Il Calcio come Estetica dell’Imperfezione

Crampi Sportivi
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8 min readOct 15, 2013
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Il 23 Marzo a Denver nevica come se non ci fosse un domani. Le condizioni atmosferiche sono prossime alla modalità Fine del Mondo. Ciò non toglie che l’incontro di calcio Stati Uniti-Costa Rica debba essere disputato ad ogni costo. Dempsey — l’unico dei giocatori a non soffrire di labirintite — segna un gol brutto e miserabile, gli U.S.A. vincono e scoppia un mezzo caso diplomatico. Il Costa Rica, abituato a condizioni atmosferiche tipo queste, chiede di rigiocare la partita. Naturalmente gli Stati Uniti, che hanno la sana abitudine di bombardare stati ben più pericolosi del Costa Rica, se ne sbattono e il caso si chiude lì.

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Il 17 marzo a Torino nevica forte, anche qui si evocano parole esotiche come Blizzard. Eppure si ritiene di giocare lo stesso un Torino-Lazio dal risultato estetico sconfortante. Come potete immaginare il campo ha stessa giocabilità di un locale di Santorini il sabato dello Schiuma-Party. Ciani — difensore di 130 chili della Lazio — si fa espellere nel giro di un quarto d’ora e la partita trascorre serenamente in 87 minuti di brutto, bruttissimo nulla. Al termine di questo nulla Jonathan batte un colpo — uno che gol non sa manco come si scrive, uno che, tradizione vuole, può segnare giusto alla Roma — e inchioda il risultato su un uno a zero che, per me romanista per l’appunto, ha il semplice gusto della partita perfetta.

I tifosi della Lazio rosicano e quelli della Roma sfottono: “è colpa daa neve”, rimbalza sugli stessi meme fatti a parti inverse non so quante volte.

È infatti ormai tradizione consolidata che la Roma debba giocare almeno 4 partite a stagione in condizioni atmosferiche pazzesche che a riguardare gli highlights a fine stagione sembra che per un paio di mesi la serie A si sia spostata in Estonia. Regola non scritta è che poi queste partite la Roma le debba perdere tutte (a onor del vero c’è una clamorosa eccezione: una rimonta sull’atalanta sigillata da un gol di Torosidis di testa, a conferma dell’eccezionalità quasi mistica dell’evento).

In ogni caso, una partita giocata in condizioni estreme, porterà invariabilmente una delle due squadre a rosicare e l’altra a benedire tacitamente nostro signore.

In genere succede che la squadra tecnicamente più scarsa delle due accoglie neve e naufragi biblici come una vera manna dal cielo: la partita diventa arcigna e spigolosa come la battaglia di Stalingrado e il calcio, in definitiva, diventa un altro sport nel quale per vincere ti serve in squadra gente tipo Migliaccio e dei tacchetti molto affilati. Eppure si gioca. A condizione che ci sia visibilità o che la palla rimbalzi (e sul concetto di “rimbalzare” le scuole di pensiero sono abbastanza variegate) si gioca. Nonostante il calcio diventi uno sport bruto e volgare, si gioca. Perché?

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Questo post prende avvio da questa domanda, nella consapevolezza che la risposta toccherà alcuni problemi complessi della natura costitutiva del calcio.

R. Caillos — noto sociologo e biscazziere francese — ha categorizzato i giochi secondo quattro tipi: Agon, Alea, Mimicry e Ilinx. Di queste quattro categorie a noi interessano le prime due. L’Agon sarebbe il gioco basato puramente sulla competizione, le regole intendono favorire la creazione delle stesse condizioni di possibilità per tutti i partecipanti. Questi partecipanti devono confrontarsi sulla base di qualità prestabilite in partenza che dovranno essere rispettate e salvaguardate da condizioni esterne: per dire, se il gioco è basato sulla scaltrezza intellettuale (come negli scacchi) non è che a un certo punto interviene un imprecisato fattore Culo a perturbare il regolare svolgimento della competizione (tipo che l’alfiere avversario prende improvvisamente vita e ti squarta il cavallo). La regolamentazione di questi giochi è basata allora sulla salvaguardia delle condizioni che fanno sì che quel gioco sia Esattamente quel gioco, senza che un qualche fattore esterno possa improvvisamente e inaspettatamente intervenire a turbare delle condizioni che debbono costitutivamente rimanere immutabili.

Un esempio di un gioco che fa totalmente riferimento a questa categoria è il Tennis. Nel Tennis le condizioni di gioco devono essere prestabilite e devono rimanere tali nel corso della competizione. Certo, la superficie sulla quale si gioca può cambiare, esaltando o frustrando le singole abilità dei giocatori, ma la superficie prestabilita dovrà mantenere determinate condizioni. Se a un certo punto inizia a piovere, dico che se inizia semplicemente a sgocciolare, la partita è sospesa perché le condizioni di partenza sono turbate e con loro la natura stessa del Tennis. Vi sarà forse capitato di vedere, in alcuni frangenti, dei giocatori che protestano con l’arbitro per continuare a giocare, ma lo fanno perché il Tennis è un gioco molto più psicologico di quanto si pensi e un giocatore in una situazione favorevole vorrà ad ogni costo “battere ferro finché è caldo”, e in ogni caso l’arbitro non sente mai ragioni e massimo alla sesta goccia sospende il match. (Una piccola eccezione può essere fatta per il fattore vento, di cui parla in abbondanza, ma esagerando, DFW).

Estendendo il discorso a situazioni anche non atmosferiche, la natura di Agon del Tennis è messa al riparo da qualsiasi intervento esterno che possa puzzare di arbitrarietà: per questo si fa di tutto per minimizzare il ruolo dell’arbitro. Ci sono giudici di linea e un arbitro di sedia (una sorta di entità suprema all’apparenza, in realtà un mero ed elegante indossatore di polo griffate) ma il loro giudizio può essere sempre smentito dall’intervento della moviola che può in ogni momento cambiare una loro decisione. Non esiste arbitrarietà: esiste solo un gioco la cui totale immanenza e chiusura deve essere rispettata ad ogni costo. Questo meccanismo, per cui le condizioni di gioco sono più o meno sempre uguali a sé stesse, aiuta il fruitore a non sviluppare alcun tipo di tensione: ecco perché il Tennis riesce, tuttora, a mantenere pulita la propria fama di gioco per galantuomini. Se alcun fattore esterno può determinare l’andamento del gioco allora la competizione si sarà svolta nel massimo della correttezza possibile e il risultato non può che essere ineccepibile: nessuno può rosicare. Quello che si svolge sempre, in ogni partita, in ogni contesto, in ogni situazione dell’anno, è sempre e solo Tennis.

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Beh, quanto siamo lontani da tutto ciò nel calcio? Possiamo davvero dire che Torino-Lazio e una partita giocata a maggio, con 25 gradi, alle 5 del pomeriggio, su un manto erboso regolare, siano manifestazioni di uno stesso sport?

Arriviamo qui alla seconda categoria teorizzata da Caillois, quella dell’Alea. I giochi che fanno riferimento a questa categoria si fondano su una decisione che non dipende dal giocatore e sulla quale egli non potrà che fare la minima presa; si tratta di giochi ove non conta tanto vincere sull’avversario quanto sul destino: esso è il solo artefice della vittoria. L’Alea, rispetto all’Agon, nega il lavoro, la regolarità, l’allenamento: essa è un’abdicazione della volontà, un abbandono al destino.

Bisogna subito sottolineare che Caillois non aveva pensato queste categorie come compartimenti stagni, bensì come una sorta di struttura con quattro poli tensivi: il calcio è nel mezzo tra i poli dell’Agon e dell’Alea, mettiamola così. È uno sport fondato sulla competizione, ove conta vincere basandosi sulle proprie abilità, ma allo stesso tempo può sempre pervenire un fattore esterno (un arbitro, un temporale, una tormenta, un portiere della Roma) a perturbare il regolare svolgimento della competizione. È un misto tra culto del lavoro, della competizione e improvvisa e faustiana sfida agli dei.

Nel Calcio, insomma, è contemplato che possano esserci degli elementi incontrollabili che vengano a modificare le condizioni della gara, e che modifichino quindi la struttura del gioco in sé.

Dunque, a meno che non si veda a un palmo di mano (e nemmeno è detto, ripensando a U.S.A.-Costa Rica), la partita si gioca. A meno che il pallone non faccia acqua planning, la partita si gioca.

È sempre per queste ragioni che le decisioni dell’arbitro fanno riferimento a un sistema di giustizia molto labile, imperfetto e sostanzialmente basato sull’arbitrarietà; questo fa sì che, come evidenzia Dal Lago, nel calcio si vadano a scontrare varie sfere di giustizia, tutte arbitrarie e non in grado di configurare uno standard di Regolarità della competizione. Purtroppo approfondire questo discorso ci porterebbe lontani da quello che vogliamo sostenere qui, cioè che il calcio si gioca in condizioni imperfette e sempre mutabili.

Ogni partita fa un po’ storia a sé, presenta una configurazione di possibilità sempre diversa e questo, in qualche modo, c’entra con la bellezza del calcio. Una partita persa perché una pozzanghera ha fermato un tiro sbilenco trasformandolo in un comodo assist, fa rosicare. Un pareggio subito al novantesimo con un gol in fuorigioco di due metri, fa rosicare. Ma il calcio è questo, è arbitrarietà delle regole, perturbabilità delle condizioni, interventi divini peggio di deus-ex-machina euripidei.

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Per tutti questi motivi il calcio è uno straordinario generatore di tensione, quindi di emozioni incontrollabili. Certo, ci sono mille altri motivi perché lo è e perché è, in definitiva, lo sport più amato del mondo (e spero che questo blog, con calma, li esplori tutti questi motivi), ma l’imperfezione della sua struttura agonistica è certamente uno dei principali.

E questo elemento, questa struttura così labile e imperfetta rimandano alla natura essenziale del gioco. Gioco significa libertà all’interno del rigore. Il gioco è un movimento garantito dal fatto che i tasselli di una struttura non si incastrino tutti perfettamente; il gioco è quello spazio imperfetto della struttura che garantisce che questa non si blocchi, assicurando respiro e movimento: gioco. Lo stesso Caillois specifica: “se questo gioco è un rigido assemblaggio e perfetta orologeria interviene un secondo fattore di elasticità e movimento”.

L’incombenza di fattori esterni, atmosferici o arbitrali, intervengono a creare elasticità.

È questa natura di struttura monca e imperfetta allora che garantisce il gioco, il movimento e, in definitiva, la presa estetica.

Il calcio, come la vita, è estetica dell’imprevedibilità, dell’imperfezione inconsciamente calcolata per generare senso. Il calcio è il fascino delle cose storte: è Salas che sbaglia il rigore a causa di Maspero, è il gol fantasma di Germania-Inghilterra del ’66, è — ovviamente — la mano de dios di Dieguito.

E davvero: non c’è cosa più bella.

Emanuele Atturo Semiologo scarso, fantasista discreto, ha giocato una vita a Tennis per potersi raccontare di un talento calcistico inespresso. Vive e studia a Bologna, dove si fa venire i crampi collaborando per Atlas Magazine @Perelaa

I dipinti allegati al pezzo sono di Alberto Savinio

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