I cinquanta samurai

Crampi Sportivi
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32 min readDec 2, 2016

Copertina di Fabio Imperiale

Arrivammo pronti quella volta, prontissimi. Avevamo avuto il tempo di prepararci dalla volta in cui salvammo la Grecia, e gli invasori di Proxima Centauri ci dissero che avrebbero raso al suolo un posto piccolo, con arcipelaghi e sul mare, fondamentale per la nostra formazione culturale. Da subito avevamo temuto si trattasse del Giappone. Perciò quando tornarono gli alieni, freschi freschi, convinti di coglierci in castagna, li accogliemmo con un risolino beffardo. Tocca al Giappone, li anticipammo.

Come avete fatto? Avete sviluppato poteri telepatici?

No, siamo cresciuti a pane e Holly e Benji.

***

Episodio 6 — I giapponesi

Yuki ABE (阿部 勇樹)

Capitano prima dei capitani, al Leicester prima che i leicesterismi volassero come farfalle nell’aria, centrocampista con il vizio del gol prima che i suoi conterranei lo sapessero fare da mediani. Yuki Abe è un anticipatore, una delle gemme silenziose prodotte dall’evoluzione del calcio giapponese. Prima a Chiba, poi a Saitama si è fatto amare. Al Leicester era pure titolare, ma la mancanza di casa l’ha rispinto agli Urawa Reds. Oggi a 35 anni si sta togliendo in patria quelle soddisfazioni che forse gli sono mancate per un po’ di tempo.

Yutaka AKITA (秋田豊)

Nella saga di Holly e Benji c’era questo difensore centrale mascellone, piazzato, forte fisicamente, che si chiamava Hiroshi Jito, in Occidente noto come Clifford Yuma, che si metteva tra la porta e l’attaccante e sportellava finché non la spuntava lui. L’unica differenza tra lui e Yutaka Akita è che il primo era alto due metri e invece il secondo, essendo la sua altezza più realistica, non superava il metro e 80. Però su quelle spalle larghe Akita si è sobbarcato due Mondiali, di cui il primo al fianco di una leggenda come Ihara e il secondo in casa. Armadio sempre utile.

Alessandro Santos, detto ALEX (三都主 アレサンドロ)

Si può esser nati in Brasile e comunque esser simboli del Giappone? Si può, se hai trascorso la maggior parte della tua carriera nella terra del Sol Levante e hai pure un bilancio da 82 presenze e sette reti con la Nippon Daihyo. A 16 anni si è trasferito in Giappone sfruttando il calcio: dal ’97 è entrato nel professionismo per non uscirne fino al 2014, venendo anche nominato MVP della J. League nel ’99. Non è stato il primo brasiliano naturalizzato a giocare per il Giappone, ma all’età di 36 anni è sempre in campo: Alex è tornato a casa, a Maringá, dove si diverte ancora.

Yasuhito ENDO (遠藤 保仁)

L’ikigai è il concetto giapponese che possiamo tradurre come “la ragion d’essere di una persona”, il motivo per cui alzarsi dal letto la mattina in sostanza. Per i giapponesi trovare e coltivare il proprio ikigai è quello che rende la tua vita soddisfacente e può essere trovato solo conoscendo se stessi. Il motivo per cui Yasuhito Endo, in un periodo di vera e propria diaspora del talento giapponese verso l’Europa ha preferito rimanere in patria credo sia da attribuire al fatto che, dopo un giro in epoca giovanile che l’ha visto lasciare il sud del Giappone per andare a giocare prima a Yokohama e poi a Kyoto, ad Osaka, giocando per il Gamba Endo ha trovato il suo ikigai. Da regista del Gamba Osaka è riuscito a guidare la squadra prima alla gloria di essere la squadra più forte d’Asia e poi ad uscire subito dal periodo più buio dimenticando la vergogna di retrocedere per la prima volta nella storia riuscendo a vincere il campionato nell’anno del ritorno. Tante volte avrebbe potuto lasciare il Giappone e tante volte ha detto no, rimanendo nel Kansai a ripetere allo sfinimento i suoi gesti fino a poterli eseguire bendato. Passaggi sempre più affidabili, tiro in porta sempre più preciso. Forse è proprio questa sua scelta di seguire il suo ikigai che ha portato Endo a rappresentare l’incarnazione più pura del movimento calcistico giapponese: fedele a se stesso fino alla fine, che vive sulla precisione nei gesti in campo. Grazie alla sua scelta Endo è diventato non solo l’icona del Gamba Osaka, ma ha fatto da architrave allo sviluppo della J. League, accompagnando la crescita generale del livello adattando il suo. Ma soprattuto ha un motivo per alzarsi dal letto col sorriso la mattina.

Hiromi HARA (原 博実)

Uno dei più importanti residuati calcistici dell’era pre-professionismo, Hiromi Hara era un pungente attaccante che ha poi avuto un ruolo importante in Federazione e il compito di gestire il percorso di crescita della nazionale giapponese. La sua carriera è stata dedicata per intero a due maglie: quella della Mitsubishi Motors (poi diventata Urawa Red Diamonds) e quella del Giappone, con la quale ha realizzato 37 gol in 75 partite.

Makoto HASEBE (長谷部誠)

Nel Wolsburg campione di Germania di Grafite, Zaccardo e Barzagli c’era anche un giapponese molto grintoso e che non si faceva mettere i piedi in testa assolutamente da nessuno perché lui rappresentava la nazione delle 100mila isole. Quello era Hasebe e lo è tutt’oggi. Centrocampista sopraffino, uomo da ammirare, capitano integerrimo.

Keisuke HONDA (本田 圭佑)

Molti ancora lo vedono come un progetto di marketing e poco altro. Di sicuro, dal punto di vista tecnico gli manca qualcosa per esser accostato ai grandi Nakamura, Nakata e Ono per intenderci, tuttavia la personalità di Keisuke Honda è qualcosa che non può passare inosservata neanche a chi scende da un altro pianeta, e quindi non va sottovalutata. Non si può spiegare altrimenti la decisione di lasciare la confortevole Nagoya per andare a giocare in seconda divisione olandese, poi al freddo di Mosca e infine prendersi la 10 in uno dei club col rapporto inversamente proporzionale tra pressione e risultati negli ultimi anni. Per resistere a tutto questo e comunque entrare nella storia della Nazionale giapponese, bisogna esser Keisuke Honda. Il che, relativismi alla mano, non può essere considerato poco.

Masami IHARA (井原 正巳)

Quando la J. League diventa un campionato professionistico a tutti gli effetti, il Giappone avrebbe bisogno di un volto nipponico, magari esuberante e appariscente come quello di Miura, a garantire l’efficacia dell’operazione. Quel volto viene invece incarnato da Masami Ihara, difensore dei difensori in Giappone, che a 25 anni aveva le stesse rughe di adesso (che ne ha quasi cinquanta). Il suo viso scavato è figlio dell’esperienza, quella che gli ha consentito di diventare Mister Marinos a Yokohama, di vincere il premio di giocatore asiatico nel ’95 e guidare la Nazionale da capitano al suo primo Mondiale. Oggi allena, perché la leadership non è qualcosa che perdi per strada.

Jun’ichi INAMOTO (稲本 潤)

No è che un giapponese biondo mi ha rapito il cuore, ossigenato poi, visibile a tutti perché in mezzo al campo la telecamera ti impalla sempre. Jun’ichi Inamoto apparve nelle televisioni di tutto il mondo prendendo tutto lo spazio dell’inquadratura con A-primi piani) la testa di proporzioni non regolamentari; B-campo largo) la struttura di centrocampista a cubetto come un modello Lego advance, personalizzato per il Giappone ai Mondiali 2002. Pur dotato di tecnica in campo se ne vide più che altro concretezza e fisicità, insieme a un gran senso dell’inserimento, qualità che convinsero l’Arsenal di Wenger a investire sul nipponico canarino per la stagione appena successiva. E poi l’infortunio, e poi si recupera sempre male, e allora zero presenze e un declino fatto di Fuhlam, Galatasaray, Eintracht Francoforte, Rennes, prima del ritorno in patria e la scoperta netta che mezza Europa, girato in lungo e in largo, non fa un Giappone.

Teruyoshi ITO (伊東 輝悦)

Nella Hall of Fame del calcio nipponico bisognerebbe fargli spazio solo per il profilo da motorino infaticabile che si è costruito. Per anni bandiera e centrocampista dello Shimizu S-Pulse, a 36 anni sembrava incamminato verso il ritiro. Invece altri due anni a Kofu, poi tre in J3 tra Nagano e Akita. In Nazionale non è stato coinvolto più di tanto, ma ha segnato uno storico gol ad Atlanta ’96 per la vittoria contro il Brasile di Ronaldo, guadagnandosi l’highlight che vale una cerriera. A 42 anni non è dato sapere se abbia voglia di ritirarsi, ma così a occhio diciamo di no.

Shinji KAGAWA (香川 真司)

Io mi dichiaro, io di Kagawa sono follemente innamorato. E non importa se a Manchester, sponda Red, non si è imposto, Shinji resta ancora quel calciatore che, ogni estate, sogno venga annunciato dalla mia squadra del cuore. È bello vederlo svincolarsi da marcature impossibili e, sempre calmo, appoggiare con il destro vellutato al compagno più veloce (che in genere è quel tarantolato di Aubameyang). Lo United non lo ha capito e lui è tornato a casa sua, a Dortmund, dove il muro giallo si esalta e lo esalta. Perchè Kagawa è forte, c’è poco da fare, e non sfondare in Premier non certifica la poca validità di un calciatore. Allora io lo aspetto ancora, ogni estate, perchè l’amore sa aspettare.

Yoshikatsu KAWAGUCHI (川口 能活)

Paro rigori.
Fuoco cammina con me
gol non subirò

I ragazzi nati negli anni Ottanta e cresciuti con il mito di Holly e Benji sentirono come un brivido quando videro il Giappone riuscire a qualificarsi per un Mondiale di calcio. Per giunta in Francia, esattamente dove avevano visto trionfare dei giovanotti usciti da un manga con nomi e cognomi anglofoni. Accostare Nakata o Nakayama a Oliver Hutton e Mark Lenders fu pressoché inevitabile. E allora fantasticavano: “Chi è Benji?”. Già, chi c’era in porta? Nella versione in carne e ossa sfoggiava maglia e pantaloncini con enormi fiamme disegnate, aveva il numero 20 sulla schiena — beh, nemmeno Benji Price indossava l’1 ai Mondiali giovanili… — e si chiamava Yoshikatsu Kawaguchi. Che non era un fuoriclasse come il portiere dei cartoni animati, ma aveva la nomea di para-rigori e non se la cavò maluccio: concesse un solo gol ad Argentina e Croazia, trafitto da due signori centravanti come Batistuta e Suker. Emigrato senza troppe fortune in Inghilterra e Danimarca, in patria è stato un idolo per i tifosi di Yokohama Marinos e Jubilo Iwata prima di finire in terza serie.

Eiji KAWASHIMA (川島永嗣)

Parla inglese, francese, italiano, portoghese, se la cava con lo spagnolo e l’olandese, oltre ovviamente alla lingua madre, il giapponese. Sette lingue non sono poche per uno studioso, figuratevi per un calciatore. Kawashima oltre ad essere un portiere di tutto rispetto è un diplomatico mancato. Come quando ha bloccato un match per gli insulti razzisti che piovevano dagli spalti, come quando è ospite nei salottini sportivi in giro per l’Europa, tanto lui parla le lingue come una Torre di Babele umana.

Hiroshi KIYOTAKE (清武 弘嗣)

Forse il caso maggior di under-hyping mai visto in Giappone. Giocatore elegante e fulmineo, dai fondamentali tecnici notevoli, ma sempre messo da parte perché non accende le folle come Honda o Kagawa. Non ha il pedigree internazionale di Okazaki. E dalla J. League se n’è andato prima che fosse devastante. Hiroshi Kiyotake è da sempre una certezza, ma sarebbe bello se venisse trattato da punto esclamativo. A Siviglia, forse, ci sarà l’occasione giusta. Altrimenti c’è Proxima Centauri.

Yasuyuki KONNO (今野 泰幸)

Dimostrazione fisica di come il detto “se si nasce tondi, non si può morire quadrati” sia un’assoluta falsità. Ha iniziato la carriera da terzino, poi l’hanno spostato al centro e oggi al Gamba è un discreto mediano. In nessuno di questi tre ruoli è riuscito a eccellere, ma nel frattempo ha giocato quasi 90 gare in nazionale e si è girato il Giappone da Nord a Sud (Sapporo à Tokyo à Osaka). Un fido gregario da portare sempre con sé.

Kunishige KAMAMOTO (釜本邦茂)

L’appellativo leggenda non basta. Quando Kunishige Kamamoto deliziava il mondo e il Giappone con i suoi gol, la terra del Sol Levante era ben lontana da una parvenza di professionismo. Classe ’44, ha giocato per tutta la vita con la Yanmar Diesel (antenata del Cerezo Osaka) e ha soprattutto segnato 80 gol in 84 partite con la nazionale (media-gol impressionante). Le sue reti sono state fondamentali per portare il Giappone alla medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968. Dopo il calcio, c’è stato spazio per un tradimento (Kamamoto ha allenato il Gamba Osaka) e ha persino avuto un seggio alla Camera dei consiglieri (la camera alta della Dieta nipponica).

Kazushi KIMURA (木村 和司)

C’è stato un solo, vero Oliver “Holly” Hutton (al secolo Capitan Tsubasa Oozora) in carne ed ossa, e si chiamava Kazushi Kimura. Lo diciamo con una certa sicurezza perché negli anni ’80 in cui la serie veniva pubblicata prima sulla carta e poi animata in televisione, in Giappone c’era un solo funambolo numero 10, cetrocampista offensivo dalla tecnica sopraffina, dalla stoica concezione del lavoro di squadra e dal tiro implacabile (a dire il vero assai meno potente di quello di Holly, ma altrettanto preciso). L’unico motivo per cui in pochi oggi ne sappiamo qualcosa è che allora l calcio in Giappone non aveva ancora fatto il decisivo salto verso il professionismo, per cui Kimura se lo sono goduto soltanto alla Nissan Motors (che poi è diventata Yokohama Marinos). In Nazionale però — in quella che, è giusto ricordare, era assai meno forte dei quelle che abbiamo visto nei decenni successivi — il Mago Kazushi segnò ben 26 reti in 54 presenze. E senza mai lagnarsi di voler mollare tutto per andare in Brasile.

Masakiyo MAEZONO (前園 真聖)

Che peccato, Masakiyo, premio nipponico per il miglior talento più facilmente sprecato. La sua carriera in Nazionale e nei club ha detto meno di quanto le sue doti tecniche lasciassero intravedere all’inizio degli anni ’90. Uno dei primi a finire sulla cover di un famoso videogioco nipponico, Maezono è stato tra quelli che ha tentato il viaggio transoceanico. Ma non per l’Europa, bensì per il Brasile: cinque presenze e un gol al Santos, comparsata senza lampi al Goiás. Ha chiuso la carriera in Corea del Sud prima di darsi al beach soccer, ma le sue doti da dribblatore folle non verranno dimenticate.

Tomoaki MAKINO (槙野 智章)

Il difensore non è proprio un ruolo dove trovi esponenti eccelsi, o anche solo dalla qualità media, in Giappone. E allora può capitare qualche bug, specie se accompagnato da quel misto di follia e talento dove uno si sovrappone all’altro senza farti capire dove sia il confine esatto. Tomoaki Makino è pazzo, è qui e anche lorsignori da Proxima Centauri scommetto che non hanno ancora mai visto niente del genere. A maggior ragione, e lo diciamo a malincuore, prendetelo, portatelo con voi.

Naoki MATSUDA (松田 直樹)

La distanza tra la realtà e l’immaginario prevalentemente edificante che la letteratura illustrata giapponese ci ha regalato sta tutta nella disparità di epilogo che il destino ha concesso a Naoki Matsuda e Jun Misugi, noto in occidente come Julian Ross. Quest’ultimo, giocatore talentuosissimo che a causa di problemi cardiaci accorcia la sua carriera e scala in difesa a impostare la manovra, ha tutto sommato avuto la sua chance di proseguire la sua corsa. Ma quella, appunto, è accaduto nella finzione. Al grande Naoki Matsuda, invece, per quindici anni punto fermo degli Yokohama Marinos e poi della Nazionale, capelli lunghi e numero 3 sulle spalle come un Maldini d’Oriente, il cuore si è fermato in campo nel 2011. E, come spesso accade, ha continuato a pulsare nel cuore di chi l’ha amato, un Paese intero.

Daisuke MATSUI (松井 大輔)

A Daisuke Marsui vidi fare un gol di tacco al volo contro il Monaco quando gioava nel Le Mans, e me ne innamorai. Zazzera rosso fuoco, raddoppio della velocità della corsa facile, quel ruolo indefinito che dal centrocampo va in attacco senza perdersi troppo in chiacchiere o fronzoli. Tant’è vero che lui scelse Le Mans apposta, preferendola alla Lazio, poiché a suo dire in Italia si giocava un calcio troppo difensivo. Dagli torto, d’altronde c’è chi la vive come una carriera e chi come un gioco. Per Daisuke è sempre stato un gioco, ma preso in modo talmente serio. Dopo gli anni migliori al Le Mans gira parecchio in Francia prima e poi in Bulgaria, prima di tornare a casa al Jubilo Iwata. Ma c’è una maglia che nella finzione non ha cambiato mai, quella della mia squadra Master. Lì il posto da titolare è sempre rimasto suo.

Shigetatsu MATSUNAGA (松永 成立)

Chiedete a un giapponese chi è il portiere più importante della sua storia calcistica e probabilmente vi dirà Shigetatsu Matsunaga, non soltanto perché era effettivamente un discreto portiere, ma perché è stato il portiere del Giappone negli anni a cavallo tra il semiprofessionismo e il professionismo tout court, del passaggio da Nissan Motors a Yokohama Marinos. Oltretutto merita di stare in questa lista solo perché si è laureato prima di dedicarsi a tempo pieno al calcio.

Kazuyoshi MIURA (三浦知良)

C’è stata un’epoca in cui, calcisticamente, Italia e Giappone erano distanti come due porte di un campo da calcio di Holly e Benji. Quindi sono solo incredibilmente distanti, ma anche su un piano che non era retto, ma in salita. Un tempo in cui immaginare un giapponese vero che giocasse a pallone era esercizio di pura fantasia. Finché non è arrivato lui, Kazuyoshi Miura, con la sicumera del campione consumato che ha appreso i segreti del gioco in un lungo Erasmus in Brasile (avete presente Holly e Roberto? Ecco…) e uno stuolo di sponsor che da solo bastava a pagargli quell’ingaggio ridotto di un terzo e farci restare pure qualcosa in più per il Genoa del presidente Spinelli. In un anno in rossoblù, Kazu non l’avrebbe strusciata praticamente mai. Se non quella volta, in quel derby, segnando un gol inutile ma comunque storico. Una rete sola, ma nella partita più importante, poi il ritorno in patria. Dove Kazu ha vinto tutto, diventando il marcatore più prolifico della storia della sua nazionale, e dove gioca ancora. A 49 anni.

Ryo MIYAICHI (宮市 亮)

Stai giocando a PES 2014. Una Master League sanguinosa, complicata e il solo Castolo tiene in piedi tutta la baracca. Chi prendi? Ryō Miyaichi, ovvio. Voglio dire, 20 a velocità chi ce l’ha? Era dai tempi di Babangida che nessun giocatore aveva quelle skill. Castolo che innesca Miyachi era la regola fissa per chi doveva risollevare la squadra durante la Master League e questa, secondo me, è una di quelle cose che rendono immortali alcuni calciatori. Anche perchè, siamo sinceri, la sua carriera da calciatore, nella realtà, è una mezza schifezza. È esattamente quel tipo di giocatore che piace ai ragazzini, tutto dribbling e zero utilità alla squadra. All’Arsenal colleziona mille prestiti finchè Wenger, che pure ci credeva, non decide di liberarlo dal vincolo con i Gunners. Ora sei libero Ryō, vai, trova qualcosa di adatto a te. La serie B tedesca potrebbe andare bene, forse. Mandaci una cartolina da St. Pauli che noi, comunque, ti si vuol bene. E te ne vuole anche Castolo.

Tsuneyasu MIYAMOTO (宮本 恒靖)

Con la leggendaria maschera sul volto, è stato uno dei protagonisti al Mondiale casalingo del 2002. Il capitano di quella nazionale sarebbe dovuto essere Ryuzo Morioka, ma un infortunio l’ha messo fuori gioco e la fascia è scivolata sul braccio del difensore del Gamba Osaka. Cervello fuori dal comune, parla tre lingue oltre al giapponese, tutte imparate grazie al calcio. Si è permesso anche un’esperienza all’estero: Giovanni Trapattoni l’ha allenato nei primi anni del Red Bull Salisburgo. Con un Master FIFA alle spalle, oggi Miyamoto gestisce le giovanili del Gamba Osaka e dice che «il Giappone può vincere il Mondiale nei prossimi vent’anni».

Takayuki MORIMOTO (森本 貴幸)

A inizio giugno si dorme benissimo. Non fa troppo caldo e il vino bianco inizia a scendere meglio, conciliando il sonno. È tutto pronto per abbracciare Morfeo -non Mimmo, ma il Dio del sonno, figlio di Ipno e Notte- quando una zanzara si ricorda il motivo per cui è al mondo e prima ronza nelle orecchie, poi, puntuale, punge. Costringendo inevitabilmente a procrastinare, se non abortire, il processo di sospensione di coscienza e volontà. Ecco, chi si appresta a dormire è la Roma, il sonno è la vittoria e la zanzara è Takayuki Morimoto. Arrivato in Serie A nell’estate 2006, ha vestito solo due maglie, quelle di Catania e Novara. 15 gol in 7 stagioni, non proprio cifre da bomber. La trasformazione avveniva puntualmente nelle sfide contro i giallorossi, ai quali ha segnato 5 gol. Di testa e di piede, uccellando Juan o ridicolizzando Mexes: i gol di Morimoto facevano parte di un disegno del destino dagli occhi a mandorla. Gol più o meno utili, comunque sempre finalizzate alle imprecazioni dei giallorossi. Una bestia nera che, tornato in patria, al JEF United e al Kawasaki Frontale, non ha più spaventato proprio nessuno. Nelle Metamorfosi di Ovidio, uno dei fratelli di Morfeo era Fobetore, la personificazione degli incubi. Quanto era romanista Ovidio.

Hiroaki MORISHIMA (森島 寛晃)

C’è una mistica del numero 8 a Osaka, sponda Cerezo. Il club è sempre stato quello più divertente, ma meno vincente della città. Nonostante qualche retrocessione (oggi gioca in seconda divisione), il Cerezo ha dato il là alla dinastia dei numeri 8: il primo è stato proprio Hiroaki Morishima, che qualcuno ricorderà in una calda mattina di giugno segnare il gol-vittoria contro la Tunisia al Mondiale 2002. Ha vestito per 17 anni la maglia del Cerezo, la sua unica squadra in carriera. I suoi eredi con l’8? Shinji Kagawa, Takashi Inui, Hiroshi Kiyotake, Yoichiro Kakitani. Insomma, un capostipite d’eccezione.

Yuto NAGATOMO (長友 佑都)

Yuto Nagatomo è un soldatino. Yuto Nagatomo è un monumento all’ordine e alla disciplina, la quintessenza dell’interpretazione che la mens nipponica dà di questi due criteri . Ma, sopratttutto, Yuto Nagatomo è un eroe, l’eroe di un manga. È un Crillin terzino e con i capelli. Al posto dei fagioli senzu, Yuto ha bisogno degli umeboshi per recuperare le energie e continuare a correre come un pazzo sulla fascia. Se non mangia gli umeboshi, se ne accorgono subito tutti. Perché si concede qualche gaffe (come una mancata diagonale che tu dici “e vabbè, fortuna che c’era Miranda) e qualche disastro (come l’autogol contro il Southampton in Europa League), come se nel calcio fosse concesso quel comic relief che rende l’eroe più fallibile e quindi più simpatico. E infatti gli si vuole bene lo stesso a Yuto, eroe tutto sommato normale, incarnazione perfetta del terzino ordinato e infaticabile.

Kengo NAKAMURA (中村 憲剛)

Oltre 450 partite, oltre 70 gol fatti con la stessa maglia, quella del Kawasaki Frontale e neanche un trofeo vinto. Peggio di StevieG suggerisce malignamente qualcuno, ma tant’è. Questo è l’amaro destino delle bandiere mai capite fino in fondo. Se ci aggiungiamo che porta uno dei cognomi più pesanti nel panorama calcistico del Sol Levante, ci vien solo da abbracciare il povero Kengo e assicurargli che gli vogliamo bene comunque, per sempre.

Shunsuke NAKAMURA (中村 俊輔)

L’arte del calcio di punizione è cosa per pochi, pochissimi eletti. Nella storia resterà il piede fatato di Shunsuke Nakamura vicino a quelli di Zola, Beckham e Juninho. Gioca ancora in questa linea temporale, è tornato con i marinai di Yokohama da dove tutto è partito, ma la sua carriera, quella ad ovest, si è cementificata nel Celic dove la sua disciplina di pensiero orientale si è ben accomodata con una radice cattolica dei biancoverdi ormai sopita. Eppure, su questo Stivale salvo per miracolo, lo vogliamo ricordare per quei tre anni con la maglia amaranto della Reggina, dove le parabole disegnate da quel sinistro imperiale restano ancora disegnate in aria, come delle scie chimiche (!!1!) perenni.

Hidetoshi NAKATA (中田 英寿)

Immaginatevi di essere un ragazzo di 21 anni con un talento speciale, di trasferirvi in un Paese lontano lontano dove si gioca un calcio molto diverso da quello con cui siete cresciuti, un Paese che — prima di voi — di giapponese ha assaggiato giusto un po’ di sushi e Kazuyoshi Miura. Considerando le premesse, e un’accoglienza decisamente fredda, per Hidetoshi Nakata non deve essere stato facile ambientarsi in Italia, e vincere la diffidenza di chi in lui vedeva un’altra operazione di marketing per conquistare il mercato del Sol Levante. Ma Hide di talento ne aveva davvero. Un gran tiro, dribbling, visione di gioco. Così tanto da guadagnarsi una stagione alla Roma, con tanto di scudetto, prima di passare al Parma. Ma il fuoco di Nakata era di quelli che bruciano in fretta, coperto da esigenze dell’anima, come quella che ti spinge a dire basta a 29 anni, per partire da solo, zaino in spalla, alla scoperta del mondo. Tu, giapponese col cuore italiano e una insaziabile fame di conoscenza.

Masashi NAKAYAMA (中山 雅史)

Tutti a parlare di Holly e Benji di qua, Holly e Benji di là, intanto Masashi Nakayama è l’unico che c’è finito sul serio, nella serie, in quanto se stesso. E ne aveva ben donde, dato che è stato uno dei più importanti e prolifici numeri 9 non solo del Jubilo Iwata, ma anche della Nazionale giapponese. Il pallone nipponico, al momento del suo ritiro, era talmente poco pronto a fare a meno di lui e dei suoi gol, del suo humor contagioso e della sua personalità sopra le righe, che il Consadole Sapporo ha deciso di ingaggiarlo a 42 anni, circa un anno dopo che aveva appeso gli scarpini al chiodo. Scatenato sotto porta, aveva probabilmente già tutto l’occorrente per essere un’icona già prima di scendere in campo per la prima volta.

Yuji NAKAZAWA (中澤 佑二)

Se oggi scorrete la classifica delle presenze in nazionale, alla posizione numero 4 troverete il volto scavato di questo difensore di lungo corso. Cresciuto nel Tokyo Verdy, dal 2002 è il simbolo dello Yokohama F. Marinos. A 18 anni era così determinato nel voler diventare un professionista che lasciò il Giappone per il Brasile, diventando uno dei giovani nel vivaio dell’América Mineiro. Lo chiamano Bomber (che è persino il dominio del suo sito personale) ma per fortuna nessuna pagina italiana ha il merito di questo nickname: lo si deve alla sua chioma folta.

Hiroshi NANAMI (名波 浩)

La rosa del Venezia ‘99-’00 è puro godimento per un appassionato di calcio degli anni ’90: un’accozzaglia di nomi messa insieme alla rinfusa, accompagnata da grandi aspettative e rigettata nell’oblio della Serie B. Konsel, Maniero, Petkovic, Ganz, Bilica, Taibi e Nanami. Arrivato al grido di “se Nakata è forte allora sono forti tutti i giapponesi” la sua carriera nel profondo ovest dura il tempo di un giro di valzer. Se Nakata, infatti, appare come una macchina, un automa costruito perfettamente, mente e corpo tirati a lucido, Nanami si perde nella maglia neroverde troppo grande per lui. Non male, certo, ma neanche bene. Arrivare 28enne per la prima volta in occidente e calcare i campi della Serie A delle Sette Sorelle è stato troppo: a fine anno torna a Iwata, da dove era venuto. Oggi è ancora li, sulla panchina del suo Jùbilo, a raccontare ai suoi di quella volta che Nesta ha fatto questo o Ronaldo ha fatto quell’altro, di quando Totti era giovane o di come a Venezia speravano lui potesse essere il degno sostituto di Recoba e invece no.

Seigo NARAZAKI (楢﨑 正剛)

Probabilmente uno dei migliori portieri giapponese di sempre, a livello di rendimento e affidabilità, nonostante in Occidente ci si ricordi maggiormente Kawaguchi per l’apparizione ai Mondiali di Francia e nonostante ai Mondiali del 2010 gli sia stato preferito il più giovane Kawashima. Eppure, sarà per lo sguardo tenebroso, ma io con Narazaki in porta sarei stato sempre tranquillo. Voglio dire, mediamente.

Shūsaku NISHIKAWA (西川 周作)

In mancanza di eroi assoluti nel ruolo, essere il miglior portiere della J. League per quattro anni di fila è un curriculum vitae di una certa rilevanza. Se cercate un estremo difensore alla Pato Abbondanzieri, con il rinvio facile e una grossa mobilità, il numero 1 degli Urawa Red Diamonds è il vostro uomo.

Mitsuo OGASAWARA (小笠原 満男)

E quello disse:
“A Messina sfonderà”.

Così non fu.

Prima di allietarvi con la storia di Mitsuo Ogasawara, esimi alieni, ci corre l’obbligo di una piccolissima premessa in materia di geografia: Ogasawara è anche il nome di un gruppo di oltre 30 isole tropicali che amministrativamente appartengono alla prefettura di Tokyo. Peccato che il nostro sia nato da tutt’altra parte — anche se, a ben pensarci, lo stesso Giappone è un arcipelago. Nomen omen, per dirla con i latini. Mediano brevilineo, Ogasawara è una leggenda del Kashima Antlers, la cui maglia è diventata una sorta di armatura indossata in oltre 600 battaglie. Con una brevissima divagazione in Italia, naturalmente su un’isola. In Sicilia, però, Mitsuo sbugiardò l’altisonante promessa del suo procuratore: appena sei presenze e un misero gol. Meglio ricordarlo per i sei campionati vinti e per la Coppa d’Asia alzata con la Nazionale.

Masashi OGURO (大黒 将志)

Biondo platino
Pomo della discordia
Chi lo ricorda?

Forse lo fece perché l’immagine di orde di turisti con gli occhi a mandorla ai piedi della Mole Antonelliana o sui seggiolini dello stadio Olimpico gli disegnò il simbolo del dollaro — meglio, dell’euro — sugli occhi come a Paperon de’ Paperoni. O forse perché, semplicemente, credeva in lui. Nell’estate 2006 Urbano Cairo, da un anno presidente del Torino, acquista dal Grenoble (Serie B francese) un attaccante giapponese dal capello biondo placcato oro: Masashi Oguro. Un “piccolo Inzaghi”, “veloce, rapidissimo sottoporta, bravo a trovarsi gli spazi”. Sarà, ma per molti resta un benemerito carneada. Anche per il tecnico granata Gianni De Biasi: “Oguro? E chi lo conosce?”, ammette. I giornalisti subodorano la polemica e incalzano Cairo che tuttavia non sembra cadere nel tranello: “De Biasi non si tocca, sarà il nostro allenatore per quest’anno”. Così sia: a tre giorni dall’inizio del campionato salta la panchina del Torino e Zaccheroni rimpiazza il tecnico veneto. “Avevo dei dubbi”, rivela Cairo. Ma in molti ritengono che dietro la rottura ci sia (anche) quella dichiarazione su Oguro. Ah, a proposito: si è diviso tra Giappone e Cina e ha totalizzato 22 presenze in nazionale. Pochino, se raffrontato con le aspettative sul suo conto in giovane età.

Shinji OKAZAKI (岡崎 慎司)

Quanti giapponesi hanno vinto la Premier League? No mi sa non ce n’è come Shinji Okazaki, che dopo la Germania si è trovato nella più grande avventura calcistica dell’era contemporanea, titolare nell’epico Leicester di Ranieri. Attaccante dotato di dribbling rapido e secco, di uno straordinario controllo di palla, ha regalato fantasia e imprevedibilità per linee sia centrali che laterali a una squadra con più sostanza che tecnica. Ma la sua specialità è senza dubbio rubare palla al playmaker mentre sta facendo salire la squadra, mentre sta pensando, mentre insomma non può proprio immaginare che arrivi alle spalle questa sorta di Marco Delvecchio indiavolato a togliergli il pallone.

Yoshito ŌKUBO (大久保 嘉人)

Controverso, incompleto, a volte incompreso. C’è voluto tanto tempo perché Ōkubo diventasse un imperatore in Giappone. Dopo una carriera spesa tra Osaka e Kobe, con dei viaggi esteri a Maiorca e Wolfsburg (con una Bundesliga vinta in bacheca), il passaggio al Todoroki Stadium di Kawasaki l’ha reso immortale. Tre volte capo-cannoniere, 99 gol in 161 gare e titolo di top-scorer all-time della J. League. Tuoi fan, Yoshi.

Yasuhiko OKUDERA (奥寺 康彦)

Alla fine degli anni ’70, dopo un lunghissimo periodo di esperimenti in Giappone, Yasuhiko Okudera fu mandato in Europa da una base segreta del Pacifico per combattere certe forze del male imperiali che minacciavano di distruggere Parigi, Berlino, Anguillara Sabazia e altre importanti città europee. L’ONU espresse parere negativo alla presenza di Tashuiko Okudera, che tra l’altro era anche orfano e viaggiava sul suo aliante slittante rosso con una scimmietta cieca, pertanto fu inizialmente bistrattato da tutti e anche deriso. In una terribile conferenza stampa in collegamento con tutto il mondo, il presidente dell’ONU si schierò apertamente contro il Giappone (e quindi contro il povero Yashiko Okudera) e a favore dei mostri e dei robottoni nemici. Nella prima partita del campionato tedesco Mashikuo Okudera fu quindi preso di mira dagli avversari; preso a pallonate con cattiveria e discorsi molto brutti per tutti i 90 minuti, si infortunò gravemente di depressione; fu quindi costretto a una terribile riablitazione sulle sulle alpi, ospite dalla casa-famiglia Rotternmeier di cui la matrigna era la malvagissima tenutrice.

Fu l’inverno peggiore della sua vita: a causa della malattia mentale segreta della sig.na Rottenmeier, fu obbligato a indossare dei vestitini celesti con prannananze bianche, una parrucca bionda e a muoversi solo su una sedia a rotelle (era la mise di tutti gli ospiti della casa-famiglia Rottenmeier). La notte di capodanno, mentre tutti erano a divertirsi e lui era stato mandato a lavare i piatti in cucina per il fatto che era orfano, si addormentò al freddo e sognò il futuro; dal futuro gli apparve in tutto il suo splendore il calciatore spaziale giapponese del futuro, che gli raccontò come da lui (lui Gyanshuiko Okudera) sarebbe dipeso il futuro del Giappone e del mondo intero. Gli ricordò che tutti siamo orfani in qualche modo, che le scimmiette possono farci compagnia più dei nostri genitori, che esse scimmiette possono imparare a suonare la fisarmonica, che i campi di calcio non sono altro che rettangoli dove il bene alla fine deve vincere sul male; gli disse che l’amore vince sempre sull’odio e che e che da lui (sempre Tetshuiko Okudera) dipendeva la salvezza dell’umanità; che non doveva conoscere la paura nè sapere il dolore che cos’è, di lottare cadere e rialzarsi e tutto il resto fa da sè, e che se lui non ce l’avesse fatta allora l’impero del male avrebbe vinto e la terra sarebbe stata distrutta.

Okudera si svegliò di soprassalto e organizzò una fuga dal castello Rottenmeier; scappò quindi utilizzando delle lenzuola e poi camminando di notte per centinaia di chilometri e grazie a un grandissimo buco di sceneggiatura arrivò di nuovo a Colonia. Si recò di notte negli spogliatoi della squadra di calcio e aprì il suo armadietto; subito una musica tristissima aleggiò nelli locali bui illuminati da una luce gialla che usciva chissà come dallo sportelletto di ferro. Ma sull’anta dello spogiatoio trovò una fotografia che non aveva mai visto: era una foto di un calciatore del futuro che lo guardava fisso e sorridente dalla carta plastificata. La musica da triste divenne media, poi gioiosa e poi battagliera. Lo spirito del futuro radioso di Takashito era entrato in Yakutsiko, che da quel capodanno 1977 egli iniziò a giocare con lo sguardo del falco negli occhi (il falco simboleggia il bene ovviamente). Questo fece in modo che Yatsuhito Okudera portasse il Colonia a vincere tutte le partite restanti fino alla fine del campionato, che quell’anno aveva come favorita la squadra dell’imperatore del male, la squadra del Beckembayern. L’ultima decisiva partita (drammatica e che per una stramberia del regolamento della bundesliga introdotto in quell’anno dall’impero del male dovette essere ripetute per ben sei volte perchè era sempre finita 0–0 con 0 tiri in porta) fu proprio dell’FC Pikkoletten Koln contro la squadra della capitale, il Beckembayern, il cui capitano (Boris Ulrich) era alto ben 2,15 cm (record per un calciatore).

Non ci crederete, amici lettori, ma quella settima tragica partita (morì nell’intervallo Tetsuo, la scimmietta cieca di Marashiko Okudera) fu vinta 6–5 dal Colonia, che dopo essere stati in svantaggio per 0–5 fino all’80' riuscirono a ribaltare il risultato e a vincere grazie al nostro Kashuiko Okudera, il quale posseduto in trance dallo spirito del calciatore spaziale giapponese del futuro, segnò il gol del 6–5 con un potentissimo tiro in rovesciata direttamente dalla sua area di rigore; dedicò il gol alla sua amata scimmietta Fujiko, dopo di che scappò via dallo stadio per andare a coronare il sogno della sua vita: aprire un chiosco di quella roba di riso con le alghe nere intorno in una piazzetta di Anguilara Sabazia.

Shinji ONO (小野 伸二)

Soprannominato in patria Tensai (genio) forse non soltanto per l’eccelse doti tecniche che gli permettono gesti visti all’epoca in patria solo da calciatori importati, ma anche per il modo in cui si muove e vede il campo (Shinji Ono sembra sempre una mossa avanti all’avversario, vede e prevede tutto a 360 gradi e risponde in modo sempre imprevedibile) e sopratutto un fisico compatto e reattivo in grado di fargli tenere botta sui contrasti e proteggere ogni pallone. Nei campi di Shizuoka da ragazzino è più seguito dei professionisti e poi trasferitosi nel Kanto dopo il diploma (negli Urawa Reds) fa le fiamme in un contesto ancora non all’altezza del suo talento come quello in Giappone a cavallo del nuovo millennio. Con già alle spalle un Mondiale giocato da diciottenne (Francia 98) e un Mondiale U-20 da finalista e stella della squadra (Nigeria 99) sbarca in Europa ventunenne. Nel Feyenoord è subito amore tra lui e i tifosi che impazziscono per quel ragazzino con la sua faccia rotonda e il sorriso serafico che fa cose sempre più difficili con una semplicità disarmante. Si parla del Feyenoord campione della Coppa Uefa con in campo giocatori come Van Persie, Tomasson e van Hooijdonk e Ono è il regista tutto fare della squadra.

Quando il talento più puro della storia calcistica giapponese sembra pronto a spiccare il volo però arrivano gli infortuni senza sosta a rovinare tutto e a cambiare la storia. Con gli infortuni che non gli danno tregua Ono perde il contatto con quella traiettoria ascendente nella sua carriera che sembrava obbligatoria visto il talento e inizia un lungo percorso di avanti e indietro con il Giappone. Nel mezzo si toglie la soddisfazione di vincere tutto con gli Urawa Reds, tornare nella sua Shizuoka e poi fare il Re nel neonato campionato Australiano. Ma ogni volta che sembra essersi ripreso torna lo stop, una maledizione che si protrae per tutto il periodo di un teorico prime che non arriverà mai.

Ruy RAMOS (ラモス瑠偉)

Prima che la naturalizzazione diventasse un espediente spicciolo per acquisire una competitività spesso solo presunta, dove non arrivava lo ius sanguinis bisognava compensare con uno spirito di dedizione alla causa tale da guadagnarsi un’investitura dettata, beh, anche un po’ dalla gratitudine.

La dinamica con la quale Ruy Gonçalves Ramos Sobrinho è diventato Ramosu Rui e per direttissima uno dei dieci più iconici dell’era pionieristica del calcio nipponico ha seguito esattamente questo sentiero: il conferimento della cittadinanza, e tre anni più tardi la consegna delle chiavi del centrocampo della prima Nazionale professionistica (che avrebbe subito vinto la Coppa d’Asia, con la gioia scema e innocente dei newcomers), è stato quasi un Premio alla Carriera. Eppure in quel contesto Ramosu Rui spostava davvero gli equilibri.

Perché quando ha esordito con i Blue Samurai, Ramosu aveva già 33 anni. Da due lustri calpestava i campi balordi di tutto il Giappone indossando la maglia degli Yomiuri Verdy, poi Verdy Kawasaki, poi ancora Verdy: la direttrice della sua carriera (vabbè, un brasiliano in Giappone) era qualcosa di così ordinario, a pensarci bene, che solo dallo scontro con quella di Kazu Miura (un giapponese in Brasile?!?), collisione di faglie tettoniche dagli effetti DaDa, poteva uscirne ribaltata fino a sembrare assurda.

Vederlo giocare corrispondeva a godersi uno one-man-band-solo-show: rovesciate (anche irrichieste), peinadas, cavalcate box-to-box, ma anche ex-voto al nonsense immolati sull’altare dell’egocentrismo e lezioni di futbol in campo.

Ramosu era l’incarnazione di qualcosa che non s’era mai visto nella terra del Sol Levante, se non in Captain Tsubasa. Ma era soprattutto un meraviglioso spot motivazionale: un carioca con la barba che diventa simbolo d’eleganza e talentuosa integrazione era la testimonianza più cristallina che chiunque può trasformarsi in un uomo migliore. Soprattutto se è carioca, con la barba, ha i piedi in fiamme e andrebbe pure in guerra, per la Nazione che l’ha adottato.

Che esempio di dedizione, Ramosu Rui.

Hisato SATO (佐藤 浩)

Ha sempre detto di avere un solo e unico idolo: Pippo Inzaghi. A giudicare dalle movenze, dal modo di interpretare il ruolo di centravanti e dall’immaginario creato in patria, missione riuscita. In più, ha segnato 161 gol in prima divisione nipponica. Con la Nazionale non ha avuto fortuna, ma il suo profilo è uno di quelli che a Proxima Centauri potrebbe andar meglio.

Naoki SOMA (相馬 直樹)

Naoki Soma ci apparve in Occidente come una cometa animata, mentre eravamo in dormiveglia da caldo pomeridiano durante il Mondiale di Francia. In campo correvano tutti, ma solo Naoki Soma era pazzo, aveva fame, aveva freddo, aveva caldo, lo avevano punto, aveva ragione, aveva un treno da prendere, aveva un treno da essere. Naoki soma era un uomo a tutto campo, partendo dalla fascia, con Naoki Soma i ruoli diventavano obsoleti, con Naoki Soma i Kashima Antlers talvolta potevano permettersi di mandare in campo solo il portiere e toh, un attaccante, ma giusto perché Naoki Soma non sapeva cos’era l’egoismo, e non l’avrebbe mai saputo.

Ryuichi SUGIYAMA (杉山 隆)

Parlando di pionieri del calcio giapponese, il nome più importante che viene alla mente è quello di Ryuichi Sugiyama, ala d’attacco scattante e pungente che vinse la Medaglia di Bronzo alle Olimpiadi del ’68. Data la ribalta internazionale che sarebbe mancata al calcio nipponico per i successivi vent’anni, facile che sia considerato un eroe nazionale, con tanto di statue e bassorilievi dorati a lui dedicati.

Naohiro TAKAHARA (高原 直泰)

Takahara è uno che non ci ha creduto fino in fondo. È un attaccante che ha avuto tutto per giocare ad alti livelli ma che non è riuscito a stare troppo fuori dalla sua zona di conforto. Ci ha provato, per 4 anni in Germania tra Amburgo ed Eintracht ma non segnava come in Giappone ed allora è tornato in patria dov’è ancora oggi gioca. Piccola grande nota di merito: è il primo giapponese a giocare in Argentina, e lo fa con la maglia del Boca Juniors. Era forse più un tour promozionale di Korea-Japan 2002 ma comunque non glielo toglierà mai nessuno questo primato.

Marcos TULIO Tanaka (田中 マルクス 闘莉王)

Prendete 185 centimetri di pura evoluzione nippo-brasiliana, che raccoglie mille incroci e un secolo di storia alle sue spalle. Datelo a una nazionale alla disperata ricerca di un leader difensivo (e non solo, forse spirituale). Contate le presenze in J. League — il conto è fermo a 395 (con 75 gol realizzati!) — e collocatelo nella storia come un centrale capace di giocare anche da centravanti se la situazione lo richiedesse. La risposta sarà Marcus Túlio Lyuji Murzani Tanaka, 35 anni passati a comandare chiunque gli passasse a tiro, dai colleghi in patria a Didier Drogba.

Atsuto UCHIDA (内田篤人)

Talento precoce con fascino da gruppo di J-Pop, terzino instancabile, poco fortunato ma in compenso collezionista di infortuni, a Proxima Centuari gli dovrete garantite delle caviglie di cemento, con le quali smetterà di soffrire. A vent’anni era già in nazionale ed è stato una colonna del Giappone fino a quando il corpo l’ha sostenuto. Gli alieni hanno promesso che ne avranno buona cura: Atsuto se lo merita.

Atsushi YANAGISAWA (柳沢 敦)

Io del Kashima Antlers a un certo punto mi sono accorto per una questione di cuore, perché era la squadra dov’era andato ad allenare Toniño Cerezo negli anni pionieristici verso Oriente. C’era lì Atsushi Yanagisawa, un tizio che faceva una valanga di gol, rapidissimo in area di rigore, dotato di un tiro preciso e secco, capace di trascinarsi dietro le difese avversarie. Normale che l’ex blucerchiato Cerezo lo consigliasse alla Sampdoria di Novellino, attratta probabilmente più dal marketing che dalle sue qualità in campo; così arrivò con l’etichetta di un Inzaghi a mandorla, ma né in quell’esperienza né nella successiva a Messina riuscì mai a segnare un gol in Serie A. Tornò dopo un paio d’anni agli Antlers senza più Cerezo. Ma riprese a fare gol e tornò a riprendersi il titolo di erede che un brasiliano di nome Zico gli aveva cucito attorno. Insomma vai a vedere che se Inzaghi fosse andato a giocare in Giappone l’avrebbero chiamato lo Yanagisawa di Piacenza.

Maya YOSHIDA (吉田 麻也)

Zaccheroni era innamorato di lui quando allenava il Giappone e probabilmente in pochi avrebbero pensato ai tempi di Sir Stanley Matthews, un signorino che rifiutò di giocare contro i “coloni” americani, che uno dei difensori più solidi della Premier sarebbe stato un esponente dell’ultimo Impero sulla Terra. Yoshida è duttile, sereno, gentile e forte. E’ un esponente di spicco di quella cultura nipponica che tutto il mondo rispetta. E, vista la prospettiva del suo talento, pare non sia tutto qui.

La Linea Difensiva della Terra, in questo episodio, è stata composta da Gabriele Anello, Simone Vacatello, Valerio Savaiano, Leonardo Ciccarelli, Simone Pierotti, Daniele Morrone, Gabriele Lippi, Simone Nebbia, Sebastiano Iannizzotto, Lorenzo Censi, Adriano D’Esposito e Fabrizio Gabrielli.

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