I gol più belli della storia del Napoli

Crampi Sportivi
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12 min readSep 9, 2016

Piove. Chiudo gli occhi. Fermo la testa che gira. Il presente scorre più lento, mentre col pensiero salto così indietro da ritrovarmi in anni, giorni e situazioni che non ho mai vissuto. Riapro gli occhi, lentamente, sperando di non ritrovarmi ancora nella mia stanza, sulla mia sedia, nella mia camera piena di poster che soffocano i muri bianchi. Sono nel 1959, il Napoli abbandona il Collana del Vomero per aprire le porte della sua nuova casa più grande. Grande almeno quanto i sogni degli ottantamila che può ospitare. Alla festa della prima in casa, neanche a dirlo, ci sarà la sfidante di sempre: la Juventus.

È Napoli-Juventus tutti i giorni, da queste parti. A pensarci bene è Napoli-Juve ovunque. “Caos” contro “Ordine”, “Cuore” contro “Testa”, “Emozioni” contro “Macchine”, “Colore” contro “Incolore”, “Caldo” contro “Freddo”. È Napoli- Juve nelle case, nei vicoli così stretti da impedire al sole di battere per più di un’ora al giorno. È Napoli-Juve tra le persone che la pensano diversamente tra loro.

Noi, però, abbiamo in camp ‘o Lione, Luis Vinicio, strappato anni prima alla Lazio in cambio della concessione dei lavori di ristrutturazione di Piazza Municipio al presidente dei biancocelesti. ‘O Lione è nel cuore della gente di Napoli. Ha il viso a metà tra il malinconico e il serio, ha il fisico prestante tipico dei nuotatori ed è veloce. Oh quanto è veloce. Sono incastrato nella matassa di gente che affolla i gradoni della curva. Lo stadio profuma ancora di pittura appena asciugatasi. Riesco a seguire a mala pena la partita. Quello che non vedo lo immagino, guardando i volti delle centinaia di persone che mi circondano. Vinicio sulla fascia, allunga sulla morsa dei difensori bianconeri, leggera finta di corpo a disorientare il marcatore, tiro angolatissimo. Magma umano, vivo moto ondoso. Alto, sopra la traversa. Respiro, espiro, respiro, espiro. Cross dalla destra, respinta della retroguardia. La palla vaga verso il limite sinistro dell’area di rigore. Allungo il braccio sulla spalla dell’uomo avanti a me, come a cercare un appoggio, come a volere spingerlo giù, nei pilastri in cemento armato del San Paolo, per poter avere la visuale perfetta. Elevazione in mezza sforbiciata, a mezza altezza. Impatto, di collo, col pollone che viaggia rettilineo, tagliando l’aria e il respiro. Palla nel sette. 2–1. Valanga informe, urla impazzite. Chiudo gl’occhi. Sono nella mia stanza, sano e salvo, col cuore che batte forte ancora.

Mi passo la mano nei capelli, come a voler prendere i pensieri e metterli di nuovo in ordine. L’affanno lo sento ancora ma il respiro si addolcisce e il cuore si calma. Bevo un sorso d’acqua dal bicchiere che suda sulla mia scrivania, di fianco al pc. Sono pronto, chiudo gl’occhi.

Quando li riapro, sono a Torino ed è il 6 aprile del 1975. Sono al Comunale e -sorrido, scuotendo la testa- in campo ci sono Juventus e Napoli a contendersi i due punti. Sono con un gruppo di tifosi bianzoazzurri di Giugliano (provincia a Nord di Napoli), sono arrivati fin qui ieri sera. Hanno alloggiato dai loro parenti emigrati per lavorare nelle enormi fabbriche piemontesi. Cercano il sogno americano, anche se sono solo a Torino. Sono arrivati presto allo stadio, stamane, per evitare di fare la fila ai cancelli assieme ai tifosi di casa. Non esistono i settori ospiti, esiste l’aggregazione di tifosi della stessa squadra. E basta. Prima si arriva, meglio si sceglie con chi vedere la partita, fianco a fianco. Juventus-Napoli è nelle fabbriche, nei bar che la mattina sono pieni di fumo che sembra nebbia. Juventus-Napoli è il padrone che sfida l’operaio, il locale che sfida l’emigrato, il felice a casa sua che sfida il triste in casa di un altro.

Il gruppo di tifosi biancoazzurri è allegro e rumoroso. Forse è la Sambuca alle 11 del mattino o forse è Totonno Juliano in campo. O, magari, sono entrambe le cose. Juliano è figlio della città. Ha vestito sempre e solo la maglia in lana azzurra e colletto bianco, dalla primavera alla prima squadra. Un goal di Totonno è un goal fatto da ogni napoletano. Se Jiuliano segna alla Juventus, al Comunale, beh, avete capito di cosa sto parlando. I padroni di casa sono passati in vantaggio nel primo tempo con un tiro sporcato da Pogliana. Il freddo si fa pungente, piove, i nasi diventano rossi, la Sambuca non aiuta più. Ma proprio quando la speranza va spegnendosi nel freddo aprile piemontese, il destro al volo d’esterno, dello scugnizzo dal ghigno beffardo, si insacca, in alto a sinistra del portiere. Dove nessuno può prenderla. Nemmeno il più forte. Nemmeno il vento freddo che scende dalle Alpi, alle spalle del Comunale. Esplodo di gioia assieme a quei ragazzi mai cresciuti venuti da lontanissimo. Lì abbraccio fortissimo, perché sono la mia isola felice in messo al mare bianco e nero.

Li abbraccio e urlo, con loro, perché forse non li rivedrò più. Li abbraccio così forte da non riuscire a riprender fiato. Non riprendo fiato. Chiudo gl’occhi. Lì riapro e sono nella mia stanza, silenziosa ed accogliente. Mi guardo intorno, sono solo. Ho la maglia sgualcita e respiro. Respiro!

Accendo una sigaretta, sfilandola dal pacchetto che gelosamente custodisco nel mio cassetto, a far compagnia ai miei sogni. Gli stessi che sembrano tornare ad essere realtà, trascinandomi con loro a spasso nel tempo. Il primo tiro svanisce in un soffio grigio, il secondo alimenta la nuvola che ho creato poc’anzi. Mi gira la testa. Porto la mano destra agl’occhi che stropiccio delicatamente coi polpastrelli. Apro gl’occhi, metto a fuoco. Frastuono, caos, petardi. Erba bagnata, asfalto umido, stoppa inzuppata. Sono al San Paolo, è il 3 novembre 1985. Lo stadio è l’anticamera dell’inferno. Tutto ribolle di passione, tanto che la pioggia che cade insistente sembra evaporare appena tocca la folla assiepata sui gradoni. Sono in curva, il copri spalti non c’è ancora. Sposto lo sguardo al campo e -sorrido, quasi rido- in campo ci sono Napoli e Juventus a giocarsi la vittoria. Cosa? Mi sembra di aver visto bene.

C’è la 10 in campo. Vuol dire solo una cosa, nel 1985. Diego Armando Maradona. Il respiro mi si spezza tra un battito e l’altro. Mi sembra di essere in apnea da tantissimo.

Ogni tocco di palla è un’opera d’arte, qualcosa che ognuno sarà fiero di raccontare a suo figlio e a suo nipote. Ancora e ancora. Calcio di punizione a due, in area di rigore. Non c’è spazio per calciare. La barriera è a cinque metri o poco più. Troppa gente avanti la porta. Un muro, larghissimo ed altissimo. Non c’è spazio, la passa, certo che la passa. Mezzo passo verso il pallone. Taglio impercettibile col collo sinistro sul pallone. La sfera si alza leggera sui cinque metri della barriera. Rotea nell’aria e respinge le gocce d’acqua, delicatamente. Inizia a scendere all’improvviso, senza chiedere, senza dar fastidio, senza far rumore. Scende esattamente lì dove Tacconi non può arrivare. Dove nessuno può arrivare. Nemmeno l’immaginazione. Rete. Il San Paolo viene giù in una valanga di euforia incontrollabile, producendo un suono che è a metà tra un boato di un sisma e le onde che si infrangono violente sui frangiflutti di via Caracciolo. Non sento più il cemento sotto i miei piedi, sono un tutt’uno con la folla caotica e bellissima. Grido, grido e sorrido. Chiudo gli occhi e sono felice. Li riapro dopo qualche secondo. Lo so, sono nella mia stanza, ancora una volta. Sono qui e sorrido.

Non riesco ad alzarmi dalla sedia, ho le mani sudate, la testa che mi scoppia. Troppo, troppo in fretta. In una sera senza nome, sono a spasso nel tempo, seguendo il pallone che varca la linea di porta, immerso in esultanze smodate che non ho mai vissuto e che ho sempre sognato. Come quella volta che -chiudo gl’occhi senza accorgermene- il Napoli si ritrovò ad un passo dalle stelle d’Europa. Alzo lo sguardo ma il soffitto non c’è. C’è il copri spalti bellissimo dell’Olympiastadion di Monaco di Baviera. Gli spalti sono stracolmi. È il 17 maggio 1989, si gioca la finale di ritorno di coppa Uefa. Stoccarda-Napoli.

Come invisibili arterie che portano il sangue al cuore, le autostrade d’Europa hanno pompato tifosi biancoazzurri da ogni dove. Dall’Italia, dalla Francia, dalla Spagna, dai paesi dell’Est. “Non c’è posto per tutti”, dice il giornale. Ma che vuoi che importi cosa dice il giornale. Non c’è altro posto al mondo dove un tifoso del Napoli voglia stare, oggi.

Diego ha promesso la coppa e la squadra è fortissima, forse la più forte di sempre. Persino i tedeschi hanno paura. Accanto a me ci sono tifosi del Napoli provenienti da Torre del Greco e da Ercolano. Ad occhio e croce saranno un centinaio. Abbracciano cugini e fratelli emigrati in Germania per costruire le Volkswagen o per popolare le città-fabbriche che circondano la foresta nera. Il boom economico tedesco ha strappato a Napoli i suoi figli, l’undici guidato da Maradona li ha fatti ricongiungere, in finale di coppa Uefa. Al goal del vantaggio di Alemao, l’esultanza è come ancorata ad un pilastro di ansia e paura. Al nuovo vantaggio di Ciro Ferrara la paura comincia a rompersi. Attorno a me nessuno parla ma sento indistintamente ogni cuore che pulsa adrenalina e sangue. La folla comincia ad ondeggiare lenta e incontrollabile. Sembra bradisismo, sembra un geyser pronto a saltare in aria. Diego crea il vuoto. Rincorre un pallone che squarcia il campo in due. Sembra solo, come un viandante nel deserto vastissimo. Controlla il pallone, temporeggia. Aspetta. Aspetta che il destino si manifesti. Perché lui lo sa che si manifesterà. Perché tutti noi sappiamo che si manifesterà. Eccolo. Antonio Careca. Diego gli dà la palla, con il contagiri. Careca controlla, aspetta il momento giusto. Diagonale ad incrociare sul portiere in uscita. 1–3. Cade in frantumi la paura, crisalide di fantasia si trasforma in realtà spiegando il volo, sopra i partenopei a Monaco di Baviera. Sopra i partenopei ovunque, dall’altra parte dello schermo delle televisioni e dall’altra parte delle casse delle radio. Non c’è più tempo per perderla, pur volendo. Non capisco più nulla. Nessuno capisce più nulla. Mi lascio trasportare dalla folla in estasi. Guardo il cielo attraverso il copri spalti e mi sembra bellissimo. Chiudo gli occhi e trattengo il respiro.

Espiro. Accendo l’ennesima sigaretta con gl’occhi ancora chiusi. Il sapore della vittoria e l’odore dell’Olympiastadion sono oramai sfumati. Sono nel 2016, a casa mia. Sbuffo la boccata di fumo che ho appena aspirato. Come un amante dopo aver fatto l’amore, mi gusto silenzioso il mio premio di nicotina. So che queste montagne russe emozionali mi accompagneranno fino al presente. Almeno lo spero. La storia del Napoli, sostanzialmente, si divide in due macro sequenze: Napoli ante Diego, Napoli post Diego. Il post Diego l’ho vissuto tutto, buona parte in prima persona, un po’ ovunque, a spasso per lo stivale col cuore in mano, ignorando le ore di sonno che, man mano, sono diventate sempre di meno. Aspiro ancora un po’ della mia sigaretta che intanto aspetta che ceda al suo richiamo assuefacente. Il fumo mi acceca per qualche secondo. Chiudo gl’occhi e passa tutto, so come funziona. Li riapro e, tutto intornio è un frastuono di urla di speranza e pioggia battente.

È il 19 dicembre 2010. Il Napoli sta sorprendendo tutti. Cavani è il trascinatore, l’atleta di Cristo, il ragazzo dalla faccia pulita. Arrivato nella diffidenza e nella disaffezione, ha abbattuto ogni mugugno a suon di goal. Partita dopo partita, scatto dopo scatto, siluro dopo siluro.

Il Lecce naviga nei bassifondi della classifica. Lo sapevo che non sarebbe stata una partita facile. I testa-coda sono i termovalorizzatori in cui vengono bruciate le migliori aspettative, senza che nessuno riesca a fare o a dire granché. Il tempo sta scadendo. Minuto 93. Molta gente è già fuori il San Paolo, sento già i clacson del traffico che comincia ad addensarsi, a piazzale Tecchio. Cavani riceve palla sulla tre quarti, alza la testa per capire dove si trova. Ondeggia da sinistra verso destra, poi da destra verso sinistra. Ne salta uno, poi un altro, poi un altro ancora. Alza la testa per un attimo, Rosati è spostato appena verso la sua destra. La gamba disegna una mezzaluna nell’aria. Il piede impatta col pallone, lasciando partire un siluro terra-aria. La traiettoria è esattamente una semiretta che parte dal punto d’impatto e si perde nell’infinito, passando attraverso l’angolino alto, alla sinistra di Rosati. Il pallone viaggia attraverso l’anima di tutti quelli che ancora sono allo stadio. Viaggia anche attraverso me. Sono in Vespa ma piove, l’università, il lavoro, i soldi che non ho, il tempo che non avrò. Non importa. Urlo, a braccia tese verso l’alto. Cado, di nuovo, a valanga, assieme a chi, come me, urla fregandosene di tutto il resto. Chiudo gl’occhi. Sono a casa. Esulto ogni volta, sempre allo stesso modo. Cavani nell’1–0 al Lecce. Scuoto la testa, guardo nel vuoto. Sono felice.

La pioggia è un elemento ricorrente in questo mio viaggio tra i ricordi. Eppure dovrebbe essere il contrario, seguendo il filo meteo-logico del contesto napoletano. Invece c’è sempre, ad abbellire ogni momento, ogni particolare legato al ricordo. La realtà della mia stanza piena di immagini attaccate alle pareti e i ricordi ancora troppo vivi si mescolano tra loro, generando un limbo dove non occorre più chiudere gli occhi per rivivere ciò che è stato. Fuori piove. Pioveva in ogni goal che sento dentro. Mi affaccio dal balcone per prendere una boccata d’aria. Le gocce di pioggia di questo settembre, già così lontano dall’estate, mi accecano impattando con le pupille. Abbasso lo sguardo, stropicciando gli occhi. Lo rialzo e sono a Roma, allo stadio Olimpico, ed è il 20 maggio 2012. Sono in curva Nord, assiepato assieme ai miei simili. La sfidante è la Juventus, as usual. La vecchia signora ha appena vinto il suo ennesimo scudetto, chiudendo il campionato con zero sconfitte. Anche il suo cammino in coppa Italia è privo di sconfitte.

Da tanto, troppo tempo il Napoli non alza un trofeo al cielo. Ci credo, ci crediamo tutti. Lo sento, lo avverto. I volti che vedo attorno a me sono uguali al mio. Tesi, freddi, concentrati, preoccupati.

Ogni attacco della Juve è un colpo al cuore. Il tempo stringe, o la va o la spacca. Calcio di rigore. Cavani sul dischetto. Nessuno guarda, ma io sì. Mi hanno sempre detto che le emozioni bisogna viverle tutte, dall’inizio alla fine. Bisogna lasciarsi attraversare dalle emozioni. Cavani spiazza Storari. Esplodo assieme alla curva. L’urlo mi si strozza, ho un maledetto déjà vu. Mi ritorna in mente la paura di veder sfumare tutto, quella Monaco di Baviera nell’89. Tremo, fremo, impreco. Minuto 83. Intercetto di Aronica, controlla Pandev . Temporeggia sul posto, poi suggerisce l’avanzata di Inler. Inler di nuovo a Pandev che segue il taglio perfetto di Hamsik. Cavani è dall’altro lato. Goran sceglie Hamsik che segue il pallone con la forza della voglia di vincere. Controllo del pallone e tocco delicato, sotto il pallone, ad alzare leggermente la traiettoria ad incrociare su Storari in uscita. Il 17 guarda la curva, con le braccia al cielo, poi urla. Urla fino a sentirsi stremato. Ho creduto che guardasse me. Ma, in verità, guardava ognuno di noi, mentre urlavamo come lui, assieme a lui. Fino a sentirci stremati. Come lui. Ho visto la coppa, da lontano. Ma mai da così vicino. Ho urlato, guardando il cielo, attraverso il copri spalti. Déjà vu, come a Monaco di Baviera. Abbasso lo sguardo, sono a casa, senza voce.

Ritorno sulla mia sedia, lasciando la finestra aperta così da sentire il rumore dolce della pioggia che viene giù. Credo di amare la pioggia. L’ho sempre amata, infondo. Rinfresca l’aria e raffredda i muscoli. Apre squarci adimensionali tra giornate di afa umida. La pioggia stimola la fantasia, alimenta i ricordi impreziosendoli di luce scintillante riflessa in ogni goccia fresca che cade. La luce dei riflettori dello stadio sembra più chiara, il campo sembra più verde anche se intriso d’acqua. Le stesse maglie dei calciatori in campo sembrano avere colori più vivi. La pioggia rovina le orrende acconciature di chi sta in campo e di chi sta sugli spalti, riportando tutti sullo stesso livello, sulla stessa linea d’onda. Tifoso e giocatore, fedele e divinità, persona ed eroe sono uguali, sullo stesso piano, nella stessa dimensione. La pioggia tiene in vita la malinconia, ma annaffia la speranza e le aspettative per farle crescere rigogliose. Ascolto con gl’occhi chiusi la pioggia che cade.

Come quella sera di qualche mese fa, il 14 maggio 2016. Ascolto la pioggia che batte sul vetro della mia auto, ad occhi chiusi. Aspetto che la perturbazione passi. Niente da fare, il cielo è completamente grigio.

Percorro a piedi la breve strada in discesa che da Monte Sant’Angelo porta al San Paolo. Mia madre mi aveva consigliato di portare un ombrello, che mi sarebbe tornato utile. Non ho mai ascoltato i suoi consigli. Arrivo al mio posto che sono completamente bagnato. La Juventus è già campione d’Italia ma, poco importa. Il Napoli ha due obiettivi da centrare assolutamente: blindare il secondo posto, tenendo sotto la Roma e eguagliare il record di goal segnati da un giocatore in una singola stagione di serie A. Napoli-Frosinone è la “scala stellata per il paradiso” come direbbero alcuni. Higuain segna il goal numero 34 e il goal numero 35. Sul 3–0 la partita va spegnendosi. Il record di Nordahl resta ad un solo passo. Un solo piccolo ma decisivo passo. Il traguardo così vicino ma ancora tanto lontano da non riuscire a toccarlo con mano. La pioggia è insistente. Mertens manovra a limite dell’area di rigore. Il vento scende veloce sul terrendo di gioco. Tocco a scavalcare i difensori in ripiego su di lui. La folata di vento cattura l’odore dell’erba, delle maglie sudate, della gomma bagnata. Higuain intercetta il pallone a mezz’aria, di petto. La sfera rimbalza di un metro lì dove nascono le leggende. Rovesciata, al volo. Passano lentissimi i secondi. Il pallone traccia un’ellisse immaginaria e bellissima che finisce alle spalle del portiere. 36 goal in stagione, record di sempre. In rovesciata. Sotto la pioggia. Al San Paolo.

Riguardo queste reti ogni volta che piove. Li rivivo, li immagino. Li sento miei. Così come tutti i sogni che sembrano prendere vita, ogni volta che piove.

Articolo a cura di Saverio Nappo

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