If you can’t beat ’em, join ‘em
È il 5 luglio 2016, dopo aver incontrato diversi team NBA, Durant si prende l’Independence Day americano per riflettere, e alla fine scandisce la scelta con un: «Let’s go to Frisco Bay!».
Nella conferenza stampa di benvenuto a KD, l’ala ex Oklahoma viene introdotta come «un Rookie of The Year (2007–08), una medaglia d’oro Olimpica (Londra 2012), un 4-volte miglior marcatore NBA, un 7-volte All-Star, un MVP della lega (2013–14)». Eppure a questo listone dorato manca qualcosa: l’anello tanto agognato, alcune volte quasi raggiunto, altre sfuggito. Ed è proprio quella la direzione in cui è stata presa la sua decisione: Durant vuole vincere l’anello, e a quanto pare non è di suo interesse primario quanto peso possa avere lui stesso, come individualità, nella vittoria.
Molto strano, soprattutto per un modello culturale come quello americano, cristallizzato sull’“One man show”, e soprattutto per un modello sportivo come quello NBA, dove negli anni si sono viste alcune delle più grandi rivalità della storia di ogni sport, basti pensare ai duelli Jordan-Thomas, Bird-Magic senza andare troppo indietro, agli anni del Chamberlain-Russell.
Kevin vuole vincere questo benedetto titolo, e per questo motivo oltre ai soldi che diventano secondari (Oklahoma aveva offerto un rinnovo più sostanzioso), anche il proprio ruolo lo diventa: i Warriors, sia a livello di idolatria che di peso della personalità in campo, sono di proprietà di Curry, ed è difficile che diventino di Durant. Anche se dovessero vincere con un tiro di Durant allo scadere, non sarebbe mai un titolo vinto da KD, quanto piuttosto un anello vinto dai Warriors per manifesta superiorità.
Ma anche se dovesse andare così, sarebbe un anello agrodolce per gli amanti dello sport, poiché avrà penalizzato la competitività, da sempre la peculiarità più inseguita e apprezzata del mondo NBA.
Invece quei Thunder, quelli che avevano iniziato bene la sessione delle trade, quelli del Russel Westbrook leader tecnico ed emotivo del quintetto, e comunque più uomo franchigia di Durant, rimarranno una squadra incompiuta, incapace dell’ultimo passo e per questo abbandonata da uno dei due suoi uomini più rappresentativi.
A tre settimane di distanza, arriva un’altra decisione che va nella stessa direzione sportiva. 27 luglio 2016, il “Pipita” Gonzalo Higuain sbarca a Torino, con un bel gilet nero su maglia bianca, dichiarando di voler vincere la Champions League con la Juventus, dopo tre anni di Napoli e una super stagione da 36 gol in Serie A, con cui ha aiutato la società partenopea a qualificarsi direttamente alla fase a gironi della massima competizione europea.
Ovviamente, la scelta lo porta a subire ogni qualsivoglia maledizione lanciata dai tifosi napoletani, ma di sicuro anche i non-tifosi non possono apprezzare tale decisione, dal punto di vista della morale sportiva. In un campionato in cui la Juventus ha istituito da anni una dinastia, con cinque scudetti consecutivi, dopo aver dimostrato di poter essere competitivi per la vittoria finale e comandato per varie giornate la classifica, riuscendo anche a batterla nel match di andata al San Paolo, tu che sei il simbolo della squadra, che nel 2016 hai dato il nome a decine di nascituri partenopei, cosa fai?
Lasci la barca, per essere sicuro, o almeno più sicuro, di vincere la Serie A, per avere la possibilità di vincere la Champions League. Eppure, per quanto parimenti sconcertante, è una scelta differente da quella dell’abbandono di Kevin Durant.
Innanzitutto, le regole del mercato delle due leghe sono diverse: Durant era libero di scegliere dove andare, Higuain ha “forzato” il mercato, grazie alle parole del fratello-agente, cercando qualcuno che arrivasse a pagare la clausola rescissoria. In secondo luogo, entrambe le ex squadre hanno fatto di tutto per tenerli, Oklahoma offrendo il massimo salariale e un buon roster di contorno per provare di nuovo a vincere il titolo; il Napoli offrendo un rinnovo di contratto a cifre pari se non maggiori di quelle poi accettate nel nuovo contratto con la Juventus, e con trattative per rinforzare la rosa ancora da chiudere, ma ben avviate.
Tuttavia, c’era questa clausola, che il buon Aurelio De Laurentis aveva voluto nel contratto del Pipita. Motivo? Ricavare il massimo da un possibile “tradimento” e magari, in quel caso, evidenziare il tradimento stesso da parte del giocatore, facendo passare in secondo luogo l’ottima plusvalenza dell’affare (90 milioni incassati — 40 spesi per prenderlo dal Real nell’estate 2013 = 50 di ricavo).
In sostanza il presidente del Napoli, lisciandosi i baffi alla Charlie Mortdecai, rispetto ai Thunder ha sicuramente ricavato più soddisfazioni, in quanto società, per l’enorme introito realizzato dall’affare Higuain. Senza contare le pochissime difficoltà incontrate nel far passare il Pipita come “chi si è voluto vendere”.
La morale della favola è che sulla carta avremo due leghe meno competitive per la vittoria finale, con tifosi e addetti ai lavori che si divideranno ancora di più in Lovers&Haters: alcuni ammireranno il gioco del nuovo Dream Team sotto le luci della Baia e altri esulteranno a ogni loro débâcle, mentre da questa parte dell’Oceano, molti grideranno dalla gioia ad ogni passo di tango del duo Higuain-Dybala, e molti altri sogneranno una nuova favola che nel 2017 riporti la magia nel mondo della vittoria a tutti i costi, anche quelli che spezzano i cuori altrui.
Articolo a cura di Matteo Confalonieri