Il Barcellona che non vinse mai la Coppa dei Campioni

Crampi Sportivi
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10 min readJan 21, 2017

C’è un punto in cui le vicende del Grande Torino e quella della (quasi) invincibile nazionale ungherese di Puskàs, Kocsis e Czibor convergono.

Il punto di incontro è il Barcellona del periodo tra anni Cinquanta e Sessanta, il Barça di Làszlò Kubala.

Squadra fortissima, con una macchia soltanto: la sconfitta per 3 a 2 nella finale del 1961 giocata a Berna contro il Benfica. In palio, quella Coppa dei Campioni che quel Barcellona non vincerà mai.

Kubala: l’antesignano del calciatore globe-trotter

Chi è il calciatore blaugrana più carismatico di tutti i tempi? Romario? Messi? Cruyff? No, Kubala: parola della storia ufficiale del Barça.

C’è una parola giapponese che aiuta a illustrare la carriera da calciatore di Kubala. Si traduce con “beneficio” e si chiama kudoku, letteralmente “sradicare il male e far emergere il bene”. Passare attraverso ostacoli di ogni tipo e vincere di fronte alle sfide della vita: se già ai tempi tra i calciatori i tatuaggi fossero stati un semi-must come oggi, c’è da scommettere che, kudoku, Kubala se lo sarebbe fatto incidere sull’avambraccio.

Làszlò Kubala: non esattamente il nome e il cognome che richiamano alla memoria la spiaggia di Barceloneta o le opere di Gaudì.

Il nome di battesimo è ungherese, e infatti è a Budapest che Kubala nasce nel 1927, mentre la famiglia ha diverse origini: ungherese, slovacca e polacca. Un “cosmopolita”, quindi, come si definisce il calciatore stesso.

La vita di Kubala nei primi 25 anni è un continuo spostamento da un paese a un altro. Non perché il nostro sia uno irrequieto: quando arriva a Barcellona, infatti, ci si ferma con piacere per diversi anni.

Il punto è che sono i tempi a essere instabili, specialmente nell’Ungheria di quel periodo: ne abbiamo già parlato in occasione della Honvéd, ma vale la pena fare un ripasso.

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, l’Ungheria rientra nella zona europea di influenza — o meglio dominio — sovietica. Nel giro di tre anni, si passa da libere elezioni alla dittatura comunista di Mátyás Rákosi, fedelissimo di Stalin intenzionato a sbarazzarsi con le buone e più spesso con le cattive di qualsiasi persona possa rappresentare una minaccia al nuovo regime.

Negli anni 1948 e 1949 sono tanti gli ungheresi che, non sopportando il contesto opprimente, decidono di scappare all’estero; uno di loro è proprio Kubala.

Non è la prima volta, peraltro, che il biondo e talentuoso centrocampista lascia Budapest. Dopo aver iniziato nel Ferencvaros, già nel 1946, approfittando delle origini della sua famiglia, Kubala aveva riparato provvisoriamente in Cecoslovacchia, nello Slovan Bratislava, per evitare il servizio di leva obbligatorio in Ungheria.

Fa ritorno a Budapest per un anno per giocare nel Vasas, disputa qualche partita con la nazionale magiara dopo aver esordito anche in maglia cecoslovacca e poi, vista la brutta aria che tira, decide di prendere la via dell’Italia.

“Ma vattene nella Pro Patria!” E quasi stava per accadere davvero…

“Vai a giocare nella Pro Patria!” Quando ero piccolo, mio papà, avendo timore per la mia incolumità tra i tifosi più accesi, mi portava nei Distinti.

E tale settore, come suggerisce il nome, si distingueva per due cose. La prima era il mugugno — siamo genovesi: noi riusciamo a trovare quello che non va anche nella Gioconda di Leonardo. La seconda era una certa coloritura negli insulti, magari meno diretti dei “vaffanzum” e “figlio di poiana” provenienti da altre aree dello stadio, ma comunque di rilevante caratura creativa…

Ora, non ricordo a chi fosse indirizzato quel “Vai nella Pro Patria”. Fatto sta che la frase mi è rimasta in mente come un qualcosa da dire a qualcuno che al pallone da calcio non sa dare del tu.

Con ogni probabilità, il tifoso che la pronunciò non aveva una grande memoria storico-calcistica. Ne avesse avuta di più, avrebbe saputo che uno dei fuoriclasse più grandi di sempre ci stava veramente per giocare nella Pro Patria. L’avrete indovinato: sto parlando di Làszlo Kubala.

Sì perché il nostro, che avevamo perso a causa delle mie parentesi prolisse, alla fine in Italia ci è arrivato, nel gennaio del 1949.

Come farebbe qualsiasi rifugiato che non ha contatti e che non parla una parola della lingua del paese di destino, si dirige verso un posto nel quale vivono due suoi compatrioti, Istvàn Turbeky e Jeno Vinyei, già di casa a Busto Arsizio, con la Pro.

C’è però un problema, e per uno che fa il calciatore professionista non è un problema da poco: si chiama FIFA, la quale ha squalificato Kubala intimandogli di tornare nel suo paese d’origine, se davvero ci tiene a giocare. L’Ungheria dal canto suo lo dichiara fuorilegge in quanto renitente alla leva — oltre a un po’ di altre cose montate per dargli addosso.

Siamo ancora lontani dal tempo di Passaportopoli e delle cittadinanze distribuite come caramelle a scolaretti durante una ricreazione. L’Italia è terra di mezzo molto delicata: in mano ai democristiani filo-americani, è comunque il paese occidentale con il Partito Comunista più forte. La tensione è alta per qualsiasi foglia si muova, figurarsi se di mezzo c’è la figura di un calciatore dall’avvenire così promettente come Kubala.

Fatto sta che il presidente della Pro Patria ci prova in tutte le maniere, chiedendo anche una benevola intercessione da parte di Palmiro Togliatti, segretario del PCI, ma niente da fare: la squalifica di almeno un anno resta.

Nel frattempo, però, Kubala ha attirato su di sé l’interesse di altri club: uno fra tutti il Torino di Ferruccio Novo, che lo tenta e che lo vorrebbe come ciliegina su una torta già degna del numero uno dei pasticceri.

Sapendo, purtroppo, qual è stato il destino di quel Torino, quelli che fino ad allora erano stati frustranti ostacoli burocratici e diplomatici si rivelano per Kubala quella che in inglese si definisce blessing in disguise, una “benedizione mascherata”.

Hungaria

Per tirare su qualche soldo e continuare a giocare, nel 1950 Kubala si sposta allora a Roma, dalle parti di Cinecittà, diventando elemento di spicco di Hungaria, squadra di rifugiati provenienti dai paesi del blocco comunista, nella quale figurano anche membri di altre nazionalità.

Il team sbarca in Spagna trovando un contesto politico ben diverso da quello italiano. Il dittatore Francisco Franco sta infatti intessendo alleanze con i paesi della NATO e poter accogliere un rifugiato da un paese del Patto di Varsavia come Kubala può avere interessanti risvolti propagandistici. Tra l’altro, sarà questa una delle ragioni per cui verrà prodotto un film che ha per protagonista Kubala nel ruolo di se stesso — al netto della passione per gli alcolici — in fuga dai comunisti. Los ases buscan la pàz è il titolo, nel caso vi interessasse arricchire la vostra cineteca con questa chicca.

Non passa molto prima che sul fuoriclasse ungherese-slovacco si posino gli occhi del Real Madrid, ma non solo. Ad accorgersi del suo talento è Pepe Samitier, grande ex-giocatore poi diventato prima allenatore e poi dirigente del Barça.

Samitier agisce su due fronti per assicurarsi le prestazioni di Kubala: quello politico, arrivando ad avere uno sconto sulla squalifica, e quello “godereccio”. Al primo aspetto abbiamo già accennato e comunque è il secondo quello più succoso da approfondire.

Come anticipato poche righe fa, Kubala non è esattamente uno che si tira indietro quando c’è da trangugiare qualche bicchiere. Samitier lo sa e in un momento di scarsa lucidità del ragazzone biondo lo infila su un treno per Barcellona. Una volta in Catalogna, il gioco è fatto.

Sono anni di colpi bassi tra Real Madrid e Barça e le merengues ripagheranno con la stessa moneta i rivali soffiando loro un certo Alfredo Di Stefano con il placet del governo spagnolo, poco incline a vedere due dei tre o quattro più forti del mondo insieme nella squadra anti-franchista per eccellenza…

In tutto questo, prima ancora di poter scendere in campo, Kubala ha strappato un contratto faraonico per l’epoca e ha fatto ingaggiare ai catalani come allenatore il suocero Ferdinand Daučík, tecnico cecoslovacco.

Per Kubala uno stadio tutto Nou

Correva l’anno 1951 e da lì per altre dieci stagioni Kubala scrive a Barcellona pagine che entrano nella leggenda del calcio. Non è l’unico fuoriclasse della squadra: tra i pali, per esempio, i blaugrana schierano Antoni Ramallets, soprannominato El Gato del Maracanà per le grandi prestazioni sfoderate ai Mondiali del 1950 in Brasile. Davanti invece gioca Estanislao Basora, uno dei migliori calciatori iberici di sempre, mentre in mezzo al campo a partire dal 1954 si aggiungerà un certo Luisito Suàrez.

Il leader però è lui, Kubala. Biondo, bello, dal fisico possente, elegante e tecnico: si sono viste persone più sfortunate di lui nella storia.

Kubala gioca in mezzo al campo, ma segna, fa segnare e spesso tira i rigori facendo una pesadinha, quella piccola frenata prima di calciare che manda la palla in fondo al sacco e il portiere con le gambe all’aria. Il pubblico va in visibilio, le donne non ne parliamo… Ed ecco che a Barcellona si presenta un problema mica da ridere.

Il campo di Les Corts è troppo piccolo, non riesce a contenere le folle che vengono, sì, a vedere tutto il Barça, ma attratte soprattutto dalla stella più luminosa del firmamento blaugrana.

E’ per accogliere la gente che vuol vedere Kubala, si dice, che è stato costruito il Camp Nou: mica male per uno che ha passato parecchi anni della gioventù a scappare da un paese all’altro.

Il Barça degli ungheresi

Simile destino tocca alle altre due gemme che impreziosiscono il Barça di fine anni Cinquanta. Sàndor Kocsis e Zòltan Czibor sono rispettivamente il goleador e l’ala di Aranycsapat, la squadra dei potenti magiari che domina la scena internazionale. Qualche anno dopo le vicissitudini attraversate da Kubala, anche loro decidono di non tornare a Budapest, dove se possibile la situazione è ancora peggiore che nel 1948.

Nel 1956, infatti, nella capitale sono entrati i carri armati sovietici a ristabilire l’ordine con la violenza e con il sangue — tra gli applausi provenienti dall’Italia di un giovane Giorgio Napolitano — dopo una rivolta della popolazione che chiedeva libere elezioni e un affrancamento dal regime comunista di Mosca.

In un percorso in tutto e per tutto simile a quello di Kubala, Czibor e Kocsis prima provano la strada dell’Italia e poi, visto il perdurare della squalifica, riparano in Spagna, sponda blaugrana, convinti dal loro ex-compatriota.

Se Kocsis è un tipo più riservato, il minuto Czibor fa invece presto a diventare compagno di Kubala anche nelle notti danzanti e festaiole di Barcellona.

In effetti, tirare avanti fino alla madrugada, le prime luci dell’alba, è uno sport popolare tanto quanto il calcio dalle parti della penisola iberica.

La maledizione di Berna

Nell’era Kubala, la squadra vince tutto: 4 Liga, 5 Coppe di Spagna e 2 Coppe delle Fiere, la “nonna” dell’attuale Europa League. E’ in Coppa dei Campioni, però, che le cose non vanno. Troppo specialista della competizione è l’odiato rivale Real Madrid, che vince le prime cinque edizioni di fila al ritmo dei gol di Di Stefano e Puskàs, l’altro grande ungherese rifugiato in terra spagnola.

Le cose, però, sembrano finalmente cambiare all’alba del nuovo decennio. Stagione 1960–61: agli ottavi di finale, per la prima volta, il Real è eliminato dal torneo più importante e il merito è del Barça.

Seguono due turni in cui il Barcellona asfalta gli avversari di turno fino alla finale contro il Benfica, dove i catalani arrivano da favoriti, anche perché i portoghesi non possono ancora schierare la loro pantera nera, Eusebio.

C’è, però, un però: la partita si deve giocare al Wankdorf Stadion di Berna. E quindi? E quindi, quello è lo stadio in cui sette anni prima Kocsis e Czibor, da stra-favoriti, hanno perso la finale del Mondiale contro la Germania Ovest. Se si fosse rigiocata venti volte, quella partita l’avrebbero vinta i magiari altrettante volte.

Lo stesso discorso si potrebbe fare anche per quella finale di Coppa dei Campioni. Il Barcellona prende un gol bizzarro, con Ramallets incerto su uno strano colpo di testa a campanile — una di quelle palle che hanno la parola “Destino” marchiata a fuoco sul cuoio. Nel Benfica la maglia numero 10 è sulle spalle di Coluna, che quel giorno è imprendibile e si inventa un gol da fuori del 3–1 di rara potenza e precisione.

Czibor segna il 3–2 e i blaugrana le provano tutte per pareggiare, ma evidentemente, dopo avergli concesso tanto negli ultimi anni, il Fato è arrabbiato con Kubala, peraltro sceso in campo in condizioni non perfette. Il suo tiro da fuori area è una stoccata micidiale, ma la palla sbatte prima su un palo, poi su un altro… E non entra.

Ci vorranno 28 anni prima che il Barça possa sollevare al cielo un trofeo europeo in quel maledetto Wankdorf Stadion di Berna: è la Coppa delle Coppe. Ce ne vorranno 32 prima di sollevare a Wembley la prima Coppa dei Campioni, che nel frattempo ha cambiato nome in Champions League.

A dover ingoiare a forza un amaro aBerna e a versare le lacrime della sconfitta a Londra è, in entrambe le occasioni, la Sampdoria di Vialli e Mancini. Per la tristezza inconsolabile del bambino che era chi vi scrive e per la tristezza di quel tifoso doriano che oggi, viste le ombre più che le luci della Samp degli ultimi anni, “Vai a giocare nella Pro Patria” lo urla a uno dei suoi.

A cura di Daniele Canepa

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