Il calcio in primo piano, ma oggi troppo lontano — Incontro con Darwin Pastorin
Caro Darwin, dato l’ammontare di sempre nuovi contenitori sportivi sia in televisione che sul web, troviamo che il desiderio di narrare e sentir narrare di sport da un punto di vista analitico e approfondito sia cresciuto esponenzialmente rispetto a qualche anno fa, in cui la materia sportiva veniva considerata cultura solo in alcuni casi, prevalentemente letterari. Perché si narra di sport, oggi come allora?
Si narra di sport, è vero. Con molta intensità, con diversi bagliori, con il recupero, soprattutto, di sottili e intriganti memorie. Ma la quantità regna sovrana, più che la qualità. Oggi in troppi scrivono di sport, pubblicano, e ancora pubblicano, ma il risultato è, spesso, sconfortante. Accade la stessa cosa con la poesia. Le librerie sono stracolme di poeti: ma quelli bravi, bravi davvero, sono pochissimi. Aveva ragione Benedetto Croce, citato spesso dal grande De Andrè: “Fino ai diciotto anni tutti scrivono poesie. Dopo quell’età, a farlo sono soltanto i poeti o i coglioni”. Tra l’altro, per evitare di scivolare nella seconda categoria, io non scrivo versi. Amo le poesie (il mio Guido Gozzano!), ma come semplice lettore. Il web, poi, è fonte quotidiana di scoperta o di inganno. Le “trappole” estetiche e stilistiche sono all’ordine del giorno. Ma voi, ad esempio, rappresentate un’eccellenza. Benedetti “Crampi Sportivi”!
Ecco, ora siamo ufficialmente Crampi Arrossiti. In ogni caso, è difficile non provare a storicizzare, e fare una riflessione su cosa significhi essere appassionati di narrazione sportiva in un periodo buio, sia dal punto di vista sociale che culturale, come quello che stiamo vivendo. Può essere che proprio perché sentiamo vicino un baratro cerchiamo nello sport il conforto di chi ha trovato nell’impresa agonistica la linea di congiunzione perfetta tra il suo io storico e quello sociale? O che cerchiamo nella materia sportiva l’epica che non troviamo altrove? Come una sorta di Achille al contrario, che man mano che il destino si avvicina a passi veloci preferiamo farci narrare le gesta altrui per capire chi siamo stati.
Ogni stagione possiede una sua narrazione. D’altra parte, come ci insegna lo scrittore combattente Luis Sepúlveda, “raccontare è resistere”. Nei momenti bui, ci rivolgiamo soprattutto alla memoria epica, a quelle storie senza tempo, in grado di portarci conforto o riflessione. Trovo difficile, a essere sincero, narrare il calcio di oggi: gli atleti sono diventati divi hollywoodiani, fanno “storie” più che storia. Nel senso che si lamentano, non amano svelarsi, nascosti dietro i loro personaggi “copertina”, le loro cuffie stereo, la geografia di tatuaggi. Diventano ricchi subito, e il vederli spesso — la televisione entra ora anche nelle viscere, un tempo sacre, dello spogliatoio — li mette, in maniera ossessiva, in primo piano, rendendoli, così, paradossalmente, lontani. Sono “oggetti” e non “soggetti”. Non sono circondati dal mistero. D’estate poi, eccoli su spiagge da mille e una notte, su imbarcazioni da sceicchi, quotidianamente sorridenti sui loro profili social.
Un tempo, potevamo soltanto immaginarli attraverso le cronache salgariane della radio o vederli nei “riflessi filmati” della Domenica Sportiva, nelle rare interviste. Io ho avuto la fortuna di raccontare due “eroi tragici”, omerici, il portiere Moacyr Barbosa, diventato un emarginato, un invisibile dopo la sconfitta del Brasile al Maracanã nella partita decisiva del Mondiale del 1950 contro l’Uruguay di Obdulio Varela, e l’ala destra Mané Garrincha, l’angelo dalle gambe storte finito nelle liriche di Carlos Drummond de Andrade, Edilberto Coutinho e Jorge Amado.
A questo proposito, quanto è forte il rischio di andare a cercare, magari anche di inventare. epica sportiva laddove non ce n’è alcuna lontana traccia? E quanto è più difficile trovare chiavi di lettura “altre” oggi, soprattutto nel caso del calcio, quando appunto le esigenze economiche e produttive di una macchina sempre più esclusiva e spettacolarizzata contribuiscono all’ansia del risultato, mettendo in secondo piano il gioco e in alcuni casi anche la chance di una competitività leale?
Il calcio si è fatto industria, affare, merchandising. Il mito del giocatore bandiera sta crollando, sono rimasti pochi reduci. I social moltiplicano la conoscenza, ma che di fatto è effimera. Si mostra il “tutto” per raccontare il “niente”. Diventa difficile oggi essere, come ci indicava Giovanni Arpino, “bracconieri di storie e personaggi”. Dov’è il terzino destro che ha disputato una sola partita in serie A, ma la racconta tutti i giorni al bar del paese? Dov’è il mediano di spinta che, in quella domenica d’autunno, non fece toccare palla a Gianni Rivera? Dov’è il centravanti che sembrava Gigi Riva o Pietro Anastasi per via di quell’unica rete, per giunta in rovesciata, al suo esordio in campionato? Oggi le favole le scrivono gli islandesi. Gli eroi romantici dell’ultimo Europeo. Ed è anche per questo che sono alle prese con gli autori di quella formidabile isola: Audur Ava Ólafsdóttir e il bravissimo giallista Arnaldur Indridason. E quando sono nato io, nel 1955, a vincere il Premio Nobel per la Letteratura fu un islandese: Halldór Laxness.
Quali differenze noti tra questo periodo di rinnovamento, se così di può definire, della narrazione sportiva e quello in cui hai iniziato tu? Al di là della maggiori difficoltà di investimento in progetti editoriali. Hai mai immaginato in quali contesti scriverebbero Darwin Pastorin o Gianni Mura, se iniziassero oggi la loro carriera?
Ho avuto la fortuna di cominciare la mia carriera, agli inizi degli Anni Settanta, quando i giornali sportivi avevano addirittura, vedi Tuttosport, la “terza pagina”: dove ogni giorno potevi trovare il racconto, la bella intervista, l’inchiesta, la poesia. Per scrivere dovevi andare sul posto, non poteva aiutarti il web e, spesso e volentieri, dettavi tuoi pezzi a braccio, cioè al telefono, sfogliando velocemente gli appunti, stando attento ai condizionali e ai congiuntivi. I quotidiani chiudevano presto le prime edizioni! C’era un mondo da scoprire, e che facevi scoprire ai lettori.
Oggi, nel mio piccolo, ho approfondito il rapporto tra calcio e letteratura. E in tv ho fatto realizzare, durante le mie varie direzioni, dei docufilm che sono stati elogiati dalla critica. Come uno speciale sulla pallapugno firmato dal regista Teo De Luigi, che aveva lavorato con Sergio Zavoli. L’io narrante era lo scrittore Nico Orengo, partito dal Torino, con il trenino per le Langhe, per andare a pranzo a casa di un campione di Alba. Poi, le testimonianze su quello sport di nicchia tratte dalle pagine di Fenoglio, Pavese e Arpino. Potevamo farlo: perché eravamo a Sky Sport, che continuo ad amare in quanto splendido laboratorio culturale, e non avevamo l’incubo degli ascolti. Ai giovani dico: non smettete di essere curiosi.
A proposito di Fenoglio e Pavese, se le maggiori squadre della Serie A fossero scrittori, con il loro bagaglio di storie e tradizioni, quali scrittori sarebbero?
La Juventus sarebbe Ernest Hemingway. Il Napoli John Fante. il Milan Don Winslow e l’Inter Alessandro Manzoni. La Roma, invece, Pier Paolo Pasolini e la Lazio Mark Twain. Il Cagliari sarebbe Sergio Atzeni. La Fiorentina Antonio Tabucchi e il Torino Giovanni Arpino. Chiudo con il Chievo, perché mi fa pensare a Gianni Rodari.
Continuiamo questo gioco, se ti va, poniamo che il campo da gioco sia una tela e che la storia dell’arte moderna sia la storia del calcio. Poniamo che siano cinque i momenti chiave che hanno fortemente modificato la storia dell’arte contemporanea:
— l’invenzione della fotografia, che toglie alla pittura il monopolio sull’immagine;
— l’impressionismo, il cui interesse rivolto al colore piuttosto che al disegno fa prevalere la soggettività delle emozioni dell’artista;
— il cubismo, che osservando la figura da più punti di vista nello stesso istante, demolisce il concetto di prospettiva;
— l’opera di Kandinsky che teorizza e crea una pittura totalmente astratta che non ha più nessun legame con la realtà;
— i tagli di Lucio Fontana, che considera lo spazio della tela non più sufficiente alla rappresentazione della realtà e introduce il concetto spaziale, volto allo sconfinamento nel tridimensionale e all’azzeramento totale della finzione della prospettiva.
Ti andrebbe di affiancare a ognuno di questi cinque momenti una squadra, un calciatore, un allenatore o un movimento calcistico che hanno cambiato la storia dello sport?
Il Grande Torino mi fa pensare all’invenzione della fotografia, come rinnovamento dell’immagine e rottura dei monopoli precedenti. Mané Garrincha, invece, è il personaggio che assocerei all’impressionismo, mentre la distanza tra Diego Armando Maradona e Lionel Messi è quella che rivedo tra la rivoluzione della prospettiva del cubismo e l’astrazione irreale di Kandinsky. Per quanto riguarda Fontana e l’introduzione del concetto spaziale e dell’oltre-tela, dico Gigi Buffon.
La prima volta in cui abbiamo parlato mi hai raccontato di Gianni Brera, la cui autorevolezza la mia generazione ha fatto in tempo a respirare, prima di venire presa alle spalle da decenni di tormentoni televisivi e retoriche meno edificanti. Proprio per questa distanza percepita, dove si ritrova oggi una potenziale eredità di Arpino e Brera, se ne vedi una?
In Gianni Mura ed Emanuela Audisio. Per citarne due, tra i pochi. Leggeteli, e scusate: penso di essere andato, in alcuni passaggi, fuori tema. Ma questo sono io, da sempre.
Grazie a Michela Monferrini e a Fabio Imperiale per il prezioso contributo agli interrogativi con cui abbiamo assillato Darwin.