Il bisogno di sentire il viaggio. La Milano-Sanremo d’epoca
La bicicletta è sempre un ritorno. Mai un arrivo. È, come diceva Gianni Brera, non l’invenzione del nostro ingegno ma la scoperta del nostro comune bisogno. Di andare, partire e sempre e comunque tornare. E’ un’esigenza antropologica quella di appigliarsi a radici ben salde, soprattutto in tempi incerti e spesso privi di senso.
Son partiti da Binasco, a mezzanotte, alla volta di Sanremo, come i pionieri. Quelli che partivano di notte e arrivavano di notte. Quelli che partivano per fame, per spirito d’avventura o più semplicemente per vocazione. Una cinquantina di cavalieri erranti, pellegrini bestemmianti. Simbolo ed immagine dell’incomprensibile e romantico viaggio senza meta che è la vita.
È la classicissima d’epoca, quinta edizione. Biciclette rigorosamente anni ’30. Vestiti pure. Qualcuno sfoggia anche un fascio littorio: pura immedesimazione storica. La notte è di quelle stellate, e già qualcuno ringrazia i santi ricordando la pioggia incessante dell’anno prima. Giurano che sarebbero partiti anche con la neve, niente Extreme Weather Protocol. A fare da apripista, come se non bastasse, una Chevrolet d’epoca, con attaccato dietro uno striscione orgoglioso: Milano-Sanremo. La banda suona l’inno di Mameli. Uno sparo e si parte, a macinar la strada: avanti nello spazio, indietro nel tempo.
Il manipolo di corridori, è variopinto e variegato. Stilisticamente impeccabile. Maglie di lana, a righe, nere, bianche, gialle, verdi, rosse. Caratteri e sponsor tipicamente d’antan. Tutto è molto vintage. Ma non è un vintage da museo preconfezionato. E’ vivo, pedala, suda, impreca, soffre e ride. Si va dai diciotto alle più venerande età. Tutta Italia: Forlì, Parma, Milano, Padova, Cervia, Grosseto. Ma anche Svizzera, Bellinzona. E soprattutto direttamente da oltremanica, precisamente da Burnham on Crouch, Inghilterra, Graeme Platman in gruppo meglio conosciuto come Fish and Chips. Ognuno porta sul volto la propria strada. Chi le strade bianche della Toscana che si arrampicano su colline arate, chi le dritte lingue di cemento che attraversano la pianura padana, chi il vento e le onde di qualche lungomare d’inverno. C’è anche Simone Lamacchi che buca due volte nei primi 10 km. Qualcuno pare l’abbia visto addentare il palmer bucato nel tentativo di sostituirlo come Alfredo Binda. C’è Carlo Delfino, il profeta, peso massimo e medico, passione sconfinata per la storia e per la bicicletta che con un megafono enorme e occhiali da aviatore gestisce il gruppo. Doveva assomigliare a lui il «Granida», gestore di una bancarella che vendeva ghiacciate al tamarindo in Piazza d’armi a Milano a fine ‘800, primo e vero organizzatore di corse in bicicletta. C’è anche Stefano Franceschini, l’artista, con baffi lunghi alla Luigi Ganna.
Il gruppo sfreccia alla modesta media di 20 km/h. Passaggio a Pavia; rifornimento e controllo firma a Tortona e Ovada. Alle 6:30, quando il cielo inizia a farsi chiaro, il gruppo attacca il passo Turchino. Peter Sagan sta ancora dormendo, Chris Froome probabilmente si sta allenando. Il primo a dare una strigliata al gruppo è El Dutur, Luca De Ponti, che tenta l’allungo. Chiude subito Fausto Delmonte detto Il Parmigianino. Quando le pendenze iniziano a farsi più serie ed il giorno riesce ad imporsi, Marco Serpellini, che 12 anni di professionismo evidentemente non gli son bastati, rompe gli indugi e inizia a fare selezione. Gli sta dietro solo lo stoico Mirko Cominini detto Wall Street. I due arrivano insieme, da soli, in cima al Turchino. Terza sosta, foto di rito e il gruppo compatto imbuca la nuova galleria. E’ l’amarcord che si infila nel progresso.
Quando il sole è alto si inizia a scendere verso valle e Roberto Zambuten Zauli, complice l’inadeguatezza tecnica del suo mezzo, si esibisce in frenate magistrali con la suola delle scarpe. Voltri, Finale Ligure, Alassio, Sanremo. Detta così sembra facile, ed invece sono 285 kilometri, 15 ore, su una decina abbondante di chili di acciaio. Il contatto con l’umanità appena sveglia è ciò che fa comprendere il senso di questo viaggio. Nelle soste di ristoro, una festa di persone attornia questi personaggi che sembrano usciti da un passato remoto.
È una situazione paradossale. I più anziani sorridono, rivedono i miti della loro infanzia: Gerbi, Pavesi, Binda, Girardengo; conoscono tutte le biciclette, gli ingranaggi, i meccanismi. I più giovani sono affascinati da questa specie di carovana in maschera. Questa congiunzione di generazioni è impressionante: un ritorno al passato che si proietta al presente. È il desiderio di aggrapparsi a qualcosa che non c’è più, ma di cui si ha necessariamente bisogno. È la Francia di Zola o la Sicilia di Verga. È i bar-tabacchi delle stazioni di paese. È un forte impulso a non far tramontare l’ultima magica favola che resiste alle forze del progresso. Quel magico marchingegno che doveva morire cento anni fa, quel ferrovecchio chiamato bicicletta che doveva sparire, soppiantato dall’era aurea dell’automobile. E invece questo bisogno di rimanere attaccati per terra, con un solo instabile centimetro di gomma a separarci dal suolo ha resistito.
È il bisogno di sentire che il viaggio è causa della nostra fatica. «Lo dobbiamo ai nostri predecessori», dice Galet Davide Segalini, «capitano» degli eroici e buon passista. E così scriveva Dino Buzzati sulle pagine del Corriere della Sera alla conclusione del Giro d’Italia del 1949, manifesto di questi strampalati velocipedisti:
No, non mollare, bicicletta. Se tu capitolassi, non solo un periodo dello sport, un capitolo del costume umano sarà finito, ma si restringerà ancor più il superstite dominio dell’illusione dove trovano respiro i cuori semplici. A costo di apparir ridicola, salpa ancora, in un fresco mattino di maggio, via per le antiche strade dell’Italia. Noi viaggeremo per lo più in treno-razzo, allora, la forza atomica ci risparmierà le minime fatiche, saremo potentissimi e civili. Tu non badarci, bicicletta. Vola, tu, con le tue piccole energie, per monti e valli, suda, fatica e soffri. Dalla sperduta baita scenderà ancora il taglialegna a gridarti evviva, i pescatori saliranno dalla spiaggia, i contabili abbandoneranno i libri mastri, il fabbro lascerà spegnere il fuoco per venire a farti festa, i poeti, i sognatori, le creature umili e buone ancora si assieperanno ai bordi delle strade, dimenticando per merito tuo miserie e stenti. E le ragazze ti copriran di fiori.
Alle 17, sul traguardo di Via Roma di Sanremo arriva il gruppo dei professionisti. Bici iper-galattiche. Tute ultra-leggere, ultra-aderenti, ultra-areodinamiche. Radiolina ben piantata nelle orecchie per essere telecomandati dall’ammiraglia che li segue sfrecciando compulsivamente. Arnaud Démare vince, approfittando di una caduta che mette fuori dai giochi i favoritissimi e con una volata di 300 metri, impresa fisicamente sublime. I corridori rientrano furtivamente sui pullman delle squadre, neanche il tempo di accorgersi che sono arrivati. E poi le polemiche perché pare che Démare si sia attaccato all’ammiraglia sulla Cipressa. Chissà se è vero. Ci sono i dati Strava, poi tolti, delle presunte foto, accuse, smentite, precisazioni. Se le porterà via il vento. Il mondo cambia e bisogna farsene una ragione, ma è evidente che quel gruppo stride con l’immagine degli intrepidi pionieri ormai arrivati da qualche ora.
Dov’è finita l’avventura? Dov’è finito il contatto con la gente? Dove sono finiti i fiaschi di vino, la sigaretta post-arrivo di Nencini, gli scalatori che vincono la Sanremo? La gente però è ancora lì, festante. Qualcuno si è addirittura travestito da Superman per spingere verso la vittoria il giovane Bonifazio. La gente è ancora lì, seduta ad un paracarro ad aspettare intrepida. Ed è solo questo forse quello che conta. Ma è chiaro che è lì perchè tutto ciò assomiglia a quei pionieri partiti da Binasco la notte prima.
Articolo a cura di Riccardo Spinelli