti esperimenti di tutti i tipi: i vincenti Nakamura, Nakata, Ono, Kagawa e Honda, di cui si sa molto, se non tutto. E i fallimenti: Yoshikatsu Kawaguchi non riuscì a fare una grossa impressione nel campionato danese con la maglia del Nordsjælland, dopo aver già lasciato rimpianti in due anni con il Portsmouth. E stiamo parlando di qualcuno che ha fatto la storia del Giappone: 116 presenze in nazionale in tredici anni con la Nippon Daihyō. Hiroshi Nanami, uno degli uomini di maggior qualità nella storia del calcio giapponese, non riuscì a sfondare con la maglia del Venezia nel 1999–2000: i lagunari finirono in B, lui tornò allo Júbilo Iwata, la squadra della sua vita. Per citare qualche caso recente, vengono in mente gli italiani Takayuki Morimoto e Mitsuo Ogasawara. Il primo, arrivato a Catania nel 2006 quando era poco più che maggiorenne, è rimasto sette anni in Italia: non gli sono bastati per convincere, sebbene qualche lampo si sia visto tra la Sicilia e Novara. Il più giovane marcatore nella storia della J-League lasciò il Bel Paese dopo i 24 gol segnati in 127 presenze tra campionato e coppa, tornando allo JEF United Chiba. La storia di Ogasawara, invece, è più curiosa: quando si citano i giapponesi che hanno giocato in Italia, nessuno se lo ricorda mai. Anche a Messina, dove ha giocato per una stagione; in patria, invece, continua a deliziare con la maglia dei Kashima Antlers.

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Mitsuo Ogasawara, leggenda nei Kashima Antlers, ma meteora in Sicilia: otto presenze e un gol nel 2006–2007.

In tutto ciò, l’esperienza ha comunque fatto bene. Unita alla nascita della nuova lega professionista, ciò ha contribuito enormemente al miglioramento della nazionale giapponese: si è passati dal non arrivare neanche alle fasi finali della Coppa d’Asia al vincerla regolarmente, dalla “tragedia di Doha” agli ottavi di finale del Mondiale sudafricano. Il massimo risultato ottenuto dalla Nippon Daihyō fino al 1993 era il bronzo alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968. Ora, con una squadra cresciuta e tecnicamente più forte, i nipponici sono arrivati per cinque volte consecutive alla fase finale del Mondiale: la prima fu nel 1998, la prossima sarà nel giugno 2014. Anzi, è possibile che i “Zac boys” possano essere la mina vagante al Mondiale brasiliano, quella che tutti vorranno evitare. Per di più, i legami con l’Italia — arrivo di Honda a parte — si sprecano: sappiamo l’impatto di Holly & Benji sull’immaginario italiano del pallone; diversi calciatori nipponici si sono avvicinati all’Italia; infine, alcuni nomi delle squadre giapponesi rimandano a lemmi italici. Basti pensare agli esempi più importanti: il Gamba Osaka (“gamba” associa al calcio l’espressione “ganbaru” = “coraggio!”), il Fagiano Okayama (l’italiano “fagiano” indica l’animale di compagnia della leggenda locale, Momotarō), il Giravanz Kitakyushu (coniate due parole italiane: “girasole”, tipico fiore della zona, e “avanzare”), per arrivare fino al Gainare Tottori (“gaina”, parola del dialetto della prefettura di Tottori, diventa “grande” in italiano, coniugato allo “sperare”) e al Kamatamare Sanuki (il “kamatama” è un famoso tipo di udon, unito al “mare”, visto che Tankamatsu, città del club, si trova sulla costa), nonché ai Sanfrecce Hiroshima (attualmente campioni in carica della J-League).

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Takeshi Okada, l’uomo che ha portato il Giappone per la prima volta ai Mondiali e che gli ha permesso di raggiungere il miglior risultato della sua storia in Coppa del Mondo.

Insomma, Italia e Giappone sono unite in questo percorso. E chissà che non si debbano incrociare al prossimo Mondiale, visto che agli ottavi di finale l’accoppiamento è possibile. Dopo quella serata nella Confederations Cup, con il 4–3 degli azzurri ai nipponici, magari c’è anche voglia di rivalsa. Persino di Alberto Zaccheroni, attuale C.T. della Nippon Daihyō. Intanto, lui ha consigliato al Milan di prendere Honda. Proprio lui che ora, dopo il debutto da titolare in Coppa Italia e quello contro l’Hellas in campionato, si prepara a conquistare l’Italia, già sognata a 12 anni, come aveva scritto in un saggio profetico, dal titolo Il mio sogno per il futuro (fonte goal.com):

Quando sarò grande, voglio diventare il calciatore più forte al mondo. No, io diventerò il migliore. Per essere il migliore al mondo, devi mettercela tutta, più di chiunque altro. E io sto già lavorando per questo. […] Diventerò famoso perché giocherò la Coppa del Mondo e verrò ingaggiato da una squadra di Serie A. Diventerò un titolare e giocherò con il numero 10. […] Poi giocherò nel torneo che tutti nel mondo ogni quattro anni guardano con attenzione: il Mondiale. […] Voglio battere per 2–1 il Brasile nella finale del Mondiale. Il mio sogno è di giocare questa partita con mio fratello (Hiroyuki Honda, la cui carriera da “pro” è stata bloccata da infortunio nel 2005, ndr), superare la squadra più forte del mondo, fare delle belle azioni con lui e segnare un gol”.

A 27 anni, il sogno è realizzato. E il piccolo Keisuke è diventato il talentuoso Honda.

Gabriele Anello Presunto giornalista. La Roma ha Gervinho, l’Inter ha Jonathan, a noi ci è toccato lui @nellosplendor

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