I piaceri del giardino d’inverno

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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5 min readJan 5, 2017

Chinato sulle nocche sbucciate Winter sentiva il calore irradiarsi a ondate, dalla mano all’avambraccio, dall’avambraccio alla spalla, e poi tendersi verso il collo per arrivare alla testa e lì esplodere come un piccolo sole alle tempie. Era seduto negli spogliatoi; scarpini slacciati, calzettoni molli attorno alle caviglie e la mano pulsante. E sentiva la folla gridare il suo nome.

Era il 7 maggio del 1954, si giocava la semifinale tra L’Internacional Barmera e il Deportivo Booroomba e quella fu la sua ultima apparizione sportiva.

Brendan Winter non divenne mai famoso per i suoi passaggi, quanto per le risse che provocava o dalle quali non si tirava mai indietro.

E fu un peccato perché era un centrocampista tutt’altro che mediocre: gran senso della posizione, piedi non raffinatissimi, forse, ma capacità di lettura del gioco fuori dal comune. Insomma, uno che ci sapeva fare. Però se in una partita vedevi mani e piedi volare da ogni parte potevi stare sicuro che nel centro di quel tifone c’era lui. Il suo era un problema di temperamento.

Secondo dei tre figli del senatore Winter, Brendan frequentò le migliori scuole del paese, e da tutte fu scacciato. Il padre allora lo mandò nelle peggiori ma lo cacciarono anche da quelle.

E quando Brendan prese a pugni un compagno fino a fracassargli costole e mascella, non restò che la Dowson School, un collegio per ricche teste calde sulle alture della città.

Fu lì che, lontano da ogni rigore, nelle sue fughe quotidiane verso il quartiere del porto, Winter scoprì il calcio degli immigrati: un gioco sporco, duro, terroso e irascibile. Cominciò e non si fermò più. Ogni partita era zuffa da gatti di strada. Accapigliarsi nella polvere e ciondolare, il giorno dopo, con le gambe pesanti coperte di lividi e crosti e certe mattine che anche solo a camminare diventava un’impresa.

Poi, un giorno, durante una partita in mezzo alla strada, successe che Pasquale Capotorre, una specie di duro del quartiere, lo scalciò malamente da dietro. Avevano tutti paura di Capotorre, perché era un mezzo delinquente con la fronte trogloditica e le mani pesanti; e quando Winter accennò una reazione, quello gli diede una manata che lo gettò a terra e ridendo gli disse: “Tornatene in collina, culetto delicato, il calcio non è roba per te.”

Ma Brendan si rimise in piedi e gli mollò un destro che gli spazzò via il sorriso e questo convinse Lucchetti che fosse la persona giusta, così gli fece la proposta: “Perché domani non vieni agli allenamenti? Stiamo mettendo su una squadra, una vera. Andremo a giocare su certi campi che non si sa mai come se ne esce. Abbiamo bisogno di gente come te.”

Alcide Lucchetti divenne poi sindacalista e militante e fu assassinato nei giorni del golpe in Argentina, ma all’epoca era solo un ragazzino alto e magro come un palo del telefono.

Winter tirò su col naso, si rialzò i calzoni che erano un po’ calati, e disse: “D’accordo.”

Iniziò così, su campetti spelacchiati dei quartieri periferici, a darle e a prenderle. Uno sgambetto, una scorrettezza, e lui caricava a testa bassa con gli occhi infossati in due buchi neri di rabbia e cominciava un balletto di spinte a mascella dura, torace contro torace. Testa contro testa. Una manata in faccia e un pestone sul menisco. Lui, che era cresciuto tra scuole private, ricevimenti e collegiali bionde, si trovò a maltrattare un pallone scucito in mezzo ai figli di immigrati italiani e polacchi che puzzavano di miseria e poté finalmente respirare la propria natura.

E quella sua indole irrequieta lo rese il beniamino dei tifosi. Bastava che da qualche parte si commettesse un fallo che dalla curva esplodeva il grido WIN-TER, WIN-TER e lui attraversava il campo di volata ed era già lì a spingere, mollare pugni o testate sul naso. Solo in mezzo a tre, quattro, cinque avversari che cercavano di allontanarlo allungava ancora la mano per tirare uno schiaffo.

Passò così di categoria in categoria, scalò i campionati a colpi di entrate dure e gioco maschio e fu acquistato dall’Internacional Barmera per rinforzare un centrocampo traballante.

In un anno collezionò una quantità record di espulsioni: 23. Orden, Duvel e Morelli ne fecero le spese, Botero porta ancora una lunga cicatrice sul polpaccio e Van Dombel non tornò mai più su un campo da calcio. Ma era per questo che la gente andava allo stadio e lo acclamava. Così che a un certo punto Winter divenne prigioniero del proprio personaggio. Ormai non c’era neppure più bisogno di una scusa. Semplicemente il pubblico cominciava con quel ritornello WIN-TER WINT-TER FAGLI MANGIARE TUTTI I DENTI e lui lo faceva. Aspettava che la palla passasse dalle sue parti e puntava direttamente le caviglie dell’avversario, e quando quello finiva a terra lo stadio esplodeva in un boato.

Ed è un peccato, come dicevamo, perché le qualità per essere un buon giocatore le avrebbe avute tutte. Era anche intelligente, calcisticamente parlando, cosa che a quei tempi non si poteva dire proprio di tutti. Il gioco era ancora scarno, semplice, basilare, e lui invece arrivava già a vedere geometrie nell’aria. Ma quel suo dannato vizio, quel suo personaggio costruito o che gli si era costruito addosso, appiccicandosi suo malgrado, e quella voce costante WIN-TER, WIN-TER FAGLI MANGIARE TUTTI I DENTI…

A un giornalista che lo intervistò anni dopo chiedendogli il perché del suo abbandono disse: “In quell’ultima partita, in quella semifinale di coppa mi ero fatto sbattere fuori come un coglioncello. Una gomitata in faccia a Larsen. Eravamo dall’altra parte del campo rispetto al gioco. Mi stava passando vicino e io alzai il gomito così. Poi accorsero gli altri e mi ricordo che tirai un pugno a qualcuno, forse Northon, non ricordo. Ero un coglioncello, un vero coglioncello. La gente gridava il mio nome e io facevo il mio numero. Quando tornai negli spogliatoi, rimasi un pezzo seduto sulla panca a guardarmi le mani e continuavo a sentire la gente là fuori che gridava WINTER WINTER e pensai che ero come una foca ammaestrata. Pensai che stavo dando alla pubblico quello che si aspettava da me, ma che quello non ero io. Non potevo essere quella roba lì. Forse sì, all’inizio c’era qualcosa di me, ma poi ero diventato quello che gli altri volevano che fossi. Perché, in fondo, tutto quel che vogliamo è essere amati. ”

E così, spiazzando tutti, e dimostrando di essere quel ribelle che sempre era stato, Winter mostrò il dito al calcio professionistico, e a venticinque anni mollò tutto per iscriversi all’università dove si laureò in letteratura contemporanea e a trentadue divenne professore aggregato di poesia. Molte delle sue opere comparvero in importanti antologie e pubblicò due libri: “La via del bosco” e “I piaceri del giardino di inverno”. Lirismo e delicatezza erano diventate le sue nuove compagne e lo seguirono per tutto il resto della vita.

Brendan Winter è morto ieri, a 87 anni, di enfisema polmonare, e ci piace ricordarlo coi versi di una sua poesia:

Leggera la neve

sulle foglie di quercia

d’inverno

ma più leggeri

sono i miei tacchetti

sulla schiena

del 7 avversario

di Francesco Scarrone

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